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Cosa non ha funzionato nella terza stagione di Suburra

Il 30 ottobre sono stati rilasciati da Netflix i sei episodi che compongono la terza e ultima stagione di Suburra (qui troverete la nostra recensione), serie ambientata nell’universo narrativo dell’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini. Quello che si era presentato in veste di prequel si è rivelato essere una sorta di versione alternativa della trasposizione cinematografica firmata da Stefano Sollima; i personaggi che si muovono sulla scena sono gli stessi, ma le parabole individuali che vanno a tracciare risultano essere completamente diverse da quelle proiettate sul grande schermo. Se da una parte ci sentiamo di assolvere la scelta di sganciarsi dal film, necessaria per tutelare la coerenza interna del prodotto, dall’altra riteniamo che le critiche mosse alla stagione da una larga fetta di pubblico siano più che fondate. Vediamo perché.

Suburra 3: personaggi smarriti e attese disattese

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Il primo problema riscontrabile è lo scollamento dai presupposti creati al termine della seconda stagione. Anziché riprenderli o svilupparli, la terza li liquida o si comporta come se non fossero mai stati gettati. Il business dell’accoglienza, che sembrava pronto a diventare un filone di trama portante, si trasforma in uno stratagemma per l’uscita di scena di Sara Monaschi, colei che tesseva gli intrecci tra il Vaticano e gli ambienti della malavita romana. Dopo averla vista al tavolo della mafia siciliana, la ritroviamo a letto con Cinaglia, intenta a raccontare del centro per migranti che andrà a gestire in Sicilia. E tanti cari saluti alle strutture di proprietà di Samurai che le erano state messe a disposizione.

Un altro personaggio su cui ci si sarebbe aspettati di vedere imbastita una sottotrama è Adriano Latelli, figlioccio di Samurai, che il finale della seconda stagione prefigurava coinvolto in un’alleanza con Spadino e Aureliano. Sarebbe stato interessante scoprire in che modo si sarebbero articolate le dinamiche di questa nuova variante del trio protagonista e assistere allo scontro tra Adriano e Samurai, destinato a viaggiare sul doppio binario del legame personale e della contrapposizione ideologica. Suburra non ci offre la possibilità di vedere né l’una né l’altra cosa: Adriano occupa la scena il tempo necessario a ricevere da Sibilla la lettera lasciatagli in eredità da Samurai e non diventa mai parte attiva della trama.

Il vuoto lasciato da Gabriele (la cui parabola è stata ricostruita in questo articolo) non viene colmato da una nuova presenza, quindi, ma in realtà è come se venisse completamente rimosso. Il suo suicidio trova una debole eco negli incubi di Spadino e Aureliano, ma nel complesso il ricordo di Gabriele non diventa un fantasma che aleggia costantemente come ci si sarebbe aspettato che accadesse. Tutto ciò che era legato a lui viene omesso dalla narrazione: da Cristina, la sottoposta pronta a soppiantarlo nel ruolo di infiltrata, fino a un comparto polizia che al netto di agguati e sparatorie risulta totalmente assente dalle scene.

La morte di Samurai: da nemico numero uno a pedina sacrificabile

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Se la morte di Livia Adami era sopraggiunta in maniera piuttosto improvvisata, quella di Samurai fa l’effetto di un fulmine a ciel sereno. Le due dipartite, che non a caso sono poste all’inizio delle rispettive stagioni, hanno una matrice comune: il fatto di esser state concepite come espedienti. Nel caso di Livia l’obiettivo era spingere Aureliano, solo e assetato di vendetta, a rinsaldare l’alleanza con Spadino e Gabriele; con Samurai, si è trattato di porre Aureliano e Spadino al centro delle dinamiche di potere che trovavano in lui il loro fulcro. Una storia dovrebbe saper gettare le fondamenta su cui edificare i suoi risvolti e non propinarli attraverso scorciatoie come quelle fornite dalle morti di comodo, che riducono i personaggi a meri strumenti, sacrificandoli sull’altare degli sviluppi di trama.

Così ecco che Samurai, signore del crimine capitolino, burattinaio che manovra i destini di Roma dalle retrovie, non esce di scena al termine di uno scontro che vede la suasconfitta come punto di arrivo e climax narrativo, ma nel corso di un’imboscata che si consuma nel giro di pochi minuti. Cinaglia, sotto la pressione delle minacce rivolte alla sua famiglia, accetta di tradirlo e lo conduce nella tana del lupo, dandolo in pasto alle pallottole di Spadino e Aureliano. La reazione che la scena scatena all’inizio è di attonita sorpresa, ma è il sentimento a cui lo shock lascia spazio quello realmente indicativo. Mentre il corpo di Samurai giace riverso sull’asfalto, ciò che viene da chiedersi è Tutto qui? La morte del grande antagonista è trattata alla stregua di un affare di poco conto, una faccenda da sbrigare in fretta per passare a quello che verrà dopo. Una fine ingloriosa per il personaggio e una premessa forzata per la stagione.

I ritmi della narrazione: troppo o troppo poco

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Una critica pressoché unanime è quella rivolta alla gestione dei tempi. Sei episodi sono stati ritenuti insufficienti per dare alla storia il finale che avrebbe meritato o quantomeno per dispiegarlo in modo da renderle giustizia. I primi quattro procedono a un ritmo misurato che sarebbe stato adatto come base di un crescendo progressivo; peccato che a ridosso del finale la sceneggiatura schiacci il piede sull’acceleratore e l’impennata avvenga di colpo, dando l’impressione di un lungo salto effettuato senza percorrere la rampa di lancio.

I fatti si susseguono con una fretta che ne smorza l’intensità: il tradimento di Manfredi, l’incidente che causa l’aborto di Angelica, il lutto dovuto alla perdita della bambina, la trappola tesa a Spadino, l’arrivo provvidenziale con cui Aureliano la sventa. Il suo sacrificio è il colpo con cui la raffica si conclude, il traguardo che giunge alla fine di una corsa che gli autori sembravano impazienti di portare a termine. Aureliano muore e lascia i sopravvissuti come sospesi dentro al limbo aperto dalla sua scomparsa: Nadia ha perso lui, Angelica ha perso Spadino e Spadino ha perduto tutto. E anche lo spettatore si sente come se stringesse tra le dita i resti di un pugno di sabbia scivolato via troppo presto.

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