Mentre vi stiamo scrivendo, si è appena conclusa la seconda stagione di una delle serie tv più in vista del momento: The Last of Us.

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Tratta da un’imponente opera videoludica, tra le più importanti dell’ultimo ventennio, la produzione HBO è diventata in poco tempo un riferimento assoluto del piccolo schermo, nonché uno dei migliori esempi possibili di cosa significhi oggi realizzare un adattamento del genere. Al di là delle criticità – vere o presunte – riscontrate da parte del fandom legato al videogame, è innegabile che The Last of Us sia una serie tv ben fatta, pur tra alti e bassi: un’opera post-apocalittica solida e intensa, capace di capitalizzare al meglio il materiale originario con un’impronta autoriale chiara e meritevole di elogi. Se ne sta parlando parecchio, in un senso o nell’altro. Noi abbiamo fatto altrettanto all’interno delle nostre recensioni settimanali, ed è rassicurante vedere ancora in giro dei titoli del genere in una fase post Golden Age. Tuttavia, c’è da rimarcare anche un altro aspetto primario: è l’ennesimo adattamento.
Niente di sorprendente, a dirla tutta: la fase che stiamo vivendo attualmente è stata definita, da alcuni analisti, l’era della Peak IP. Ne avevamo già parlato di recente in un altro articolo, destinato alla fase precedente: la Peak Tv. Con quella definizione, coniata dal dirigente FX John Landgraf, uomo autorevole al punto da esser stato ribattezzato il “sindaco della tv”, si circoscrive il fenomeno di over-produzione del piccolo schermo, arrivata nel 2022 alla soglia record di 600 serie tv prodotte in un solo anno. Tante, troppe.
L’articolo sottolineò poi come si arrivò alla fase attuale, con meno serie tv. Rimandiamo al pezzo per gli approfondimenti estesi, ma quello che conta ora è che a un certo punto riportammo l’estratto di un focus dell’Hollywood Reporter, nel quale si parlava della IP Tv o, se preferite, della Peak IP.
Si legge:“Gli spin-off di serie di successo sono vecchi quasi quanto la TV stessa: i primi debuttarono alla fine degli anni Cinquanta. Lo stato attuale del settore, tuttavia, favorisce questo meccanismo. Le opzioni di visione pressoché illimitate rendono vantaggioso investire in franchise. Solo per quanto riguarda le reti televisive, la stagione 2023-24 presenterà 21 serie sceneggiate che fanno parte di un franchise, definito come uno show che ha dato vita a un’altra serie ambientata nello stesso mondo o che è a sua volta uno spin-off”. IP, infatti, sta per Intellectual Property, ovvero: proprietà intellettuale.
I franchise, in pratica. Adattamenti vari tratti da romanzi, opere videoludiche, fumetti e quant’altro, ma anche prequel, sequel, reboot e spin-off di vario tipo. I famigerati revival, spesso e volentieri fallimentari. Ma anche ampliamenti degli orizzonti su universi narrativi esplorati più e più volte negli ultimi anni. Il cinema è maestro in tal senso: le Intellectual Property occupano ormai una centralità assoluta, quasi esclusiva. Sopravvive solo un porzione di produzioni indipendenti, o di grandi autori che hanno guadagnato sul campo una libertà creativa che fa di loro dei franchise col loro stesso nome. Ecco, nelle serie tv sta succedendo altrettanto: abbiamo parlato di The Last of Us, ma gli esempi possibili sono innumerevoli. E basta dare una brevissima occhiata all’ultima classifica settimanale delle serie tv più popolari per farsi un’idea: delle venti che abbiamo riportato, almeno la metà sono riconducibili al concetto.
Il dato, ovviamente, è parziale, ma non servono chissà quali elementi per supportare la tesi.
In un mondo nel quale si sta limitando il numero di serie tv prodotte, si cerca di massimizzare gli investimenti su prodotti che portino con sé una certa solidità preliminare. Siamo nell’era delle IP, e chissà quanto durerà. A questo punto, però, una domanda è d’obbligo: è un male? Oppure è un’opportunità? Ma soprattutto: la nostalgia, in ogni sua forma, sta davvero uccidendo la creatività?
Risposta breve: sì, in parte. Ma solo fino a un certo punto.

La risposta breve è in parte associata alla foto: Better Call Saul, d’altronde, rientrerebbe canonicamente nella definizione di Peak IP, essendo parte del franchise di Breaking Bad. Quindi la nostalgia per la golden age, nonché l’eredità raccolta da un’opera derivata, figlia di una delle più grandi serie tv di tutti i tempi. Il punto, però, è uno: qualcuno oserebbe mai affermare che le certezze acquisite dal franchise, foriere quindi di una maggiore solidità ai nastri di partenza e di una riconoscibilità immediata, vadano di pari passo con una certa pigrizia sul piano autoriale? No, affatto.
Better Call Saul è una serie monumentale da ogni punto di vista, e sarebbe persino superfluo sottolineare perché. Altrettanto potremmo dire per esempio delle recenti Andor, inserita nello Star Wars Universe, The Handmaid’s Tale, derivata dallo straordinario romanzo distopico omonimo di Margaret Atwood, o di House of the Dragon, prequel di Game of Thrones. E ancora: Ripley. Silo. Fallout o la già citata The Last of Us. L’elenco sarebbe lunghissimo, con un elemento di continuità fortissimo: è possibile essere innovativi, se non addirittura sovversivi, anche con le regole del mercato assecondate dalla Peak IP. Lo è eccome.
Gli esempi citati portano con sé un’autorialità riconoscibile, un’espressività audace e una capacità di apportare costanti elementi di novità a universi narrativi già affermatisi in precedenza.
Nì, allora: le ali della creatività sono aperte, anche quando le condizioni preliminari sembrerebbero lasciare intendere il contrario. Ciò nonostante, non è tutto oro quello che luccica. Per numerosi esempi nobili tra le serie tv, ce ne sono altrettanti che meritano considerazioni opposte. Il panorama televisivo è pieno di titoli nati stanchi, opere generate col solo fine di assecondare successi pregressi e spremere i franchise finché possono, mettendo da parte qualsivoglia esigenza artistica.
Nell’ambito cinematografico – ma anche in quello televisivo, per gran parte – i fallimenti della Marvel negli ultimi anni dovrebbero dare un’indicazione sul fatto che il pubblico sia stanco di determinate automatizzazioni: i grandi nomi non bastano, se alle spalle non possono valorizzare una grande idea. E il mondo è pieno di operazioni nostalgia fallimentari in partenza, come successo di recente ai ritorni di The ’70s Show o di Frasier, due sitcom di riferimento degli anni Novanta e Duemila: si erano ripresentati con ambizioni rinnovate, e per quanto non siano prodotti scadenti non si sono manco avvicinati alle serie madre.
Le motivazioni che hanno portato a tutto ciò, d’altronde, sono chiare.
È una logica quasi pavloviana: se ti è piaciuto Breaking Bad, ti piacerà Better Call Saul. Se hai visto Il Signore degli Anelli, allora guarda anche Gli Anelli del Potere. La serialità si piega alla proprietà intellettuale come forma dominante di racconto, non perché manchino le idee, ma perché mancano le condizioni per rischiare. Le IP sono contenitori familiari, marchi forti, universi narrativi consolidati che si portano dietro pubblico, merchandising, sinergie intermediali. In fondo, cosa c’è di più rassicurante di una storia che conosci già, anche se in forma diversa? E qui la questione si fa più sottile: non è solo l’industria ad aver smesso di innovare, togliendo spazio alle serie tv nate da zero. È il pubblico stesso ad aver smesso di pretendere l’ignoto: ricerca l’originalità, ma con modalità rassicuranti.

Si entra nel terreno delle comfort series. E qui ci avviciniamo ancora di più al concetto di nostalgia, con una domanda: quante volte vi capita di preferire l’ennesimo rewatch della vostra serie tv preferita a una nuova visione? Tante, tantissime. È il caso di certe sitcom del passato, immortali al punto da riscuotere ancora oggi un grande successo. Friends e How I Met Your Mother, per esempio, ma anche The Office o New Girl.
Rewatch dopo rewatch, le serie tv più famose del passato sono ancora competitive rispetto ai nuovi titoli.
Da un lato è comprensibile, ma dall’altro si lamenta spesso e volentieri l’assenza – vera o presunta – di novità effettive. Ma in tutto questo, non possiamo limitarci a puntare il dito contro l’industria. Forse il nodo più spinoso è un altro: non è solo la serialità ad avere paura del nuovo. Siamo anche noi, come spettatori, ad aver smarrito la voglia di scoperta.
È questo il cuore della Peak IP: non solo il dominio dei franchise, ma l’addomesticamento della visione. La nostalgia, in questa prospettiva, non è solo un effetto collaterale. È la materia prima. Le serie non cercano più di stupirci, ma di rassicurarci. Di confermarci che il mondo, anche se cambia, può ancora somigliare a quello che ricordavamo. E non è un caso se l’intelligenza artificiale — la nuova protagonista silenziosa del racconto audiovisivo — viene impiegata proprio per ricostruire ciò che abbiamo già visto: volti ringiovaniti, voci sintetiche, attori “resuscitati”. Ne ha parlato di recente anche la settima stagione di Black Mirror, centrando il punto col riuscitissimo Hotel Reverie: l’innovazione tecnologica, paradossalmente, serve a simulare il passato. Il futuro, oggi, lo stiamo usando per replicare ieri.
A questo punto, potremmo scomodare anche qualche pensatore.

Mark Fisher parlava per esempio di realismo capitalista: l’idea che oggi sia più facile immaginare la fine del mondo che la fine dell’industria culturale così com’è. Fredric Jameson, invece, vedeva nella nostra epoca il trionfo del pastiche: imitazioni vuote, prive di intento critico, che mescolano il passato senza davvero capirlo. Senza annoiarvi oltremisura, si parlava di pastiche come della modalità dominante della cultura contemporanea: non più parodia o critica del passato, ma mimesi priva di contenuto critico.
Il passato diventa uno stile tra tanti. Un’estetica da indossare. Le serie tv che riproducono gli anni Ottanta o Novanta senza profondità sono perfetti esempi di questo pastiche. E poi c’è Baudrillard, che ci direbbe che viviamo immersi nei simulacri — copie di copie che hanno perso ogni legame con la realtà. In fondo, molte serie tv sembrano fatte proprio così: non per raccontare qualcosa di nuovo, ma per tenere in vita qualcosa che è già stato.
Ripetiamo ancora: è da molti punti di vista una brillante opportunità per mettere in scena – o mettere in scena ancora – qualcosa di speciale, ma anche il rischio di rifugiarci stancamente nelle vecchie certezze e non voler vedere cosa possa vederci oltre l’orizzonte. Un rischio, perché questa prospettiva non ci avrebbe mai restituito capolavori del calibro di Breaking Bad o I Soprano.
Ecco, forse è proprio questo il bivio davanti a cui ci troviamo e col quale dobbiamo fare i conti.
Da una parte, un ecosistema narrativo che si ripiega su se stesso, che mette in circolo gli stessi personaggi, gli stessi mondi, le stesse emozioni. Dall’altra, la possibilità che quegli stessi elementi vengano riscritti, ricalibrati, perfino traditi, pur di raccontarci qualcosa che ancora non conosciamo. La nostalgia può essere un motore o una zavorra. Un pretesto per inventare o una scusa per smettere di cercare. Il problema, quello vero, non è tutto ciò che abbiamo alle spalle: diventa tale solo nel momento in cui ci convinciamo che possa essere tutto quello che rimane da vivere.
Nostalgici, allora. Senza mai dimenticare il domani.
Antonio Casu