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7 personaggi delle Serie Tv degli ultimi anni che presentano i soliti insopportabili stereotipi

Avete presente quando guardate una serie tv di almeno vent’anni fa e sorridete di fronte a qualcosa che sì, un tempo era socialmente accettato oppure sembrava originale mentre oggi ci infastidisce? È un buon segno perché anche la serialità, come la società, diventa sempre più attenta e sensibile. E talvolta si rende promotrice anche di iniziative ammirevoli, come i Diversity Media Awards. Così quando abbiamo la stessa reazione davanti a un personaggio scritto oggi, abbiamo un problema. Il panorama seriale, per fortuna, si arricchisce di serie capaci di raccontare realtà complesse senza mai banalizzarle, usando un linguaggio più realistico, che si nutre di sfumature e si tiene a debita distanza dagli stereotipi e da narrazioni superficiali. Lo stereotipo, come sappiamo, è un pregiudizio, una falsa certezza, duro a morire. Se fossimo nell’universo di Star Wars diremmo che mentre i tòpoi e gli archetipi sono il Lato Chiaro della Forza (e aiutano lo spettatore a comprendere meglio la storia), gli stereotipi o i cliché, al contrario, sono il Lato Oscuro. Se un tempo potevano essere la fonte dell’umorismo, oggi sono solo l’origine del fastidio cutaneo. Lo spettatore li sopporta malvolentieri perché delineano la caricatura di un gruppo di persone e assumono come “assodato” una certa caratteristica. Se da un lato troviamo sempre più serie capaci di giocare con i cliché in modo intelligente, dall’altro persistono ancora quelle che ripropongono degli stereotipi superati; forse per pigrizia o per aridità creativa. Ma per fortuna, l’ultimo caso è sempre più raro. Ed è per questo motivo che quando troviamo un luogo comune, il nostro campanello d’allarme si attiva. Soprattutto quando un personaggio che presenta i soliti stereotipi aleggia all’interno di progetti di rilievo, cioè quelli che hanno a disposizione un budget notevole, un cast di qualità e un team di sceneggiatori consumato. Come And Just Like That. Così, tralasciando le serie tv di scarsa qualità (dove lo stereotipo è l’ultimo dei problemi), siamo andati a scovarli nelle produzioni mainstream degli ultimi 5 anni. Perché se è vero che gli archetipi sono importanti, i cliché sono solo una scusa per una scrittura pigra.

Scovare 7 personaggi delle serie tv degli ultimi 5 anni costruiti sui cliché non è stato facile. E non possiamo che esserne felici! Iniziamo da And Just Like That.

And Just Like That – Gli under 25

And Just Like That

Sex and the City è tornata. Sul finire degli anni ’90, la serie creata da Darren Star, basata sull’opera omonima di Candace Bushnell, è riuscita a raccontare un’epoca al tramonto con audacia e sfrontatezza, abbattendo, talvolta, anche qualche tabu. Purtroppo non possiamo dire lo stesso del sequel intitolato And Just Like That. Con esso, purtroppo, sono tornate tutte quelle dinamiche che hanno appassionato i fan negli anni ’90, ma senza essere adattate alla sensibilità attuale. “I ritorni delle serie cult servono solo a ricordare i vecchi tempi. Non dovremmo caricarli di messaggi e significati complessi”, obbietterà qualcuno di voi. Certo, ma è il sequel stesso che ha voluto farsi carico di questioni attuali e complesse senza capire da che parte stare. Da una serie tv cult che viene ancora ricordata ed elogiata per la sua capacità di leggere un dato presente (quello degli anni ’90), ci aspettavamo una lettura molto meno superficiale della realtà odierna. E così And Just Like That, It All Went Wrong, come ha sentenziato il New York Times.

Il sequel, che ha debuttato in piena pandemia, offre una visione stereotipata delle tematiche più calde che animano i dibattiti odierni, dall’adolescenza all’orientamento sessuale. Delle tematiche che And Just Like That sembra non capire, ma che ha deciso comunque di includere nella narrazione, senza però sforzarsi di comprenderle. Avremmo potuto scegliere la nuova versione di Steve, il quale (tra gli adulti) ha subito il trattamento peggiore. Invece, tra i personaggi stereotipati che proprio non riusciamo a tollerare, abbiamo individuato tutti i giovani under 25. Darren Star e il team creativo non si sono sforzati di capire le problematiche e i bisogni delle nuove generazioni e – pur volendone parlare – si sono limitati a raccontarli dalla prospettiva di un “boomer”, senza distinzioni. Anziché sfruttare il divario comunicativo tra giovani e adulti, And Just Like That ha optato per la soluzione – più pigra – del cliché. Così ci siamo ritrovati con una Lily trasognata e un Rock Goldenblatt “maschiaccio”; un Brady Hobbes maleducato e “sessuomane”, la vicina influencer (rumorosa?) di Carrie e gli studenti “alieni” del corso di Miranda. Tutti personaggi tratteggiati solo in superfice, la cui immagine è un riflesso negativo di come vengono percepiti da un/a cinquantenne (altra lettura errata). Sono ostili, parlano un linguaggio “strano”, urlano e sembrano essere capaci solo di offendersi. Ma in un orizzonte narrativo seriale, in cui la giovinezza viene raccontata con estrema sensibilità (Euphoria, Sex Education), dal sequel della serie di culto con Carrie Bradshaw non ci aspettavamo una tale pigrizia narrativa, ormai ingiustificabile.

SEAL Team – Jason Hayes

Jason Hayes

La serie creata da Benjamin Cavell per la CBS segue le vicende del Team Bravo, un’unità d’élite del DEVGRU dei Navy SEAL. Tra i military drama più recenti, la serie arrivata alla quinta stagione sembra essere una proposta molto realistica in termini di tecnologia, di addestramento militare ed esecuzione delle missioni. Gli appassionati del genere avranno sicuramente apprezzato le scene di combattimento e le situazioni pericolose in cui la squadra guidata da Jason Hayes viene coinvolta in ogni episodio. Tuttavia, nel reparto scrittura, i personaggi non fanno altro che riproporre le caratterizzazioni proprie di un B-movie degli anni ’90. Il protagonista, interpretato da David Boreanez, è equipaggiato dei tratti distintivi dell’eroe burbero e senza paura. L’esempio a cui un maschio alfa dovrebbe ambire, insomma.

Non c’è troppo spazio per l’approfondimento psicologico. I contrasti insiti nell’animo umano e i dialoghi sono ridotti all’osso; anche le problematiche presentate, sebbene tutte interessanti, vengono accennate di sfuggita. Prendiamo il Disturbo da stress post-traumatico (PTSD): una patologia seria, fin troppo sottovalutata, che – solo per citarne alcuni – da Il cacciatore a Rambo, da American Sniper a Barry (una delle dramedy più profonde degli ultimi anni) è stata raccontata con originalità e un intento sincero di denuncia. In questo military drama, al contrario, il PTSD finisce per essere usato come un pallido pretesto per caratterizzare, e giustificare, il protagonista.

Jason è turbato ma non troppo; all’occorrenza emerge il suo senso di colpa, beve e ha un caratteraccio; è taciturno, la moglie, manco a dirlo, è raffigurata come una “rompiscatole” e i suoi figli vengono puntualmente ignorati perché il dovere viene sempre prima. Non parliamo poi dello sfortunato trattamento riservato ai personaggi femminili, siano esse mogli, colleghe, figlie o donzelle da salvare. Sorvoliamo anche sulla squadra composta dai soliti noti: l’amico fidato, il ribelle, il saggio, l’autodistruttivo, e via dicendo. La sceneggiatura gocciola di quella retorica artificiosa in cui all’eroe tormentato che si sacrifica per la Patria si perdona tutto, tranne essere fragile. SEAL Team – che da quando è passato dalla CBS alla Paramount+ ha inserito solo le parolacce e dei nudi – è un dramma militare in cui la forza bruta prevale sui contrasti psicologici e sulle contraddizioni della società; un aspetto che ha reso celebri film come Apocalypse Now e Full Metal Jacket. Le ambientazioni e le missioni sono indiscutibilmente di pregio, così come lo è la recitazione, e soddisfano lo spettatore che non è interessato a seguire la storia. Tuttavia l’ottimo realismo dell’analisi tattica e della logistica non impedisce di scovare il problema di una serie tv arrivata nel 2017 e ancora in produzione: la prevedibilità. La narrazione proposta è obsoleta in una serialità sempre più matura e dove i cliché urtano perfino lo spettatore meno esigente. L’abbondanza di stereotipi e l’esagerata celebrazione del patriota virile ed eroico, agli antipodi dell’avanguardismo di M.A.S.H., specie di questi tempi poi, è insopportabile.

Space Force – Erin Naird

Space Force - Erin Naird

Abbiamo già speso tante parole riguardo i motivi che hanno impedito a Space Force di decollare. Si è detto tanto, forse troppo, della comedy satirica ideata dal duo Carell-Daniels che, purtroppo, è stata schiacciata dal peso delle nostre aspettative. Ma non siamo qui per parlare dei problemi della comedy di Netflix. Sebbene sia un prodotto ben confezionato, Space Force ha qualche difetto che non siamo riusciti a perdonare. Ad esempio, lo sviluppo di alcuni personaggi. Il cast è impeccabile, ma non è amalgamato ed è proprio tra i personaggi principali che troviamo qualche personalità troppo poco definita. Parliamo di Erin, la figlia adolescente del Generale Mark R. Naird (Steve Carell). La ragazza è cresciuta a Washington DC poi, di colpo, viene scaraventata a Wild Horse, in Colorado. Sua madre è in carcere mentre suo padre è un generale che punta alla Luna e non ha né tempo né le capacità per comprenderla. Oltre allo sport, il suo hobby principale sembra essere dunque quello di infastidire sia Mark, sia noi spettatori. Chiunque abbia visto The Office US sa quanto Michael Scott (Steve Carell) possa essere fastidioso, capriccioso e infantile. Proprio come Erin. Eppure è la qualità della scrittura che segna la differenza. Mentre la caratterizzazione che Daniels ha messo in atto in The Office sfrutta i contrasti dei personaggi per trasformarli in combustibile umoristico, in Space Force, Daniels si perde in una caratterizzazione pigra.

Il fastidio per il personaggio di Erin deriva dalla bidimensionalità e dall’attaccamento ai cliché dell’adolescente ribelle e arrabbiata. Delle caratteristiche che non vengono sviluppate, rendendola così il personaggio peggiore della vicenda. Il problema, infatti, non è né il lamento continuo, gli errori che compie né i tentativi di attirare l’attenzione di suo padre, impegnato a evitare una crisi mondiale. Le sue azioni provocano in noi solo insofferenza. E questo accade perché manca il contrasto e la complessità che, al contrario, sono la linfa vitale nella caratterizzazione di Michael Scott. Un essere umano deprecabile che diventa però un personaggio tragicomico strepitoso. Il problema, infatti, è tutto nella scrittura di Erin, la quale si appoggia troppo sugli stereotipi della fastidiosa figlia adolescente, senza approfondirli; né scomporli, sfidarli o deriderli. La sua bidimensionalità ci impedisce di capire Erin, che avrebbe tutto per diventare un grande personaggio. Purtroppo però le manca ancora una spina dorsale capace di sorreggerla e affrancarla dal ruolo di bimbetta sfiancante e capricciosa.

Guida astrologica per cuori infranti – Alice Bassi

Non è la prima volta che tiriamo in ballo Guida astrologica per cuori infranti, la serie tv diretta da Bindu De Stoppani e Michela Andreozzi, tratta dall’omonimo romanzo di Silvia Zucca. Alice Bassi (Claudia Gusmano) sarà un personaggio simpatico, ma non aggiunge nulla di nuovo alla serialità. Anzi diciamo pure che è riuscita a infastidire molti di noi a causa della presenza di troppi luoghi comuni. Ammettiamo, sigh, di sentirci delle brutte persone a parlare male del suo personaggio, che è disegnato per essere amorevole. Tuttavia, se andiamo al di là della facciata gradevolissima, troviamo una stanza piena di cliché. Alice sembra creata con Gira la moda, quel gioco da tavolo prodotto dalla MB dal 1984. La (quasi) trentenne è stata dotata di tutti gli elementi giusti, trendy e tragicomici, per stregare lo spettatore. Ha un’interprete di talento, forse sprecata per il ruolo; si muove in una cornice glamour seducente: Torino, che somiglia più a San Francisco. Ha carattere e talento; è sexy, ma anche un po’ nerd; è ordinaria, ma anche un po’ straordinaria. Fa battute simpatiche, ma è goffa; seduce i bei fusti dal fascino latino, ma non trova l’anima gemella… insomma tutto è stato messo al posto giusto per creare un personaggio iconico, a metà strada tra Jessica Day, Puffetta e Bridget Jones.

Alice è tanto “perfettamente imperfetta” o “imperfettamente perfetta” che, appunto, sembra essere stata costruita con Gira la moda. Mentre la prima stagione può essere salvata, nella seconda troviamo solo un cimitero di cliché. Un luogo comune dietro l’altro, la protagonista di Guida astrologica per cuori infranti si è avviata lungo un cammino narrativo sempre più banale e prevedibile. Il Pandino, gli occhialoni, l’amico fluido, l’aria trasognata, i sogni infranti, la tresca con il capo, la sfortuna in amore, lo strano interesse per l’astrologia: c’è tutto. Ma se ne resta a fluttuare come una barchetta di carta in un oceano di tanti “già visto”.

Molti hanno definito la serie tv come un intrattenimento piacevole e sbarazzino, capace di raccontare perfino lo spaccato dei trentenni di oggi. Ma siamo sicuri che quella sia la realtà dei Millennial? Tutto è stato tratteggiato come si fa quando, annoiati, scarabocchiamo su un taccuino, per ingannare il tempo durante una conversazione telefonica interminabile. Il senso di fallimento, la mancanza di punti di riferimento, la sensazione di girare a vuoto mentre dimentichiamo perfino quale traguardo volevamo raggiungere e tanti altri drammi esistenziali dei trentenni sono assenti nella serie di Netflix. Al loro posto troviamo dei piacevoli e inverosimili incidenti di percorso, abbozzati di sfuggita e mai approfonditi davvero, che comunque si risolvono sempre nel lieto fine.

Pretty Smart – Chelsea (perché non siamo così cattivi da metterli tutti)

Pretty Smart e And Just Like That

Lasciamo stare le serie tv con qualche personaggio stereotipato perché Pretty Smart è tutta, a partire dal titolo, un cliché. I personaggi di cui abbiamo appena parlato, seppure dotati di qualche stereotipo di troppo (come i teenager di And Just Like That) sono comunque inseriti in una cornice narrativa gradevole. Guida astrologica per cuori infranti, SEAL Team e Space Force avranno pure dei difetti, ma si tratta di serie tv apprezzate da un pubblico vastissimo, capaci di regalare un intrattenimento piacevole e coinvolgente. Di certo, in nessun modo, i personaggi menzionati possono essere paragonati a quelli della sit-com con Emily Osment, disponibile su Netflix. Una serie tv che nasce con l’intento dichiarato di sgretolare i soliti cliché. Emily Osment, a quanto capiamo dalle interviste, interpreterebbe Chelsea, una (citiamo): “bionda intelligente mentre il resto dei personaggi sono scritti per ribaltare lo stigma proposto ancora da numerosi stereotipi.” Dopo aver guardato la prima stagione, non possiamo che restare confusi ascoltando le parole dell’attrice.

La sit-com è una processione dolorosa di situazioni che rasentano l’insulto. A questo punto, vi chiediamo di farci sapere se siamo i soli ad aver frainteso gli intenti che hanno spinto i creatori, Jack Dolgen & Doug Mand, a scrivere questa commedia dal dubbio umorismo. A nostro avviso, Pretty Smart non ribalta i cliché, ma si nutre di essi, ammassandoli indistintamente nella stessa storia. Uno sopra l’altro, in una babele confusa di luoghi comuni, accompagnati dalla traccia di risate che ci lascia basiti. Ogni battuta è intrisa di sessismo, cavalca ogni stereotipo etnico, culturale, di genere o di estrazione sociale e culturale. Crediamo che il fortunato che riuscirà ad arrivare all’ultima puntata senza strapparsi il cervello a morsi possa vincere in un colpo solo tutte le sfere del drago. Pretty Smart è un insieme imbarazzante di cliché, ma non più della prossima serie tv.

Dad Stop Embarrassing Me – Brian Dixon

Dad Stop Embarrassing Me

Dad Stop Embarrassing Me non è solo imbarazzante: è dolore e pentimento. Tanto che Netflix stessa ha chiuso la serie dopo la prima stagione, al pari di Pretty Smart (e Space Force, chiusa dopo due). Dopo essersi accorta del mostro che aveva prodotto. La sit-com creata da Jamie Foxx e Jim Patterson è stata massacrata sia dal pubblico che dalla critica, eppure ci ricorda una lezione importante: anche i più grandi sbagliano. Parliamo di Jamie Foxx, protagonista nonché creatore dello show. E se un attore, comico e cantante amatissimo che ha ricevuto tantissimi riconoscimenti, tra cui un Academy Award, un BAFTA award, un Golden Globe Award, un Grammy Award e uno Screen Actors Guild Award può sbagliare, possiamo vivere tutti più sereni. In questa situation comedy, Jamie Foxx è Brian Dixon, un padre single impegnato a crescere una figlia adolescente mentre manda avanti l’azienda di cosmetici ad Atlanta. Nel corso delle otto puntate, l’attore di Django Unchained veste occasionalmente i panni del Rev. Sweet Tee, il reverendo della chiesa locale; Cadillac Calvin, lo zio di Brian e fratello di Pops; e Rusty, un barista eccentrico. Sui quali è meglio sorvolare.

L’umorismo della serie dovrebbe nascere dal conflitto generazionale tra un padre poco credibile che non capisce sua figlia. Eppure, come fa And Just Like That, le battute finiscono per riproporre tutti i cliché dei teen drama e delle comedy del passato, senza compiere nessuna operazione di attualizzazione. Non solo, ma le situazioni proposte rafforzano addirittura gli stereotipi. Ogni puntata presenta un quadretto situazionale forzato e pieno zeppo di luoghi comuni esasperati. Ad esempio, quando sua figlia perde la fede in Dio, Brian fa di tutto per riportarla in chiesa. Tra una gag imbarazzante e uno stacchetto musicale, il protagonista finisce addirittura per veicolare il messaggio che lo yoga sia solo un culto hippie utile per fare stretching anziché una disciplina secolare e spirituale. Insomma la situazione da cui dovrebbe nascere la risata, purtroppo, finisce per generare fastidio e, di nuovo, ci ricorda un’occasione sprecata per ritrovare Jamie Foxx in un ruolo comico.

Emily in Paris – Julien

Emily in Paris e And Just Like That

Non potevamo che chiudere l’argomento con un’altra serie tv di Darren Star. Emily in Paris fa schifo, eppure non riusciamo a smettere di guardarla. È un guilty pleasure leggero e spensierato che però ha fatto infuriare mezzo mondo. La rom-com è stata accusata di perpetrare ogni tipo di stereotipo culturale, etnico o di genere. Forse però è stata massacrata più del dovuto. Tutto considerato, Emily in Paris è scorrevole e si lascia guardare. Ma il pubblico del 2020 (per fortuna!) non è più disposto a passare sopra certi stereotipi che riappaiono ovunque, camuffati sotto mentite spoglie, come le colombe pasquali avanzate. Purtroppo l’ultima comedy di Star è piena di cliché, come lo è And Just Like That. L’ensemble dei personaggi, infatti, ricorda molto quello di Sex and the City. Il regista, produttore e sceneggiatore (dichiaratamente omosessuale) ha sempre sottolineato l’importanza di integrare i personaggi gay nelle sue narrazioni. Eppure nelle sue storie ritroviamo sempre la stessa tipologia, diventata ormai una macchietta. Julien (Samuel Arnold) sta a Emily in Paris come Stanford Blatch sta a Sex and The City. Stando alla definizione di Wikipedia, Julien sarebbe:

Emily’s co-worker; trendy and high-drama, he forms a funny duo with Luc.

Così, l’unico personaggio principale omosessuale della vicenda è una drama queen, è appassionato di moda, ferisce con le sue battute taglienti e gli sguardi birichini, ma finisce per ripropone tutti i cliché caratteriali dei personaggi gay in voga negli anni ’90. La serialità, come tutti i mezzi espressivi, sta affrontando anno dopo anno un percorso di pulizia per restituirci dei personaggi sempre più veri, meno stereotipati. Il pregiudizio è difficile da estirpare e non tutti riescono ancora ad abbandonare degli schemi collaudati. Ma portare in scena una rappresentazione più aderente al contesto sociale odierno è un atto dovuto. Stanford Blatch è stato un personaggio di rottura e, a suo modo, funzionava nel mondo di Carrie Bradshaw. Julien è un personaggio gradevole e perfino divertente, ma i cliché sui quali è costruito, come quello dell’amico gay/spalla comica, sono stantii. Per perorare davvero una causa a lui tanto cara, Darren Star dovrebbe portare in scena un personaggio omosessuale protagonista, scritto e pensato per gli anni ’20 del 2000.

È stato molto difficile scovare 7 personaggi delle serie tv degli ultimi anni che presentano i soliti insopportabili stereotipi. E non possiamo che esserne felici. La scarsità dimostra che la serialità diventa sempre più attenta e sensibile; meno pigra e sempre meno interessata a mettere in scena delle figurette stereotipate che annoiano, e tal volta esasperano, noi spettatori, sempre meno inclini a perdonare la pigrizia narrativa.

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