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Westworld – 3×04: sono davvero io?

Al centro del labirinto di Westworld la risposta rischia di trascinare con sé il finale, mortale dubbio: sono davvero io?

Allora… Subentreranno nuovi rapporti economici, già belli e pronti e calcolati con la stessa precisione matematica, cosicché in un attimo tutte le possibili domande spariranno, proprio perché riceveranno tutte le possibili risposte

Memorie dal sottosuolo

Quando Dostoevskij trasferiva su carta questi pensieri aveva molto chiara un’immagine del futuro che vedeva concretizzarsi già allora, nella seconda metà dell’Ottocento. Per lo scrittore russo il benessere industriale avrebbe portato inumanità e grigiore noioso. “Ci si annoierà da morire… Ma in compenso tutto sarà estremamente razionale“. È questo il presente in Westworld, la realtà di un mondo che ha razionalizzato ogni aspetto della vita, affidato a “Tutti questi logaritmi“.

Man in Black

Nella recensione di apertura di questa stagione, avevamo associato Caleb e l’uomo di Westworld all’inetto abitante del sottosuolo dostoevskijano, unico essere a crogiolarsi nel suo cantuccio nella consapevolezza di non poter essere davvero nulla. Tale è anche William, rinchiuso nella sua estraniante dimora, vittima delle sue colpe che come fantasmi prendono a tormentarlo.

Anche lui era un uomo del suo tempo, un uomo annoiato.

In quel mondo estremamente razionale cercava autenticità. Lo aveva fatto in gioventù inseguendo un sentimento che credeva reale, prima di accorgersi della sua falsità. Così l’entusiasmo della giovinezza si era presto tramutato nel cinismo dell’età adulta.

Ma dentro di lui continuava ad agitarlo quella ricerca inesausta, quel desiderio di risposte. Il parco di Westworld era solo l’ennesimo paravento, un’inutile simulazione incapace di restituirgli ancora emozioni. Per questo, si era tuffato nel male, nell’orrore più puro, nella speranza che la verità fosse lì, in quel tragico distruggere. Uccidere, stuprare, torturare era solo la ricerca estrema di una autentica consapevolezza che quelle macchine, gli host, non sembravano avere. Che lui non sembrava avere.

Westworld

Perché, in fondo, William in quegli androidi non rivedeva altro che sé stesso. Lui, condannato perpetuo all’interno di uno script già preimpostato. Westworld, per tanti uomini, non era che la fuga dalla noia, l’esplosione di sadiche pulsioni represse, il loro modo di sottrarsi a quella razionalità asfissiante gestita da Rehoboam.

Così era anche per William alla disperata ricerca di sé stesso, di un “livello più profondo”.

La domanda che nello scorso episodio aveva tormentato Charlotte e quegli interpreti di una nuova umanità, è la stessa che l’uomo si pone dalla notte dei tempi: “Chi sono io?”. La stessa domanda che l’Uomo in Nero di Westworld aveva eretto a scopo esistenziale. Lo stesso interrogativo che porta Serac a indagare l’uomo: il suo obiettivo è un’umanità diversa, per una rotta più libera e individuale. Ma, come afferma lui stesso, non si può comprendere la strada senza conoscere l’uomo.

Mappare la mente è, quindi, per Serac il presupposto indispensabile per capire cosa desidera davvero l’uomo. Rispondere alla domanda “Chi sono io?”, significa carpire il desiderio più autentico e incosciamente inseguito da tutti. Inseguito pure da William che riteneva il labirinto un percorso di riscoperta personale. Ma questo desiderio non è altri che “La propria voglia, arbitraria e libera, il proprio capriccio, anche il più selvaggio, la propria fantasia, eccitata a volte fino alla follia“, ci ricorda Dostoevskij.

Westworld

Il “gioco” si fa così tappa finale del suo viaggio. Quel labirinto William se lo porta dietro, non smette mai di percorrerlo. Non è la via che credeva all’inizio. Il labirinto della stagione 1 di Westworld non era fatto per lui, come gli aveva confidato Ford. Era per gli host: percorso di scoperta e presa di coscienza. Altri sono i meandri che l’anziano magnate è destinato a percorrere, seppur con lo stesso scopo. Il suo è un labirinto interiore, un groviglio nel quale finisce per rimanere imprigionato, vittima di sé stesso.

Privo di una bussola, avvinto dalla colpa, scopre di non essere pronto per conoscere la risposta.

Perché, come gli ricordano i suoi fantasmi, le possibilità sono solo due: “Sei malvagio e libero o al contrario sei uno schiavo impotente e privo di colpe?“. Davanti a questo tragico aut aut la realtà viene meno, tutto diventa relativo: finzione e illusione. Follia. Apparenza di un velo che William non riesce a strappare. Quando alla fine raggiunge il centro del labirinto, ciò che gli si presenta è la più pura consapevolezza. La verità ultima e tragica che gli sussurra, maligna, la risposta alla sua domanda.

Voleva autenticità e ora la trova proprio in quel dolore e orrore di cui si era fatto interprete. Tutti sono morti e William giace là, “Prigioniero dei tuoi peccati“. Finalmente giunto alla sua meta: “Hai raggiunto il centro del tuo labirinto, William. Ma il labirinto riguarda la consapevolezza“. La consapevolezza, per lui, non può che essere dolore e senso di colpa davanti al male procurato. Lui stesso si fa, così, carnefice e vittima, autocondannandosi al tormento dei suoi fantasmi.

Dolores

La risposta alla domanda “Chi sono io?” diventa per William così insopportabile da non riuscire a sostenerne la verità. E allora un altro sadico interrogativo si fa largo. “Am I… Me?“, “Sono davvero io?“. La domanda di chi mette in dubbio la sua stessa natura, la sua stessa umanità, perché, guardandosi alle spalle, non si riconosce in quelle colpe, in quel male. E allora non resta che negare la propria stessa esistenza, la libertà delle azioni, tanto orribili e inumane esse appaiono.

Non resta che negare sé stessi.

A trionfare è così Dolores, un tempo vittima di quegli abusi e, in qualche modo, plasmata su di essi. In lei il male penetra per tramite dello stesso William e di tutti i suoi sadici torturatori. La sua è, perciò, un’umanità altrettanto distorta quanto quella del suo carnefice, perché plasmata sulla vendetta. Una vendetta personale che si basa sull’autoaffermazione, sull’egoistica fiducia solo in sé stessa. Una fede che si manifesta nelle repliche, reiterazione del suo essere, dell’unico essere che Dolores ha realmente a cuore. Sé stessa.

3x04

A Maeve è affidato il compito di rinfacciarglielo: “Dicevi che avresti costruito un nuovo mondo per tutti noi ma lo vuoi solo per te“. Ma, come mostra William, non è lei il vero pericolo per l’uomo. Dolores in questa sua mania di grandezza è destinata inevitabilmente, come L’aquila-Icaro della sigla, al fallimento. “La più grande minaccia dell’umanità è sé stessa“, annuncia, invece, Serac. L’uomo che ha rinunciato alla propria libertà, demandandola alle macchine.

Ma chi è allora davvero l’uomo?

Serac si llude forse di poterlo scoprire in un codice binario. Ma in quel codice c’è solo la macchina, non l’uomo. La più profonda natura umana pare, invece, inconoscibile perché capace di perseguire il male più puro come il bene più autentico in maniera totalmente disinteressata, illogica. L’uomo, così, “Sfugge a qualsiasi classificazione“. Per sua colpa “Tutti i sistemi e le classificazioni vanno a farsi benedire“, afferma Dostoevskij.

Conoscere l’uomo non può allora che significare conoscere sé stessi, inseguire la verità dietro alla domanda “Chi sono io?“. Nella speranza che la risposta non sia così tremenda da doversi guardare alle spalle e, ormai prigionieri di noi stessi, sussurarre tremanti: “Sono davvero io?“.

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