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Suburra – La canzone che parla dell’essenza di Roma

Ero poco più che un bambino quando Piotta iniziava a imporsi nel panorama canoro romano e non. Quel bambino iniziava a conoscere Roma. Iniziava a viverla in un quartiere popolare, tra l’asfalto duro di un campetto da calcio e il rispetto che dovevi guadagnarti. Roma la si capisce vivendola e la si odia tanto quanto la si ama. È contraddizione infinita, orgoglio e turbamento. Roma è Suburra: fango, violenza e bellezza estatica. Nei suoi vicoli oscuri si nascondono da sempre santità e perversione. Ricchezza e povertà. Da quando Nerone scendeva di notte nei bordelli più malfamati per sentire Roma su di sé. Per viverla in quel quartiere popolare chiamato Suburra e che ora è terra dei potenti.

Roma è qualcosa di vivo e pulsante ma nello stesso tempo immobile ed eterno. Roma è madonna e madre, Giuda e nemica.

Vivendoci, vivendola lo capisci. Di fronte a te non hai un cumulo di case e arte: hai una donna. Ti rivolgi a lei, la invochi, la maledici pure. Ma non ne puoi mai fare a meno. Quando parli di Roma, quanto canti di Roma – e a Roma – non lo fai pensando a una città ma a una donna, volubile e misteriosa come e più di ogni donna. Incoerente ma irresistibilmente sensuale. Pronta a stringerti nel suo ventre e a tradirti.Suburra Samurai

Piotta ha rappresentato per tanti giovani degli anni ’90 il modello di una scelta alternativa. L’espressione di chi una risposta non ce l’aveva proprio ma percepiva l’ipocrisia che era tutta attorno a lui. Poi è arrivata l’età adulta. E Piotta è rimasto indietro. Anzi, ha fatto un passo indietro perché in quegli anni 2000 non si riconosceva più. Quando nel 2012 compose “Piotta è morto” sembrava il grido disperato di chi non aveva più il suo posto nel mondo, di chi non era più interprete del suo tempo. Perché quello non era più il suo tempo né la sua Roma. Era “Troppo avanti” nei ’90 e obsoleto nei 2000 (“Non posso più tornare indietro”, Troppo avanti, 2007).

Paradossalmente però in quella Roma che aveva visto disgregarsi sotto di sé, nell’ingresso della Mafia in città, nei valori della strada brutali ma d’onore che erano venuti meno, Piotta ha ritrovato se stesso. Lo ha fatto nel 2015 con 7 vizi capitale. E ne è uscito il quadro nostalgico e insieme attuale di una Roma ancora viva e contradditoria. Suburra – la Serie nel 2017 ha deciso di concludere ogni episodio con questa canzone. È diventata la ending theme del racconto. La chiosa perfetta a ogni vicenda. Il “memento” a ciò che si stava vedendo.

Nord, Sud, Ovest, Est, Roma è // Così grande che di notte ti prende, ti inghiotte // Fotte la mente // Un gigante che ti culla tra le urla che non sente

Roma ti avvolge, ti attira irresistibilmente ogni sera. Ogni notte in cui il silenzio l’accartoccia e tu ti ritrovi nel buio spaventoso di una bellezza che non puoi dominare. Così grande, così totalizzante ti appare. È una madre che ti culla ma che non sente il tuo grido, che non sente i colpi di pistola di una guerra nascosta. In Suburra l’azione è tutta in questi momenti. In queste atmosfere crepuscolari che ora nascondono ora mostrano la bellezza e l’orrore. Il chiaroscuro di un mondo a due facce. “Nere come il Sanpietrino, bianchi come il marmo”. Si spara, si fa la guerra, si ammazza. E Roma madre dorme. Le finestre chiuse mentre si fa strage.

Ti compra, ti vende, ti innalza, ti stende // Ti usa se serve, ti premia, ti perde // Chi parte, chi scende, chi bluffa, scala

Roma ti consuma con la sua arte, ti innalza alla bellezza e ti schiaccia nel degrado. Ti seduce e ti abbandona. Ogni personaggio di Suburra rimane vittima del potere che emana. Nessuno si sottrae al suo irresistibile fascino. L’integerrimo, idealista Cinaglia, il devoto Theodosius. Tutti sono angeli e demoni in balia di Roma “santa e dissoluta” e dei suoi vizi. Nessuno si scopre integro, tutti finiscono per cedere e perdersi. Perché in Roma c’è l’attrattiva della mondanità, la sensuale certezza che il piacere più segreto troverà sfogo. Roma è Suburra notturna, terra di bordelli e carnalità nascosti in bella vista di fronte alla poesia della sua maestà.

suburra roma

Roma cruda, Roma cruda // Roma cruda // Nuda come la bellezza, grande come Roma

Si spoglia davanti a te, Roma, e ti mostra il suo corpo di donna. La bellezza classica della perfezione di una silhouette femminile e l’irresistibile attrazione carnale per il biancore dei suoi seni e la morbidezza dei fianchi. Non puoi rimanerne estasiato senza desiderare anche di possederla. Aureliano, Spadino e Lele vogliono farla loro (“Pijamose tutto!”), ne sono invaghiti. Ma in loro è l’impazienza di tre ragazzi alla loro prima esperienza con una donna molto più matura. Una donna che non si fa dominare, solo assaggiare. Una donna cruda e dura nella sua indole. Che non ha compassione ma ti toglie in fretta quello che ti ha mostrato. Che “ama e non perdona” e “te divora come un barracuda”. Una femme fatale.

Dove sete di vendetta veste sete su misura // Roma benedetta a volte Cristo, a volte Giuda // Roma barbara e cultura, DNA complesso // Roma è così che fa, seduce dall’ingresso

In questa donna si mescola l’eleganza e la crudeltà, il volto d’angelo e il corpo della tentazione. In Suburra sinti e romani, camorristi e mafiosi, preti e diavoli si alternano sulla scena, si accavallano, si fondono. C’è la santità di un ideale di bellezza e il tradimento di una donna che non potrai mai fare davvero tua. Roma non la conquisti mai davvero. La puoi saccheggiare, farti allattare al suo seno ma non la sottometterai mai perché Roma non ha e non può avere padroni. Ha le mille facce di popoli che si sovrappongono e di realtà che si fondono. Così Spadino è insieme sinti e romano, come Isabel non può essere africana senza sentirsi legata a Roma, anche solo nella parlata. La città fonde e tesse ogni personaggio, ogni personalità. Tutto attira a sé nel suo peccato e nella sua gloria.

Gelosa, invadente, custode d’anime // Curiosa, indolente, infedele, preghiera // Roma mani infami dentro l’acquasantiera

Roma è la città del potere. Di quel potere temporale di una Chiesa non più apostolica. È la sovrapposizione incoerente di fede e interessi. Di politica e mafia. Di amore e odio. La Roma di Suburra è la donna indolente de La Grande Bellezza. La donna che balla, canta, ti consacra ai piaceri ma rimane sempre uguale a se stessa. La sua magnificenza l’ha cristallizzata in un’immagine. In quell’immagine stanca, beata, riflesso di se stessa, si crogiola Roma. E tutti ne rimangono vittime, incapaci di cambiare. Incapaci di cambiarla. Perché nulla può alterarne la fissità. Se ne accorgerà anche Taccon, il personaggio di Suburra apparentemente più integro. Anche lui crollerà sotto il peso di Roma cedendo alle sue lusinghe.

Perché “Quelli che c’hai intorno, alla vita j’hanno dato un prezzo // Er compenso giornaliero pe’ consumasse pezzo a pezzo”. Lo ha fatto Taccon, ma lo ha fatto anche Cinaglia. Le sue scarpe consunte, il simbolo delle sue battaglie, della sua ostinazione anche di fronte all’insuccesso sono state accantonate. Il politico è adesso consumato dentro dalla frustrazione di un mondo che non lo riconosce, di una lotta che non può vincere. Scende a patti, accetta di vendersi, di darsi via pezzo dopo pezzo inseguendo manie di potere sempre più grandi.

Suburra ci mette di fronte un pezzo di Roma. Un brandello delle infinite realtà che si nascondono dietro la Capitale.

Lo fa dando voce a Piotta, decidendo di concludere sempre con le sue parole la descrizione di quel mondo. Roma è una donna difficile. Più la conosci e più ne scopri i difetti. Poi però “arzi l’occhi e vedi Roma”. La guardi tutta. Ti soffermi sui suoi dolci colli, sul candido marmo del suo corpo, sul calore della sua gente. Ti fermi e capisci che non sarà mai tua. Che ti sfuggirà sempre. E che non cambierà mai. Sarà moglie e amante, madre e Giuda, santa e dissoluta. Innocente e criminale. Sarà la donna che ti farà impazzire e che non smetterai mai di inseguire. Che non potrai abbandonare mai. Perché anche tu, come tutti, hai ceduto e ti sei arreso a lei. Alla bellezza crepuscolare di una diva d’altri tempi. Alla maestà indecifrabile di Roma.

E chi vive davero sta città, ritrova er senso a tutto
E nun se ne vò più annà, nun se ne vò più annà
Nun se ne vò più annà

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