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Un Medico in famiglia 20 anni dopo: il riaffiorare dei ricordi

C’è stato un tempo in cui le mie nonne ogni domenica a pranzo erano da noi e, certe volte, si fermavano anche a cena. Erano le volte più belle. Io ero sempre un po’ triste quando le vedevo andar via e provavo a insistere con i miei genitori perché restassero. E quando accadeva, esultavo con altissimi salti di gioia. Iniziava l’autunno, riprendevano la scuola e il campionato di calcio. Di pomeriggio guardavo le partite con mio papà, alternandole alla ripetizione di un capitolo di storia e alle prime versioni di greco. Poi Novantesimo minuto, il TG, le chiacchiere a tavola e infine mia nonna che proclamava le fatidiche parole “metti sul primo che sta iniziando Un Medico in famiglia”.

Un Medico in famiglia – grafica della prima stagione- 225 × 225

Che meraviglia sederci tutti insieme sul divano mentre partiva la sigla allegra, sovraesposta e iper-colorata di verde piena di volti simpatici e affettuosi, ritratti nella cornice spensierata di una bella casetta, come fossero nostri amici. Che bello seguire, con i miei genitori e le mie nonne, le avventure della famiglia Martini capitanata da Lele e Nonno Libero, il nonno di tutti i bambini e gli adolescenti dei 2000. Era l’appuntamento fisso della domenica sera d’autunno. Casa Martini nelle nostre case, la certezza di una fiction familiare, informale e divertente, italiana senza che questo ne rappresentasse un deficit, come negli anni successivi – sempre più spesso – ci saremmo trovati a dire dei prodotti nazionali.

Dovremo aspettare il 2007 per l’arrivo delle illuminate riflessioni meta-televisive e dei momenti geniali di Boris: i discorsi amaramente sarcastici di René Ferretti sulla qualità della nostra produzione e il claim cult di Stanis “è troppo italiano… Shakespeare è troppo italiano!”. Stanis La Rochelle, star de Gli occhi del cuore, interpretato da Pietro Sermonti, divenuto noto al grande pubblico proprio grazie a Un Medico in famiglia dove ha interpretato, a partire dalla terza stagione, il dott. Guido Zanin. C’è dunque qualcosa, di qualitativo e storico, che lega “Un Medico in famiglia” a Boris e che possiamo ricordare con affetto e senza pregiudizi. Almeno per le prime stagioni, un tuffo indimenticabile nell’Italia di fine millennio.

La Rai, con Un Medico in famiglia, ha prodotto una delle serie più lunghe e prolifiche, e più amate, della storia della televisione italiana.

Ispirata al format spagnolo Médico de Familia, si compone di 10 stagioni andate in onda dal 1998 al 2016 e, soprattutto per le prime 4, rimane a oggi tra le più amate e ricordate, se escludiamo il ciclo di leggendarie miniserie impegnate de La Piovra e le detective stories civili come Il Commissario Montalbano.

La family fiction cavallo di battaglia della Rai, nella sua prima stagione (1998) che si conclude con la dichiarazione d’amore di Lele ad Alice in aeroporto, mentre quest’ultima parte per l’Africa, ha raggiunto uno share del 45%, qualcosa di simile a una partita dell’Italia ai Mondiali. Che si parli a lettori di primo o di secondo livello, per dirla con Umberto Eco, la ragione primaria che muove al consumo delle narrazioni seriali è la stessa: il desiderio di gratificare le proprie aspettative e di essere rassicurati dal ritorno dell’identico. Certamente, con l’evoluzione dei linguaggi e dei format, sempre più ibridi e dinamici, anche i nostri gusti sono cambiati e le caratteristiche da fiction all’italiana risultano oggi piatte, troppo costanti in una struttura bidimensionale, prive di evoluzioni. Tuttavia c’è un aspetto che rende serie televisive come Un Medico in famiglia uniche, non solo dal punto di vista della Storia della Televisione o della Semiologia, ed è il ricordo emotivo personale. Quello che ognuno di noi, per motivi e biografie differenti, trattiene dentro di sé e porta nel suo bagaglio di esperienze lungo gli anni, sino alla maturità e oltre. Con il suo colore sbiadito, il ricordo pian piano riguardando una serie, quando se ne sente il bisogno o un nostalgico desiderio ritorna – riacquista luce; i significati, persi nei meandri della memoria, tornano vivi, come se tutto fosse successo ieri.

Un Medico in famiglia
La famiglia Martini (639×427)

Ci sono serie che ci riportano indietro, nell’intimità dei nostri vissuti, delle nostre case, e riportano il nostro vissuto di ieri nell’oggi, sotto forma di pura emozione e dunque oltre ogni giudizio.

È questo potere spontaneamente evocativo che rende le Serie Tv la forma culturale per antonomasia del nostro tempo. Poter fare un rewatch significa poter riaprire, quando vogliamo, a nostro piacimento, assecondando il flusso dei pensieri, la porta del tempo e far rientrare i ricordi. Quante pagine, même, foto vediamo che portano il titolo “ti sblocco un ricordo”? Forse è perché ne abbiamo bisogno.

Risvegliare emozioni archetipiche, come quelle legate all’infanzia, può portare un senso di pace nel presente

Riguardare Un Medico in famiglia vent’anni dopo è sicuramente anacronistico da un punto di vista razionale, ma per qualcuno è una ricerca simbolica, è tirare fuori dall’armadio la coperta di Linus e, per qualche sera, abbracciare quell’oggetto transazionale che ci permette di tornare in relazione con noi stessi, con noi come eravamo da bambini. Per ricordarci cosa sentivamo e come percepivamo il mondo, anche attraverso il piccolo schermo che, dal secondo ‘900, diventa medium cruciale nell’articolazione della sfera pubblica e privata. E ancor di più lo diviene negli anni ’80 e ’90 con il proliferare di nuovi generi d’intrattenimento.

Come dice sempre Nonno Libero a figlio e nipoti “quello che io ero, tu sei e quello che io sono, tu sarai”.

La stessa frase vale per noi, verso noi stessi. Poco importa se il taglio di Un Medico in famiglia è pedagogico, come sempre è stato il progetto della Rai sin dalle sue origini. Poco importa che concept e sceneggiatura – mutuati dal format spagnolo per semplificare il lavoro – siano deboli. Peraltro, siamo nel pieno degli anni dell’importazione dei format dall’estero, in particolare dagli Stati Uniti dramedy e sit-com, dall’America Latina le soap opera e da paesi come la Spagna serie con leitmotiv culturali simili ai nostri, di solito totalmente conformi a valori e schemi di pensiero tradizionali.

Come spiega Aldo Grasso “difficilmente la fiction italiana si confronta con le tematiche della società contemporanea o sa rappresentare realisticamente la quotidianità, preferendo investire su un eroe comune, di solito uomo, che affronta, con dedizione verso il prossimo, problemi non troppo distanti da quelli dello spettatore, smorzando i toni dei conflitti per una rappresentazione pacificata della società”.

In questa analisi, ritroviamo pienamente i tratti stilistici e di contenuto di Un Medico in famiglia, meno invece di altre serie RAI come La Piovra che insistevano su una forte critica sociale al nostro sistema politico, su corruzione e lotta per la legalità. All’eroismo di commissari e poliziotti anti-mafia, qui si sostituisce un eroismo familiare, comune, buono e positivo: il super papà, bello e bravo, medico di un ambulatorio pubblico – una ASL di Roma – i figli bene educati, ribelli in modo ordinario e al punto giusto, senza slanci ideologici o politici, cresciuti con amore e devozione in un’accogliente casa residenziale nel quartiere di Poggio Fiorito, con i nonni (che suppliscono affettivamente al dolore per la perdita della mamma) e Cettinala ragazza alla pari”, che diventa membro aggiunto della famiglia, la zia Alice (Claudia Pandolfi) giovane e attraente single che simboleggia l’indipendenza femminile ma anche l’attaccamento fanciullesco alla famiglia, Giulio (Ugo Dighero) l’amico di Lele orfano e scapolo, lo zio adottivo, sempre ospite in Casa Martini.

I valori sono quelli di una famiglia italiana mediamente acculturata e informata, democratica e progressista. Nonno Libero (uno straordinario Lino Banfi che, a distanza di vent’anni, rimane attuale con le sue perle di saggezza popolare e le gag tutt’oggi divertentissime) è un ferroviere in pensione, sindacalista, impegnato nella cura della casa e dei nipoti, con un immane senso della famiglia. Semplici ma fondamentali regole: si pranza e si cena insieme, ci si rispetta, ci si aiuta, si studia, si dialoga ma alle volte “una parola è troppa e due sono poche”: la massima diventata pietra miliare tra le citazioni di Lino Banfi. Un attore amato da tutte le generazioni, dai tempi dell’avanspettacolo e del cabaret televisivo con Renzo Arbore, passando per il cinema dove ha lavorato con Nanni Loy, Luciano Salce, Dino Risi, fino al suo ruolo definitivo: Nonno Libero Martini. Il suo amore per i nipoti è ancora oggi vivo, realistico e commovente.

Un Medico in famiglia
Lino Banfi è Nonno Libero (677×381)

Nonostante i temi, in perfetto stile Rai, siano sempre trattati in modo soft – anche quelli più complessi come il sesso, l’uso di droghe, la violenza sulle donne – c’è un livello di tenera profondità e riflessione sociale che Lino Banfi riesce ad aggiungere alla serie. Figlia di repertori che attingono al teleteatro, Un Medico in famiglia – grazie ad attori come Lino Banfi, Giulio Scarpati, Milena Vukotic (l’indimenticabile nonna Enrica) Lunetta Savino (Cettina) – non annoia, resiste al tempo e all’avanzare della società. E lo fa in modo armonioso e gradevole, bilanciando bene le qualità recitative – in certi casi, parecchio discutibili per non dire da ”cani” – del variopinto cast.

Un rewatch di Un Medico in famiglia 20 anni dopo significa anche emozionarsi nel ritrovare oggetti e simboli di fine millennio.

Guardando due episodi in prime time la domenica sera – per replicare anche lo schema temporale serializzato dei palinsesti Rai – vengono sbloccati moltissimi ricordi legati alle cose, ma anche ai mood e agli outfit. Salopette e pantaloni a zampa, zaini Seven e Invicta, sale giochi e videoteche dove noleggiare i VHS.  Un’unica televisione per tutta la famiglia in soggiorno dove Nonno Libero vuole guardare “Tribuna Politica “ e Ciccio i film sui mostri. 

Nella camera dell’adolescente Maria spiccano i poster delle Spice Girls e dei Backstreet Boys. L’idolo del momento è un giovanissimo Leonardo Di Caprio giunto al successo planetario con Titanic. Arrivano i primi computer casalinghi, che gli adulti, come Lele, faticano persino ad accendere, la videoscrittura con Word: siamo nel proto-Internet e ancora in casa non c’è il Wi-Fi ma i telefoni fissi della SIP e poi i primi cellulari, quelli giganti con l’antenna. 

Riguardare Un Medico in famiglia è come tornare indietro su una macchina del tempo, come in Ritorno al Futuro. Riassaporare uno spaccato familiare e sociale dell’Italia. Ricky Martin non aveva ancora fatto coming out e il mondo gay inizia a essere morbidamente rappresentato dalla figura del dott. Oscar Nobili (interpretato da Paolo Sassanelli). Nulla di paragonabile alle conquiste e allo sfondamento coraggioso dei temi delle serie contemporanee. Tuttavia, se a questo coraggio narrativo si è giunti, è anche perché abbiamo attraversato la fase di serie laiche, generose e aperte come Un Medico in famiglia, che un ritratto, dai toni leggeri, del tempo e dei costumi lo hanno dato.

Non era usuale in Italia la continuità multistagionale come nelle serie americane; spesso si avevano in Rai gli sceneggiati tratti da opere letterarie o teatrali, adattati alla televisione, suddivisi in quattro, sei o otto episodi da un’ora ciascuno e conclusi. È con Un Medico in famiglia – e altre fiction come Distretto di Polizia – che prende vita il susseguirsi delle stagioni, numerate 1-2-3, in linea con la crescita degli attori. Non spicca tanto Lino Banfi che resta se stesso, roccia della serie, quanto i piccoli come Ciccio e Annuccia Martini (fratello e sorella anche nella vita reale, Micahel ed Eleonora Cadeddu) che di fatto crescono con il pubblico dei bambini.

Lungo la serie, troviamo anche Guest che oggi vivono nuovi momenti di splendore come una, a rivederla adesso, incredibilmente giovane Orietta Berti che, con Nonno Libero, canta alla Festa di Natale ’98 dei Ferrovieri. O Gigi Marzullo, già allora compagno della notte, che intervista Alice, la zia che – non si capisce perché – sta diventando famosa come giornalista radiofonica. O ancora gli 883, colonna sonora degli anni ’90 e 2000. Indimenticabile e toccante la puntata ”Hanno ucciso l’uomo ragno” che si chiude con Max Pezzali in casa Martini a intonare l’inno ”Come mai” con Lele al pianoforte e tutta la comunitaria famiglia.

Sullo sfondo ci sono i Natali, le estati, le separazioni dei nonni, vecchi e nuovi amori, i tratti del Medical solo per la presenza dei dottori. Sono le ultime stagioni, degli anni 10, che, rivisitando temi e linguaggi, guardano a Grey’s Anatomy e a certa tensione propria dei migliori medical drama internazionali e tentano, invano, di emularla. Quello delle stagioni storiche – con Lino Banfi e Giulio Scarpati alla guida – è invece un quadro felice ed edulcorato, definito “modello di ASL sperimentaledella sanità pubblica italiana. Una simpatica utopia.

Nello scorrere del tempo, si osserva una progressiva emancipazione, ma mai di rottura, dei ruoli femminili e un livello ancora del tutto impreparato nel raccontare il tema del razzismo e delle diversità culturali non solo sul piano della rappresentazione quanto su quello lessicale e linguistico che oggi farebbe rabbrividire, in un tempo in cui il linguaggio inclusivo ha sempre più rilevanza pubblica.

Soffermandoci sullo sguardo oggettivo, sono dunque evidenti limiti, grossolanità e anacronismi tematici; si nota anche l’assoluta ripetitività di concept, scene, dialoghi, ambienti; la luce non è del tutto smarmellata ma di certo molto aperta.

Per un pubblico ormai appassionato di variazioni, introspezioni, buio, sottosopra, distopie, Un Medico in famiglia è quanto di più classico, semplificato e divulgativo possa esistere. 

Tuttavia proprio da qualche giorno le prime 4 stagioni – prima disponibili solo su Rai Play, celate dentro un universo di titoli troppo variegato che include anche serie che purtroppo non ha visto quasi nessuno, seppur meritevoli – sono approdate su Prime Video. Segno di un catalogo stanco o di un ricordo dal gusto retrò a cui siamo legati, così lieve e coinvolgente da poter tornare attuale e magari raggiungere e divertire anche nuovi pubblici? Tra tutti i teen drama, le serie angoscianti, i thriller agghiaccianti, ogni tanto è bello un po’ di delicato, semplice revival. C’è un rifugio e un senso di pace senza pretese.

C’è la bellezza della famiglia. Per chi ha la fortuna di averla, per chi l’ha avuta e non ce l’ha più.

Quella persa o lasciata. Quella che si desidera costruire e Un Medico in famiglia, ancora oggi, insegna molto su cosa vuol dire volersi bene, crescere insieme e rispettarsi. Su come si può essere famiglia. Con una visione aperta verso tutte le possibilità, basta che ci sia l’amore, moderna nonostante i suoi 24 anni.

Nonno Libero con Ciccio e Annuccia (650×464)

In Lino Banfi e il suo Nonno Libero c’è il ricordo dei nostri nonni e delle nostre nonne.

La tolleranza per le bravate, il loro amore incondizionato, i patti di fiducia. Nel revival di Un Medico in famiglia ci sono le stanze in disordine, con il letto da rifare e le scrivanie piene di libri e cd, i soggiorni illuminati alla sera mentre un papà o un nonno leggono L’Unità seduti in poltrona. C’è il profumo della domenica. Quando stare insieme è un momento di gioia, di quelli che vanno custoditi per sempre. 

Ci sono Serie Tv che, più di libri o vecchi film, per la loro stessa natura di medium scomponibile e visuale, permettono, di rivivere – per mezz’ora, due ore o settimane, sul nostro divano di oggi – quelle scene di ieri. Vederle, sentirle, in una sinestesia di emozioni, in una mimesi aristotelica della vita reale, ma senza i problemi, solo con la fantasia di veder riaffiorare magicamente i nostri ricordi più cari.

E per voi, qual è la serie rievocativa dei vostri ricordi più belli?