Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su The Bad Guy.
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Quando una serie televisiva riesce a intrecciare abilmente ironia, satira, noir e riflessione morale, la domanda che accompagna lo spettatore fino all’ultimo episodio riguarda quasi sempre la destinazione del protagonista. In The Bad Guy, ora su Prime Video, il cuore pulsante della narrazione è Nino Scotellaro, magistrato siciliano interpretato da Luigi Lo Cascio, che da servitore della legge viene accusato ingiustamente di collusione con la mafia, perdendo reputazione, dignità e vita privata. Da qui prende avvio la sua trasformazione: un uomo che aveva fatto della legalità la propria missione decide di indossare i panni del cattivo, abbracciando un’identità criminale come vendetta e come ultimo strumento di riscatto.
Proprio questo ribaltamento, che già di per sé affronta con personalità le convenzioni del racconto classico, rende ancora più urgente interrogarsi su quale dovrebbe essere un finale giusto per una storia simile. Un epilogo ideale, però, non coincide necessariamente con quello che rende felice lo spettatore o che ricompone armoniosamente i conflitti. Nel caso di The Bad Guy, un vero finale riuscito dovrebbe mantenere la complessità che ha caratterizzato la serie sin dall’inizio, evitando soluzioni semplificanti e rispettando la natura ambivalente del suo protagonista. Nino non è un eroe tradizionale, e non lo è neppure quando veste i panni del villain. La sua parabola, al contrario, mette in discussione la possibilità stessa di tracciare un confine netto tra buoni e cattivi in un contesto, quello siciliano, dove il potere spesso si traveste da giustizia e quest’ultima può scivolare nell’arbitrio.

The Bad Guy non dovrebbe redimere Nino completamente
Tuttavia, Scotellaro non dovrebbe nemmeno essere condannato senza appello. Sarebbe troppo facile immaginare una conclusione in cui il protagonista viene definitivamente annientato, magari punito dal destino per la sua caduta morale, o al contrario un’altra in cui riesce a dimostrare la propria innocenza e a tornare alla vita precedente, come se nulla fosse accaduto. Entrambe le strade rischierebbero di cancellare la complessità della sua metamorfosi e, soprattutto, il significato satirico della serie: quello di mostrare un sistema marcio, dove il confine tra giustizia e ingiustizia è sottile e continuamente manipolabile.
La chiusa di The Bad Guy dovrebbe quindi giocarsi sull’ambiguità. Un possibile scenario potrebbe essere quello di una vittoria apparente di Nino, secondo cui il magistrato diventato criminale riesce finalmente a smascherare i veri responsabili del suo disonore e a gettare luce sulle collusioni tra mafia e istituzioni. Ma questa vittoria, lungi dall’essere liberatoria, porterebbe con sé un prezzo altissimo. Nino, infatti, non potrebbe più tornare a essere ciò che era. Il suo percorso lo ha contaminato, lo ha reso parte di quel sistema che voleva combattere. Pertanto, potremmo immaginarlo seduto in solitudine, con la consapevolezza amara di aver avuto ragione e torto allo stesso tempo, vincitore e sconfitto, liberato e insieme prigioniero della sua stessa metamorfosi.
Interessante sarebbe un’analisi su identità VS maschera
Nino, nell’assumere i panni del “bad guy”, ha scoperto che il confine tra il ruolo imposto dall’accusa e la propria intima natura si è progressivamente dissolto. La fine perfetta dovrebbe mostrarci la difficoltà di distinguere ciò che egli è diventato per scelta da ciò che invece il sistema lo ha costretto a diventare. Una scena emblematica potrebbe consistere nel suo confronto con chi ancora lo conosce come magistrato integerrimo. Laddove uno sguardo, una parola, un silenzio renda impossibile capire se l’uomo che abbiamo davanti sia ancora animato dal desiderio di giustizia o se abbia ceduto definitivamente al richiamo del potere criminale.
In questo senso, The Bad Guy non avrebbe tanto una conclusione narrativa nel senso tradizionale, quanto piuttosto un punto di sospensione. Un finale aperto che obblighi lo spettatore a interrogarsi sulla fragilità dei valori democratici, sulla vulnerabilità degli individui dentro sistemi corrotti, sulla sottile linea che divide giustizia e vendetta. Non un trionfo netto né una disfatta totale, ma la permanenza di un dubbio. Perché se la serie ha raccontato la trasformazione di un uomo sotto il peso dell’ingiustizia, il vero colpo di scena sarebbe costringere chi guarda a domandarsi: e io, al suo posto, cosa avrei fatto?

Immaginiamo una scena finale dettagliata e visionaria
La notte è scesa su Palermo. La città, illuminata da lampioni giallastri e dal riflesso dei fari delle auto che attraversano il centro, sembra sospesa in un silenzio irreale. In una stanza spoglia di un vecchio palazzo nobiliare abbandonato, Nino Scotellaro è seduto su una sedia, con lo sguardo fisso davanti a sé. Sul tavolo, di fronte a lui, ci sono i fascicoli che dimostrano la collusione tra mafia e istituzioni. Quei documenti che potrebbero restituirgli onore e, al tempo stesso, condannarlo definitivamente. Ha in mano una sigaretta, ma non la accende: il fumo pare ce l’abbia già dentro di sé.
Dalla finestra si sentono in lontananza le sirene, mescolate alle voci concitate di una Palermo che continua a vivere, ignara della guerra silenziosa che si è appena consumata. Nino sorride amaramente perché ha vinto e ha perso insieme. I suoi nemici sono stati smascherati, i corrotti messi a nudo. Ma il prezzo è stato troppo alto. Di fatto, per riuscirci, Nino ha dovuto usare gli stessi strumenti dei criminali che aveva combattuto per tutta la vita. Ha mentito, manipolato, ucciso. È diventato ciò che aveva giurato di distruggere. La porta si apre lentamente ed entra Luvi, la moglie. Non parla, lo guarda soltanto. Gli occhi di lei sono un misto di rabbia e compassione, di incredulità e rassegnazione.
Il Bad Guy non si alza né prova a giustificarsi
Egli solleva appena lo sguardo e mormora, con un filo di voce: “Ho fatto giustizia”. Luvi scuote il capo. Dopo un lungo silenzio, replica fredda: “No, Nino. Hai fatto vendetta.” Poi esce, chiudendo la porta alle sue spalle. Nino rimane solo. La cinepresa indugia sul suo volto segnato, sugli occhi lucidi, ma non scivola mai sulla lacrima liberatoria. Dal tavolo prende i fascicoli e li accosta a una candela accesa. Le fiamme cominciano a divorarli lentamente, pagina dopo pagina, mentre lui resta immobile a osservare.
Con quel gesto, rinuncia alla possibilità di ripulirsi agli occhi del mondo. Decide di custodire dentro di sé la verità, lasciando che la sua immagine pubblica rimanga quella del “bad guy”. La macchina da presa si allontana, inquadra Nino di spalle, piccolo rispetto alla stanza grande e spoglia. Dalla finestra aperta entra il rumore del mare, distante ma costante. Sullo schermo resta la sua figura ferma davanti alle fiamme, fino a che il buio non inghiotte tutto. Nessuna parola finale, nessuna certezza. Solo un uomo che ha attraversato il confine e non può più tornare indietro.

Dopo i titoli di coda appare un epilogo post-credito
Una spiaggia deserta, al tramonto. Un bambino gioca con la sabbia, costruendo castelli che le onde lentamente sgretolano. Poco più in là, su una sdraio logora, un uomo legge il giornale. Non si vede mai il volto, solo le mani segnate, la sigaretta accesa che arde lenta, e il titolo in prima pagina che parla di un nuovo scandalo politico e giudiziario in Sicilia. Il bambino corre verso l’uomo gridando “papà!”, e per un attimo la camera indugia sul suo profilo sfocato: potrebbe essere Nino, o forse no.
L’inquadratura resta volutamente ambigua, e l’unico suono che accompagna la dissolvenza finale è il rumore del mare. Lo stesso che si sentiva dalla finestra di quella famosa stanza. Schermo nero. Nessuna risposta definitiva, ma un solo dubbio che resta sospeso. Così, The Bad Guy troverebbe la sua chiusura più coerente, non offrendo soluzioni, ma consegnando allo spettatore un’immagine potente e indelebile di ambiguità morale. Un finale che non libera, ma che continua a bruciare dentro, proprio come le carte che si consumano davanti allo sguardo del protagonista.
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