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Il successo trasversale di The Last of Us non ha lasciato al riparo la serie da critiche più o meno fondate. Da un lato ci sono gli ortodossi del videogame che si indignano per una trasposizione poco fedele, non in grado di trasmettere le stesse emozioni delle scene del gioco. Dall’altro polemiche ancor più becere per episodi filler (sì, mi riferisco al terzo episodio) spesso strumentalizzate dalla destra americana per arginare, a dire loro, le esondazioni di propagande gender. Io -voglio chiarirlo fin dall’inizio- non mi ritrovo nelle lamentele dei primi né tantomeno in quelle dei secondi.

Joel e Ellie
Ellie (640×360)

Non vengo infatti dal confronto con il videogioco e non faccio polemiche strumentali a fini politici, né – spero – soffro della stupidità acuta di cui è affetto chi ha criticato il terzo episodio per i motivi che tutti conosciamo. Quando dico perciò che The Last of Us ha anche dei difetti tengo subito a precisare con i miei interlocutori che non sono quei difetti che si aspettano loro. Anche con voi, lettori, metto subito le mani avanti sperando di evitare di essere frainteso. La domanda che vi pongo, e che sempre dovremmo porci, in fondo, è una e una sola: ti è piaciuto quello che hai visto? A cui segue, per chi recensisce un qualunque prodotto, dalle pentole di Amazon, al pizzicagnolo sotto casa fino a un prodotto televisivo, un altro necessario quesito: perché ti è/non ti è piaciuto? Questo articolo proverà a rispondere a quest’ultima, bifrontistica, domanda. Una risposta che, per quanto soggettiva, tenterà di considerare aspetti oggettivi, nella consapevolezza che una valutazione più generale è sempre possibile per tutto, al netto dei gusti personali.

Iniziamo col dire che a me The Last of Us è piaciuta/non è piaciuta.

Nel mio bifrontismo (esistenziale?) trovo vere entrambe le affermazioni. È piaciuta, anzitutto perché sceglie di compiere una scelta importante: mette fortemente in secondo piano il genere zombie per dare preminenza alle relazioni tra i personaggi. Già questo dovrebbe dirla lunga su The Last of Us e la sua volontà di creare una narrazione molto più profonda e psicologica. Nulla contro gli zombie movie (cadremmo nel gusto soggettivo nel condannare un’opera per questo) ma all’azione la serie preferisce la riflessione e spesse volte con capacità e trasporto tutt’altro che scontati. Il terzo episodio è un vero e proprio gioiellino in questo senso e importa sinceramente molto poco che sia sconnesso dalle altre puntate, dal racconto, dal videogame e dal concetto di morale dei conservatori americani. Ce ne facciamo tranquillamente e beatamente una… ragione sotto ogni punto di vista.

Episodio 3
Episodio 3 (640×360)

È un episodio che sa coinvolgere, commuovere (con- moveo, muovere insieme) e restituire la bellezza di una favola agrodolce delicata e intensa. Quando The Last of Us riesce in questo -e ammetto che vi riesca anche in altri momenti- è il miglior prodotto possibile, non possiamo desiderare molto di più. Ma siamo proprio sicuri lo faccia con costanza? Anzitutto, consideriamo un elemento: se rinunci all’azione, come accade per larghissime parti dello show, devi compensare con una qualità nella trattazione psicologica dei personaggi che sia molto al di sopra della norma. Pensiamo a Better Call Saul, pure criticato (ingiustamente) per essere molto meno dinamico di Breaking Bad che è perfetta sintesi di azione e riflessione.

Better Call Saul aggira in scioltezza questa “debolezza” accentuando da vero e proprio capolavoro la psicologia di tutti i protagonisti, scavando a fondo nelle loro vite, nei loro comportamenti, andando a indagare le origini delle maschere che tutti noi finiamo per indossare. Il tutto veicolato anche da immagini pittoriche, virtuosismo registico (che non è mai solo tale) e da un simbolismo cromatico che ci mettono di fronte a un Van Gogh che ci suscita ammirazione estatica e riflessione emotiva. A mio parere questa superiore ricerca psicologica in The Last of Us non c’è o è comunque molto ordinaria.

Tutto ruota quasi interamente attorno alle due figure di Ellie e Joel.

Il loro è un rapporto che si costruisce e consolida nel tempo, che si approfondisce col passare degli episodi e delle circostanze e che tanto ha colpito gli estimatori della serie. Il passato di Joel si riattualizza nel presente tra la reticenza e l’attrazione per questa adolescente tanto diversa eppure simile alla sua defunta figlia. Va da sé che il passato di Joel come di Ellie sia ben definito e piuttosto chiaro fin dall’inizio: il momento della nascita di Ellie (episodio 9) va a completare il quadro ma non lo altera più di tanto. Da subito sappiamo che Joel è un padre in lutto, un uomo che ha perso fede e speranza, mentre Ellie un prodotto del suo tempo, figlia di un mondo ormai aggressivo, duro e inospitale.

Quello che ne deriva sa molto di pilota automatico: una volta messi vicini questi due personaggi, gli esiti del rapporto sono scontati in partenza. Sappiamo già che Joel finirà per trasferire in Ellie, con le dovute distanze, l’immagine della figlia e che lei proietterà in lui quella di un padre che non ha mai avuto. Sinceramente, dovessi fare una riflessione più approfondita a partire da questa basilare constatazione andrei in difficoltà. Un intero articolo dedicato al loro rapporto rischierebbe di portarmi via davvero poco tempo per la stesura (e ancor meno per voi nella lettura), senza risultare ridondante e noioso. E viene da chiedersi come mai una serie che basa tutto su due personaggi e sulla loro interazione abbia così pochi spunti da offrire. Ma ammettiamo pure sia un mio limite.

the last of us
Ellie e Joel (640×360)

Se in Better Call Saul si potrebbero scrivere interi tomi sulla straordinaria complessità della relazione tra Kim e Saul (e se ne son scritti), in The Last of Us non percepiamo nulla di nuovo rispetto a un generico senso di “già visto”. La valutazione oggettiva poi, inevitabilmente, si fonde e arricchisce con la soggettività: segui il tuo cuore, dicevano i biglietti dei cioccolatini, e a seguire quello che sento, posso dire di essermi davvero immerso nella storia soltanto in alcuni, più rari momenti.

Fa riflettere, tra l’altro, che il massimo trasporto lo si abbia avuto in un episodio filler in cui non compare nessuno dei due protagonisti.

Lo so, sembra ne stia uscendo un quadro eccessivamente negativo per The Last of Us ma concedetemi qualche esagerazione a fini drammatici. A conti fatti, quello che vediamo in The Last of Us è una buona storia, un road movie che ha sempre dalla sua parte il vantaggio di un cambio di scenari e situazioni, e una discreta, forse ottima rappresentazione dei due protagonisti, tridimensionali e credibili. Certo, però, non particolarmente innovativi rispetto a caratteri tratteggiati in altre serie e prima d’ora. Nulla da eccepire sull’interpretazione: Pedro Pascal e Bella Ramsey sono davvero il meglio che avremmo potuto desiderare.

Pedro Pascal
Pedro Pascal e Bella Ramsey (640×360)

E allora? E allora forse bisogna giungere a un compromesso: The Last of Us è un bel prodotto ma ha anche dei difetti che non lo rendono uno straordinario prodotto. Che lo rendono, in sostanza, imparagonabile a ben altre serie che pure hanno fatto del tratteggio dei characters pardon, personaggi- -oh, perdonate di nuovo il forestierismo “pardon“- la loro forza. Ma non tieni conto della chimica tra Ellie/Ramsey e Joel/Pascal? Fantastica, senza dubbio: reale, viva, un piacere per gli occhi, come già lo era stata quella tra i protagonisti di Stranger Things. Quello che manca, a mio giudizio, non è da imputare a colpe degli attori ma a limiti strutturali di una serie che -si percepisce- affonda le sue radici nel videogioco.

Detto che fatico a trovare qualcosa che mi abbia fatto commuovere come un gioco (Final Fantasy, per la cronaca), una serie è un altro mondo, che passa anche e soprattutto dalle pause, dall’indugiare, colpevole, della telecamera, dalle associazioni visive, dallo scambio di sguardi, dai parallelismi tra scene, dai dialoghi e silenzi. Un gioco, per forza di cose, non può elevare le immagini a film (seppur ci si avvicini) e The Last of Us, a mio personalissimo giudizio, rimane troppo fedele (eccone un altro: ci mancava solo chi accusasse la serie di eccessiva fedeltà, lo so) al videogame non elevandosi, tranne in alcuni momenti, a serie. Un esempio su tutti: ho capito immediatamente che la scena della giraffa era qualcosa di trapiantato dal videogame. Mi è risultata posticcia, improvvisa, sconnessa. Poi l’ho rivista nei filmati del gioco e ne ho capito meglio il senso.

Allora forse il limite di questo show è tenere i piedi in due staffe.

Da un lato voler piacere a chi viene dal prodotto videoludico, dall’altro riuscirsi a presentare come serie autonoma. L’obiettivo è parzialmente raggiunto: The Last of Us risulta credibile come serie e coerente col gioco. Solo a tratti ottiene critiche sensate per mancanze rispetto al gioco e rispetto a una serie di alto livello. Ma, a mio parere, è un inevitabile limite strumentale di chi aspira ad accontentare tutti. Egoisticamente e soggettivamente avrei detto: lasciate stare il gioco, concepitela come serie tv in tutto e per tutto ma siamo proprio sicuri non avrebbe ottenuto ancora più critiche? Penso proprio di no.

The Last of Us
Una rara scena con scenografia “seriale” (640×360)

E questo è quanto. È semplice rifuggire dalle critiche politiche come da quelle dell’ortodossia da gamer, ma è altrettanto scontato, per me, valutare The Last of Us concedendogli la dignità di prodotto seriale nudo e crudo. La valutazione che ne scaturisce è quella di un buon show con due grandi interpreti, una storia piacevole, momenti toccanti e in generale una trama godibile che manca di quel quid che le farebbe guadagnare una categoria o due. Insomma, The Last of Us non è Better Call Saul, non è Succession, non è Scissione, non è quella serie. Ma, in fondo, aspira davvero a esserlo? Probabilmente no. A volte, oltre a un Van Gogh ci serve un Brueghel, con la sua quotidiana, immediatissima, grottesca umanità. E The Last of Us la mette in scena con grande piacevolezza, senza inventarsi nulla.