Prima di iniziare The Bad Guy non è che partissi da un preconcetto ma da una sconsolata consapevolezza: l’Italia non è paese adatto a un drama. No, non lo è: e lo dimostrano i tanti infruttuosi tentativi fatti. I soliti paesini arroccati, i volti banali di uomini comuni, medi, senza verve non sono roba per drama. E sì, non è stato sempre così perché se ripensiamo agli anni ’60 riusciamo ad avere vivida nella mente l’immagine dei ruvidi, espressivi, neorealistici sguardi di tanti personaggi pasoliniani e la languida vacuità di quelli di Antonioni che si fanno trasognati e a tratti spacconi in Fellini.
Sì, è vero, c’è stato un tempo in cui perfino Il Vangelo secondo Matteo e la Medea trovavano incredibile e credibile rappresentazione tra i sassi di Matera, Pisa e il Friuli. Certo, ma quello era il nostro cinema, era il cinema che nasceva da noi e sbocciava grazie a noi. Grazie a un’Italia in rapida trasformazione, in costante tensione tra il brullo presepe delle campagne e le luci brillanti di vitelloni di città. Ma poi i tempi sono cambiati, il cinema è cambiato… E sì, finché riproponiamo il nostro sguardo, quello sguardo che gli americani ci hanno a lungo invidiato, va tutto bene, funziona fin troppo. Lo sa bene Sorrentino, acclamato per un capolavoro filmico che però è esattamente quello che gli Oscar si aspettano ancora dall’Italia del cinema: stile, dolce far niente, poesia e lento scorrere dell’uomo illanguidito e inaridito dalla mondanità. Da Mastroianni a Servillo.
Ma le serie tv, e i drama in particolare, sono un’altra cosa.
Non c’è posto per l’Italia dei dialetti, delle piazze, del cibo e del calcio. Perfino una serie drammatica come Romanzo Criminale, riuscitissima, non è però minimamente esportabile all’estero. Parla un codice tutto italiano, anche nel romano standard, che funziona benissimo se il fruitore è nostrano ma perde senso per uno straniero. E allora no, non si possono fare drama in Italia. E, attenzione, non dico che non ne siamo in grado noi: anche quando ci hanno messo mano gli altri non è stato diverso. Un drama di critica sociale come The White Lotus, ambientato in Sicilia nella sua seconda stagione, ha sfruttato i luoghi esattamente come ci si sarebbe aspettato: stereotipando ed esasperando volutamente ambienti e soprattutto personaggi. Lo dimostra il successo transoceanico di Sabrina Impacciatore, prototipo ideale dell’italiano sopra le righe tanto amato dagli americani.
Non prendiamoci in giro, immaginate la prima stagione di True Detective senza le bayou della Louisiana, quello spazio paludoso, gotico e incontrollabile in cui l’irrazionale, l’orrorifico, il satanico e il rituale si mescolano incessantemente lasciandoci senza fiato. E cosa sarebbe Twin Peaks senza i sicomori e gli abeti, senza il buio etereo della foresta in cui forze ataviche si incontrano e scontrano dalla notte dei tempi? Non è un caso che l’associazione di serie straniere di qualità a contesti italiani si traduca spesso in meme: numerose sono le pagine che su questo contrasto hanno costruito la loro fortuna. E questo non deriva solo dal fatto che gli italiani prediligano e producano fiction di scarso valore, un tanto al chilo, che si avvicinano più alle soap che a dei veri prodotti seriali. No, il problema è strutturale, è l’Italia.
Tutto “troppo italiano“, direbbe Stanis che pecca certo di xenofilia ma non sembra andare troppo distante dalla verità. Si respira troppa italianità in questo Paese, troppa provincia, troppo folklorismo, troppo realismo spicciolo. E certo, funzionava molto bene quando il realismo era quello di uomini interessanti, esasperandosi nei volti, nei modi, negli ambienti. Ma ora che siamo grigie macchiette di noi stessi? Ci sembra solo un paese troppo piccolo, in tutti i sensi, per esprimere le atmosfere necessarie a un drama. O almeno così pensavo fino alla visione di The Bad Guy.
The Bad Guy fa qualcosa che nessuno aveva neanche sognato di fare negli ultimi cinquant’anni: un drama internazionale.
Ma come, direte voi, un drama internazionale in dialetto e ambientato in Sicilia? Ebbene sì, perché quel dialetto e quella Sicilia sono sfruttati in modo totalmente nuovo, un modo che credevo impossibile. Quello di The Bad Guy non è un dialetto, men che mai, “il siciliano”. È uno slang, anzi, diversi slang, una serie di parlate che si adattano non a un popolo intero ma a varie classi sociali e umane. Nella già citata True Detective i poliziotti hanno un loro linguaggio, diverso da quello degli abitanti delle bayou. Perfino Marty parla con una calata diversa da quella di Cohle: ogni slang diventa espressione di un modo di essere, più che di una provenienza territoriale. Così è anche per The Bad Guy dove non c’è “il siciliano” ma c’è la parlata del pubblico ministero palermitano che è diversa da quella del viddano (“villano”, “rozzo”) pentito di Mafia, che è diversa da quella del carabiniere.
Non è il siciliano “standard”, quello smerciato dalla tv generalista, fatto di vocali aperte e fastidiosi acuti ma un palermitano sporco, parlato e vissuto dai personaggi, che si modella al loro stile e al loro credo. Non solo. The Bad Guy riesce a plasmare anche quel paesaggio, quei luoghi che ci apparivano ormai da cinquant’anni irrimediabilmente condannati allo stereotipo. Gli spazi del palermitano e del trapanese si dilatano, assumono contorni indefiniti e alienanti come quelli di certi non luoghi urbani e isolani di Antonioni. Il mare diventa oceano, il borgo si svuota, perde le sue connotazioni folkoristiche per diventare spazio sospeso, terra di nessuno. Così è una quasi irriconoscibile Marsala, privata dei suoi monumenti distintivi, così Balata di Baida che è terra di mezzo, luogo di passaggio da e verso la brulla quintessenza del deserto.
Non è il siciliano, non è la Sicilia che ci aspetteremmo. Men che mai lo è in quel parco acquatico dismesso e decadente che così perfettamente si modella come quinta scenica di personaggi costantemente appesi a un filo di indecisione. The Bad Guy lavora minuziosamente sul parlato e sui luoghi ma anche sui volti. Iconico, naturalmente, Luigi Lo Cascio nel ruolo di Scotellaro. La sua trasformazione fisica sembra una metamorfosi metanarrativa: da un personaggio stereotipato e ben noto alla tradizione delle fiction italiane, quella del magistrato fuori dagli schemi ma irreprensibile e geniale, all’atipico mafioso per caso. La sua è una transizione immediata nell’aspetto esteriore ma graduale e geniale nella psicologia, tanto che il confine morale sfuma tra giustificato rancore e crescente consapevolezza, di gilligana memoria, nel “prenderci gusto”.
Ma anche le figure minori, riempitivi delle scenografie, recuperano un neorealismo che sembrava impossibile.
Volti incavati su sfondi desolati che mescolano omertosi silenzi a grottesco umorismo. Ma anche delicatezza e rozzezza a contrasto, nobiltà e classica bellezza esteriore (la Maenza nel ruolo di Teresa) fuse a parlate basse e sboccate. Questo è The Bad Guy che apre l’Italia, la espande, la sporca, la salva dallo stereotipo. Un processo ripetuto a stretto giro anche da Zavvo Nicolosi al suo debutto cinematografico con La primavera della mia vita. Un road movie con protagonisti Colapesce e Dimartino che di quella Sicilia restituisce di nuovo, finalmente, una dimensione internazionale, uno spazio mentale nel quale galleggiano figure originali, esagerate, sì, ma mai bozzettistiche. Essenze freak delle varie tappe del viaggio.
E allora va riconosciuto il merito a The Bad Guy (e al duo Fontana-Stasi alla regia) di aver fatto da apripista, di aver mostrato che anche l’Italia può essere luogo di drammi, di road movie, di thriller e investigativi di respiro internazionale. Lo ha fatto in una sola stagione, in appena sei episodi, con un taglio registico fresco, che non teme di osare, che crea forti contrasti chiaroscurali, scenari crepuscolari e carichi di tensione, personaggi che affiorano dal buio, colpiti dalla luce della camera che non è mai piena ma sempre parziale, sfuggente. Il risultato è una tridimensionalità che non credevamo più possibile assuefatti ormai al piattume delle fiction italiane che ci avevano convinto che in Italia non esistesse altro e non si potesse far altro. The Bad Guy in un sol colpo ha ucciso cinquant’anni di stereotipi portati avanti dagli italiani sugli italiani. E glie ne siamo davvero grati.