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La nostra recensione di “Nel mio nome”, il potente documentario sulla transizione di genere

“Che cosa c’è in un nome?” chiedeva Giulietta, nella famosa tragedia shakespeariana, guardando la luna dal balcone di villa Capuleti. Che cosa dice di noi il modo in cui ci chiamiamo? Quanto ci lega, effettivamente, alla persona che siamo? Più di quattrocento anni dopo a questa domanda prova a rispondere Nel mio nome, film documentario del 2022 tutto italiano disponibile su Sky a partire dal primo luglio. Il film, distribuito il 13, 14 e 15 giugno in tutta Italia, è un documentario che è anche un finestra su un mondo. Un mondo troppo spesso snobbato, tenuto nascosto e dimenticato dai più: quello transgender.

Nel mio nome

In realtà è erroneo attribuire a Nel mio nome l’etichetta di documentario riguardante la comunità transgender, perché è molto, molto di più. Il film, presentato al Festival di Berlino 2022 e diretto da Nicolò Bassetti, vanta la partecipazione nel ruolo di produttore esecutivo di Elliot Page, al momento forse l’attore e attivista transgender più famoso nel panorama del cinema americano: tanti di voi se lo ricorderanno per la sua straordinaria performance in Juno o Inception, e più recentemente nel ruolo di Anya nella serie televisiva The Umbrella Academy (qui potete trovare la nostra recensione della terza stagione).

Nel mio nome racconta quattro storie, quattro snodi diversi e complementari che si uniscono continuamente fino a produrre una matassa impossibile da districare: quelle di Nico, Leo, Raffaele e Andrea, quattro giovani provenienti da diversi regioni italiane e tutti accomunati dall’avere iniziato, in tempi diversi, la transizione di genere. In un Italia che, grazie alle riprese esterne quasi fiabesche, ci ricorda quella di Chiamami con il tuo nome assistiamo ad un racconto che risulta spaventosamente incisivo nella sua semplicità. E, purtroppo, basta qualche scena a far svanire la sensazione fiabesca. Perché volente o nolente siamo in Italia. Perché spesso e volentieri nel nostro Paese appartenere ad una minoranza equivale a fatica, lotte continue e rabbia. Eppure Nel mio nome ci stupisce fin da subito proprio per la delicatezza con la quale affronta un tema che, se guardato da vicino, è intriso di sofferenza. Nel prodotto in questione si può trovare di tutto: dal racconto personale dei quattro protagonisti (ognuno dei quali si differenzia per una passione in particolare che lo caratterizza) all’analisi più “scientifica” di un percorso che ha il sapore di una guerra, dagli sprazzi di vita quotidiana così banali eppure emblematici alle panoramiche silenziose di paesaggi che ci fanno tirare un attimo il fiato. Ma di quella rabbia che buca le orecchie non c’è traccia. O meglio c’è, ma si vede a stento. Perché Nel mio nome sa bene come dire tutto senza farsi sentire troppo.

Una macchina da scrivere, una bici ricostruita, un frutteto, una registrazione. I quattro ragazzi sono diversi, lontani per età, posizione geografica e passioni, eppure in ogni inquadratura che li vede uno affianco all’altro sembrano legati da qualcosa che possono comprendere solo loro. Nico, Andrea, Raffaele e Leo sono quattro punti cardinali di una bussola che gira su se stessa e trova il miglior modo per indirizzare chi guarda dove vuole che vada: nasce così una narrazione corale, attraverso il podcast di Leo, che ha l’obiettivo di raccontare e di raccontarsi. Senza filtri, senza riserve e soprattutto senza barriere. Perché sono proprio le barriere, frutto di anni di pregiudizi e concezioni errate, a rendere così difficile un percorso che, all’alba del 2022, dovrebbe almeno essere sdoganato. Ma ancora una volta Nel mio nome ci stupisce: piuttosto che portare un racconto basato sull’accusa e sulla prevaricazione, il documentario tende la mano a chiunque voglia afferrarla e aiuta, in tutti i sensi, a capire.

Nel mio nome, nella delicatezza che lo contraddistingue, preferisce aprirsi piuttosto che chiudere i battenti. Così facendo, ci trascina con sé.

In Italia, come il film ci tiene (giustamente) a sottolineare, la possibilità di cambiare sesso con la conseguente riattribuzione chirurgica e anagrafica è sancita dalla legge 164 del 1982. Date e numeri che fanno suonare pochi campanelli nella mente di ognuno di noi ma che servono semplicemente a sottolineare la staticità di un sistema legislativo ancorato a dei valori che risalgono a quasi quarant’anni fa. Ed è qua che si sente la vera e propria denuncia: perché Nel mio nome è bravissimo a raccontare di un iter complesso, difficoltoso e per certi versi inutile che chiunque della comunità transgender deve affrontare in Italia per potersi sentire a tutti gli effetti padrone di sé stesso. E la domanda, conseguentemente, sorge spontanea: perché? Perché servono anni affinché si possa vedere sul proprio documento d’identità un nome che sentiamo a tutti gli effetti come nostro? Perché questo limbo che sembra eterno? Nel mio nome non si concentra tanto sulle risposte ma prova a fare le domande giuste. E le lascia lì, in bella vista.

Nel mio nome non ha l’atmosfera artistica di The Danish Girl o la crudezza di Dallas Buyers Club. Lo spettatore non trova nulla davanti a sé che allontani la narrazione dalla propria quotidianità, al contrario ne viene risucchiato. Non si trovano attori, scenografie o dialoghi costruiti a tavolino. Anche le riprese sembrano fatte ad hoc: pare di assistere, attraverso lo spioncino di una porta, a qualcosa che non ci riguarda e che al tempo stesso sentiamo molto vicino. Perché comune e soprattutto reale. E se è vero che abbiamo numerose serie tv che hanno raccontato nel miglior modo la comunità transgender, Nel mio nome strappa anche il filtro della serialità e buca direttamente lo schermo.

Al termine della visione una serie di scritte scorrevoli accompagnano i titoli di coda. E stavolta il film che lo chiede direttamente: che cosa c’è in un nome? Quanto pesa il nome che ci viene dato da qualcun altro e quanto invece conta quello che scegliamo, che sentiamo come nostro a tutti gli effetti? Il documentario termina ma le domande restano. Perché Nel mio nome ha capito molto bene quanto, anche non volendo, siamo bravi a dimenticare.

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