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Fauda – Recensione dell’ultimo capitolo del “caos”, ora su Netflix

ATTENZIONE: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su Fauda 4.

Il quarto capitolo della serie israeliana Fauda è uscito lo scorso venerdì, 20 gennaio, su Netflix ed è subito entrata nella Top Ten delle serie più viste del momento. Del resto Fauda, che in arabo significa caos, è un prodotto che in Israele ha ottenuto diversi premi molto importanti ed è riconosciuta tra le più interessanti serie di spionaggio degli ultimi dieci anni secondo l’autorevole New York Times.
La serie dovrebbe essere giunta al capolinea con questa quarta stagione ma il condizionale è sempre d’obbligo per le serie di grande successo. Certo, l’ultima scena dell’ultima puntata lascia ben poco spazio di manovra e i personaggi, tra protagonisti e coprotagonisti, sembrano aver concluso tutti il loro ciclo. Ma come spesso capita nel mondo della serialità televisiva l’ultima parola spetta ai dirigenti che per il momento tacciono e osservano i dati delle visualizzazioni gettando un occhio verso l’algoritmo in attesa di emettere la sentenza.

Dunque, dopo due anni di attesa, ecco finalmente la quarta stagione sui nostri schermi. Dodici nuove puntate che soddisfano il palato dei fan. A differenza delle tre precedenti stagioni quest’ultima esce dai confini mediorientali per fare una capatina a Bruxelles (in realtà gli esterni pare siano stati girati a Kiev pochi mesi prima dell’inizio della guerra). Un omaggio alla Vecchia Europa ma non solo, come dice Lior Raz, che della serie è creatore, sceneggiatore, insieme ad Avi Issacharoff e anche protagonista nei panni di Doron Kavillio. Questo quarto capitolo, infatti, esce dai confini stretti dei precedenti e rivolge il suo sguardo altrove, anche in Libano (dove questa stagione ha avuto un successo strepitoso) e in Siria, terre martoriate dalle innumerevoli, continue, guerre. Una necessità, dice l’attore, per poter spiegare al meglio che il concetto di identità va ben oltre l’essere semplicemente israeliano o palestinese, ebreo o musulmano. L’identità degli uomini e delle donne di Fauda è ricca di mille sfaccettature e ha bisogno del suo tempo e del suo spazio per affermarsi come principio sul quale poter costruire ponti che uniscano e non muri che separino.
Indubbiamente una serie di concetti molto profondi che però rischiano di finire in secondo piano, spazzati via dalla rabbia, dal rimorso, dalla frustrazione e dalla violenza, tutti sentimenti molto meno nobili, che albergano nei protagonisti di Fauda 4.

La storia inizia con un inseguimento a piedi per le vie di Jenin, città della Cisgiordania, giusto per rientrare subito nel clima. La squadra di agenti sotto copertura comandata sul campo da Eli (Yaakov Zada-Daniel) sta cercando di scoprire a chi vadano i soldi che una banda di rapinatori sta portando via dalle tasche dell’Autorità Palestinese.
E mentre le indagini proseguono grazie alla cattura di uno dei rapinatori scopriamo che Nurit (Rona-Lee Shimon) e Sagi (Idan Amedi) hanno portato avanti la loro relazione e si sposano sotto la benedizione dell’ex Capitano Ayub (Itzik Cohen), ora promosso e incaricato di gestire le operazioni clandestine all’estero. Proprio il Capitano deve recarsi a Bruxelles per sostenere una sua fonte e chiede a Doron, espulso dall’unità e pieno di rancore e di violenza repressa, di accompagnarlo per proteggerlo e per distrarsi un po’.
Doron è il solito. Anzi, se possibile ancora peggiorato: incapace di socializzare, di riconoscere di avere un problema nella gestione della rabbia, scontroso con i suoi ex colleghi e irrispettoso della gerarchia ciononostante è sempre coccolato e accudito e tutti sono pronti a chiudere entrambi gli occhi facendo finta di non vedere che i suoi problemi sono un rischio per sé e per chi gli sta attorno.
In ogni caso, pur con mille difetti, è l’unico che quando scoppia il caos nella capitale belga è in grado di cavare un ragno dal buco e fa di tutto per salvare la vita del suo amico Ayub, il quale è finito in una trappola ed è stato rapito da una ennesima cellula terroristica che rivendica la Palestina libera.

Fauda 4 640×360

La storia prosegue su due binari che, almeno all’inizio, sembrano intenzionati a non incontrarsi mai non avendo nulla in comune. Da una parte la squadra alla ricerca di Ayub; dall’altra Maya Byniamin (Lucy Ayoub), giovane donna araba sposata con un israeliano ed eccellente poliziotta sotto copertura per la squadra antidroga della polizia di Tel Aviv. Maya ha però un grave difetto: è la sorella di uno dei rapitori di Ayub e per questo viene sospettata e presa in custodia dai servizi israeliani, i quali non ci vanno tanto per il sottile.
La vita di Maya cambierà radicalmente un po’ per scelta, un po’ per obbligo nel corso della stagione fino a rinnegare il proprio recente passato per riabbracciare la famiglia e, forse, la causa palestinese, delusa proprio da Doron che giocherà sporco e senza nessuna pietà per ottenere le informazioni che gli occorrono.

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Sembrerebbe la solita faccenda ma non è così. Questa volta, in palio, c’è ben di più che sconfiggere il nemico e proteggere gli amici. Al di là dei viaggi tra Libano e Siria, dei violenti scontri tra israeliani e palestinesi e dei soliti, deliranti, leoni rivoluzionari con la kefiah e l’Ak47, la quarta stagione di Fauda mette in mostra, ancora di più rispetto alle passate stagioni, i terribili conflitti interiori dei vari personaggi in scena mettendo a nudo le loro anime tormentate. I membri della squadra, ma non solo loro, sono alle prese con una sorta di resa dei conti con le loro coscienze alla quale non possono sottrarsi. Il dilemma è sempre il solito: come conciliare lavoro e affetto, carriera e famiglia. Questa volta però il dubbio attanaglia tutti i membri dell’unità, decisi a chiudere con un lavoro che li sta trascinando nel baratro della follia.
Uno a uno i soldati si trovano a confrontarsi non tanto con la paura della morte quanto con l’incapacità di non riuscire a smettere di sferrare e incassare colpi nell’eterna lotta tra il bene e il male. Bisognosi di porre fine alla spirale di violenza mettono sul piatto la necessità di una vita normale accanto alle persone che vogliono loro bene e che, seppur con mille difficoltà, li accudiscono amorevolmente.
Un argomento visto e rivisto nelle serie simili, certo. Ma trattato differentemente. Nella serie targata Netflix è palese la stanchezza, per altro da una parte e dall’altra della barricata, sui volti dei protagonisti che si muovono come automi, spremuti dai superiori che non hanno pietà alcuna. La fragilità con la quale uomini addestrati a uccidere confessano il loro dolore è veramente emozionante ed è forse la parte più bella di tutta questa quarta stagione.

Come bellissimi, ma questo è un marchio di fabbrica della serie israeliana, sono i personaggi femminili. Le compagne dei soldati, in uno schietto confronto tra loro, arrivano alla conclusione che non possono fare altro che accettare quello che sono i loro compagni ammettendo l’incapacità di lasciarli per condurre una vita normale. Ma la rassegnazione che impregna le loro parole non ha nulla di eroico né tanto meno le fa apparire vittime. È, semplicemente, la presa di coscienza di quanto possa essere, a certe condizioni, tremendo l’amore.
Dall’altra parte, sul fronte palestinese, al di là dell’ancestrale concetto della famiglia, anche i cattivi dimostrano di avere un cuore che viene custodito dalle donne: madri, mogli e sorelle.
Meraviglioso, in questo, è il personaggio di Maya che abbandona quello che aveva costruito lontano da casa per tornare nella sua famiglia, alla sua origine.

La maniera con la quale vengono trattati i personaggi ha un che di magistrale. Le loro fragilità, i loro cambiamenti, le loro evoluzioni (e non involuzioni anche se così potrebbe apparire) sono reali, concreti, non hanno nulla di stereotipato e risultano molto coinvolgenti. In alcuni casi addirittura commoventi. E suppliscono alla storia, poco omogenea, che tra alti e bassi piuttosto evidenti dà l’impressione che gli autori siano arrivati al capolinea con il percorso creativo. Mentre l’idea di trasferire l’azione a Bruxelles è una ventata di aria fresca il viaggio di Doron con Maya è praticamente lo stesso già visto tra lui e la dottoressa Shirin nelle prime due stagioni confermando ancora una volta che è nella coralità che la serie dà il suo meglio e non nel seguire le azioni di Doron.
Anche la costruzione del finale, purtroppo, risulta debole. L’ennesima follia che chiude il cerchio di violenza e di morte della squadra di soldati israeliani avrebbe meritato maggiore cura per rendere omaggio proprio ai protagonisti. Un po’ come è stato fatto per Homeland, insomma. Non un finale epico perché sarebbe stato poco coerente. Ma nemmeno così anonimo, seppur tragico. Perché la conclusione di questa grande epopea disponibile su Netflix è giusta nell’intento ma sbagliata, purtroppo, nella realizzazione.