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The Matchmaker – La recensione di un film Netflix poco soddisfacente

Eravamo piuttosto incuriositi da The Matchmaker, perché è uno dei primi thriller psicologici dell’Arabia Saudita approdati su Netflix, per le sue ambientazioni suggestive e magiche e per quella trama che unisce horror, sovrannaturale, folklore locale e dramma. Sappiamo benissimo che c’è un abisso enorme tra un’idea assolutamente geniale e la sua esecuzione, colmata dalla capacità di saper narrare storie interessanti (o raccontarne di semplici in modo accattivante). C’è chi riesce a trovare una soluzione, creando una sceneggiatura vincente; altri comprendono, invece, che la loro geniale intuizione non era tale; altri ancora scrivono e realizzano un film a metà, per niente eccezionale ma nemmeno totalmente da buttare, sebbene tenda più a scendere nel dimenticatoio che a essere ricordato. E The Matchmaker è proprio uno di questi.

Fin dalla scena iniziale, ci viene detto che tipo di film è The Matchmaker e su cosa è incentrato.

Ascoltiamo la storia di Aliaa, una donna ferita dal marito, e su come purifichi i peccati dell’uomo con il fuoco, in modo che possa resuscitarlo sotto forma di uno zombi senza cervello e, dunque, obbedisca a lei senza fare domande. Visto il successo di questa particolare operazione, ha iniziato a cercare altre che avessero bisogno del suo aiuto. È un tema molto importante quello sui diritti delle donne, considerando che in Arabia si stanno sempre più ribellando al patriarcato e alla misoginia in aumento nel paese. The Matchmaker sceglie di attaccare un aspetto specifico della cultura dell’Arabia Saudita: ogni donna deve avere un tutore maschio. Pensiamo che quest’ultime non potevano viaggiare all’estero senza il permesso dell’uomo fino al 2019 e, se scappavano da una relazione violenta, venivano accusate di comportamento criminale. Nel 2020. Sebbene ci siano oggi delle proposte di legge per rimuovere il tutore maschile, il tradizionalismo è ancora molto forte. Pertanto, l’idea del film su Netflix – ovvero trasformare il tutore in un vegetale metaforico – è geniale.

Tuttavia, non sembra che il regista sia interessati a fare qualcosa di più con questa svolta, rendendo l’esperienza visiva piuttosto piatta. Il concetto interessante viene elaborato in maniera troppo semplice e diretta, prendendo la strada facile con il cliché dell’incubo e annullando la suspense. Persino della scena mindfuck per eccellenza della pellicola.

The Matchmaker

È proprio nell’hotel gestito probabilmente dall’eterna Aliaa (che si presenta come Hessa), che il tecnico informatico Tarek approda, dopo aver assunto l’identità del suo capo e aver inseguito la sua cotta Salma in mezzo al deserto per sposarla. Pur avendo una moglie e una figlia, con le quali però non ha rapporti se non i soliti convenevoli. Infatti, passa le notti a spiare una coppia felice, sentendosi annoiato e invidioso. Ma perché Tarak è così distante da sua moglie? Reem sembra gentile. Non ci sono prove di disaccordo tra i due. L’unica spiegazione possibile per questo distacco è la noia della routine e del matrimonio.

Sarà quel video misogino che spiega le differenze tra maschio e uomo (ovvero il farsi carico delle responsabilità) e la voglia di diventare il secondo a spingerlo nel deserto nel film Netflix. Ma è chiaro fin da subito che qualcosa non quadra. Non c’è rete mobile, gli operai sono inquietanti e un uomo dice che i suoi amici hanno adorato il resort così tanto che non sono mai tornati. E questo vuol dire che gli è successo qualcosa di grave. Vorremmo urlare loro di scappare ed effettivamente, a differenza di tante altre pellicole, al primo segno di difficoltà, Tarek decide di lasciare il resort, convincendo un altro personaggio a seguirlo.

L’uso del paesaggio in The Matchmaker è affascinante, rendendolo una prigione ineluttabile per gli uomini.

È un’arma a doppio taglio perché non c’è niente che impedisca loro di scappare, ma non appena escono dai confini di quell’hotel, le cose diventano così stranianti che non hanno altra scelta che tornare. Però, questo senso di disorientamento o le strane immagini proiettate nella mente di Tarek sono troppo concrete per avere un impatto duraturo.

Comprendiamo che il regista abbia dovuto semplificare e andare sul sicuro per evitare di essere incarcerato o affrontare problemi legali.

Ecco perché tutto è piuttosto discreto, così da non far cadere The Matchmaker nelle maglie della censura, riuscendo a trasmettere il suo messaggio alle persone che hanno bisogno di ascoltarlo. Il problema è che, per far realmente breccia nel cuore del pubblico, The Matchmaker avrebbe dovuto spingere di più nei momenti spaventosi e nelle immagini allucinatorie. Allo stesso modo del film, anche le interpretazioni del cast sono contenute. Hussam Alharthi interpreta quel Tarek attraverso il quale vediamo e sperimentiamo ciò che succede nel film Netflix. Il suo senso di curiosità, la sua frustrazione riguardo alle regole dell’hotel e persino la sua espressione di paura nell’apprendere cosa gli stia accadendo sono troppo dolci e tenui, senza reazioni forti. Il che è sorprendente, per il genere in questione. Molta più presenza scenica ce l’ha Reem Al Habib, la proprietario dell’hotel, tale da rapirci quando parla. Nour Alkhadra è Salma, l’esca per Tarek che, dunque, non ha molte battute ma deve affascinare mediante il linguaggio del corpo. Ottima ma troppo breve l’interazione finale tra le due donne, che meritava senz’altro più spazio. Eccetto loro, gli altri attori non hanno abbastanza tempo sullo schermo per essere rilevanti.

Nonostante il film sia lineare e semplice (con un finale piuttosto scontato, frettoloso e poco soddisfacente), ci sono delle domande che rimangono senza risposta. Non viene spiegato come la pratica di quest’hotel sia diventata così ampia, che cosa succeda agli ospiti in seguito, cosa voglia davvero Tarek. L’idea base di aiutare le donne in difficoltà è palese, ma nessuna delle loro motivazioni viene esplorata oltre la superficie. Certo, è interessante l’unione del mondo moderno e quello antico per raccontare come la tentazione attiri le persone e le conseguenze che devono sopportare per il resto della loro vita. Se poi The Matchmaker motiva anche una sola persona a documentarsi sulla situazione delle donne in quel paese, è una vittoria per il regista Al-Dhabaan. Accogliamo anche il punto di vista opposto, ma è troppo poco e troppo tardi.

Potrebbe essere una questione culturale, ma questa pellicola Netflix avrebbe potuto usare un po’ di tempo in più per sistemare le cose. Perché poteva davvero essere notevole, invece che solo un film a metà.