ATTENZIONE: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su My Unorthodox Life.
È uscita lo scorso 2 dicembre su Netflix la seconda stagione di My Unorthodox Life, il reality che racconta la vita di Julia Haart, stilista, creatrice e imprenditrice americana, ex CEO dell’Elite World Group (EWG), una tra le più importanti company nell’ambito della moda e del management delle top model.
Al termine della prima stagione avevamo lasciato Julia Haart felicemente sposata con Silvio Scaglia, altro importante imprenditore, italiano, già ex amministratore delegato di Omnitel Italia (ora Vodafone Italia). I due, sospettano gli spettatori, hanno stretto un legame matrimoniale più per convenienza che per vero amore visto che insieme hanno dato la scalata all’EWG.
Nel frattempo, oltre a curare gli affari, Julia Haart è stata alle prese con le difficoltà procuratele dai suoi quattro figli, Batsheva, Shlomo, Miriam e Aron, tutti e quattro avuti con il primo marito, Yosef Hendler. I quattro sono ancora in una lunga e piuttosto complessa fase di cambiamento e ciascuno, a modo suo e con le conseguenti difficoltà legate alla propria personalità, alla scoperta di un mondo decisamente complicato e, sotto certi aspetti, persino pericoloso.
Nel febbraio di quest’anno, proprio in concomitanza con l’inizio delle riprese della seconda stagione, Julia Haart si è ritrovata praticamente a spasso e con le carte di divorzio da firmare. Questa situazione ha messo a repentaglio i nove episodi usciti su Netflix a inizio dicembre. “A un certo punto ho pensato di stoppare tutto. Avevo l’impressione di non essere più in grado di gestire la mia vita, figurarsi di farla filmare e poi farla vedere al mondo intero“, ha detto l’imprenditrice. Ma alla fine ha prevalso… il buon senso? La necessità di mettersi in mostra? Il diritto di cronaca? O forse, più semplicemente, come si dice in questi casi: the show must go on?
Se nel corso della prima stagione ci è stata data l’opportunità di conoscere Julia Haart allora si può ben dire che l’imprenditrice, dopo un più che comprensibile momento di sbandamento, ha saputo tirare fuori le unghie e mostrare al mondo il suo carattere combattivo. Nel corso di un’intervista, infatti, l’imprenditrice ha tenuto a ribadire il concetto chiave di tutta questa docuserie: “io sono, e voglio continuare a essere, l’esempio vivente che si può cambiare radicalmente vita e trasformare in oro tutto quello che si tocca. Perciò non mi tirerò indietro e darò battaglia, per vincere la guerra che mi aspetta“.
Per coloro che si fossero sintonizzati saltando piè pari la prima stagione occorre specificare un dettaglio indispensabile. Julia Haart, nata a Mosca nel 1971 e trasferitasi negli Stati Uniti all’età di tre anni, fino al 2013 è stata, insieme ai quattro figli, membro di una comunità ebraico-ortodossa, a Monsey, una cittadina a una settantina di chilometri a nord di New York. Se avete visto Unorthodox, miniserie meravigliosa uscita nel 2020 su Netflix, avete un’idea di cosa possa significare appartenere a una comunità ortodossa. Se invece ve la siete persa lasciamo a Julia il compito di darvi una spiegazione: “le donne sono utili solo a rammendare calzini e fare figli. Non hanno diritti ma solo doveri e nemmeno tanto piacevoli. L’ortodossia, in qualsiasi campo non solo religioso, quando rasenta il fanatismo è deleteria e per il proprio bene è meglio scappare prima di impazzire”. Dopo aver provato il desiderio di suicidarsi Julia ha avuto il grande coraggio di abbandonare marito e comunità, portando con sé i figli, e iniziare a vivere una vita differente.
Tornando alla seconda stagione fin dall’inizio si capisce subito che la possibilità di un divorzio amichevole tra Julia e Silvio è praticamente impossibile. Malgrado il clima amichevole fatto di sorrisi e convenevoli, aleggia l’angosciante sensazione che la tragedia sia dietro l’angolo. E quando, finalmente, viene fuori è una di quelle belle grosse. Per qualche strano motivo Silvio è riuscito a far credere alla moglie che le quote possedute della società sono alla pari, cinquanta percento, quando in realtà non è così. Oltre al danno la beffa visto che l’avido imprenditore italiano licenzia la donna in tronco, con la faccia tosta di mostrarsi persino un poco dispiaciuto.
D’altro canto l’incompatibilità tra i due era chiara a tutti quanti, diretti interessati esclusi, come spesso accade. Il problema? I figli di Julia. La donna, infatti, pur mostrandosi aperta e moderna sotto sotto nasconde l’anima di una chioccia e si è sempre sentita molto responsabile nei confronti della prole. La sua necessità di mettere i quattro figli sempre sopra a tutto, lavoro compreso, è stato l’insormontabile scoglio contro il quale si è arenato il matrimonio (fregatura societaria a parte, ovviamente).
Contemporaneamente nelle nove puntate vengono messi in mostra i problemi che colpiscono i quattro figli. Batsheva pare in procinto di divorziare dal marito, Ben, poiché i due hanno una visione opposta della vita e della religione. Lei tende verso la libertà mentre lui, invece sembra avvicinarsi sempre di più al fondamentalismo.
Miriam, invece, ha problemi con la sua fidanzata e con la sorella maggiore, Batsheva, la quale è convinta, insieme al marito, che la bisessualità della ragazza sia soltanto “un periodo un po’ così, va tanto di moda“.
Aron, il più piccolo, è in conflitto con la madre perché non riesce ancora a comprendere il motivo per il quale si ritrova fuori dalla comunità nella quale è cresciuto, sentendosi solo e perso nella Grande Mela tanto da desiderare di abbandonare la scuola laica per iscriversi a una religiosa. Mentre Shlomo, invece, è alle prese con l’abbagliante libertà soprattutto emotiva e sessuale.
Accanto alla famiglia Haart vengono raccontate anche le vicende di Robert Brotherton, vice di Julia in seno alla EWG, alle prese con una cambiamento fisico piuttosto radicale che gli possa permettere di acquisire maggiore sicurezza nella vita quotidiana. Questo cambiamento è ben supportato dal nuovo fidanzato, suo amico d’infanzia, e da Julia che oltre a essere il suo capo è anche la sua migliore amica.
Apparentemente molto glamour e drammatica My Unorthodox Life in realtà racconta ben altri argomenti. Com’era prevedibile, la serie in onda su Netflix ha ricevuto la feroce critica da parte delle comunità ebraico-ortodosse americane, le quali hanno puntato il dito contro Julia Haart accusandola di raccontare falsità pericolose capaci di dipingere un quadro esageratamente estremista. E a condurre questa controffensiva sono state proprio le donne delle comunità che, attraverso i social, sono arrivate ad accusare l’imprenditrice di fomentare l’antisemitismo, sempre più dilagante nel mondo.
Al di là delle questioni legate alla religione My Unorthodox Life è uno spettacolo che racconta la storia di una donna dalle idee chiare, capace di un radicale cambiamento contro tutto e tutti. Certo, nella seconda serie quanto nella prima stagione, la parte su come Julia sia riuscita a lasciare il ruolo di donna all’interno di una comunità chiusa e diventare, nell’arco di sei anni, una delle donne più importanti e influenti degli Stati Uniti risulta ancora poco chiara e poco approfondita. È anche per questo motivo che il sospetto che il matrimonio tra lei e Silvio sia di convenienza è più che fondato: una sorta di liaison d’opportunità che però l’ha vista decisamente in svantaggio.
Ma al di là della parte legata agli affari sarebbe stato interessante comprende maggiormente le modalità di abbandono di un mondo religioso per quello secolarizzato. Anche perché è poi il nodo gordiano dentro il quale si sviluppano i rapporti famigliari.
Julia Haart, infatti, appare, dal punto di vista genitoriale, al quanto fragile e contraddittoria. Se da una parte insegna ai figli che devono continuamente ricercare la libertà al tempo stesso è la prima a cercare di tarpare loro le ali. Seppure con le migliori intenzione come madre è chiaro che abbia la tendenza a imporre il suo modo di vedere la libertà risultando incapace di accettare il punto di vista dei figli che, ormai grandi e pensanti, si sentono costretti tra l’incudine e il martello.
Così, i sani conflitti tra genitori e figli, utili a entrambi per crescere vengono castrati e rimandati a tempo da destinarsi. Non si tratta di una lettura psicanalitica piuttosto impegnativa e complessa né tanto meno qualcosa di mai visto prima nelle serie televisive. L’intraprendenza di Julia Haart, da elogiare per come è venuta fuori da una situazione disperata, dà l’impressione di essere a senso unico e la libertà dei figli di comprendere la propria situazione appare teleguidata verso una direzione che accontenterebbe la genitrice ma scontenterebbe i figli. E l’innesco di questo conflitto, sfortunatamente, è un altro argomento che non viene mai affrontato agli occhi dei telespettatori.
Insomma, questa seconda stagione di My Unorthodox Life mette in mostra come stiano cambiando le dinamiche all’interno del quintetto Haart. Sulle diatribe famigliari aleggia l’eterna lotta tra laicità e ortodossia rendendole, di fatto, indubbiamente affascinanti. Oltre alle vicende legali l’impressione che viene fuori è quella di un dramma pronto a esplodere da un momento all’altro ma rimandato per esigenze di copione. Seppure più articolato e artificioso rispetto ad altri reality, in certe situazioni si tende a percepire come maggiormente costruito. Niente di grave, sia chiaro. Ma la sensazione che resta è quella di aver puntato i riflettori sugli argomenti sbagliati, la vita sfarzosa e il divorzio, rispetto a qualcosa che davvero potrebbe essere eccezionale e unico nel panorama del genere.