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L’importante eredità di Pose

Pose è una serie partita in sordina, andata in onda su un canale di nicchia come FX, eppure le sono bastati soltanto 25 episodi per lasciare un segno indelebile nel mondo della serialità. Ambientata a New York a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del ventesimo secolo, il dramma creato da Ryan Murphy, Brad Falchuk e Steven Canals racconta le vicende delle comunità LGBTQ+ nera e afrolatina durante il picco dell’epidemia di AIDS, quando lo stigma intorno a questa minoranza era inferiore soltanto alla paura costante di morire che quest’ultima viveva. Pur ricorrendo a un’estetica profondamente camp e glamour, che raggiunge la sua massima espressione nelle scene ambientate durante i ball, Pose è soprattutto una serie che fa del realismo della narrazione il suo punto forte, mettendo in scena senza filtri tutte le difficoltà vissute dai suoi protagonisti durante la loro vita quotidiana, che vanno dall’aperta discriminazione al timore per la propria vita, spesso condotta in condizioni di povertà estrema.

Scegliendo di dare voce a membri della società costretti a viverne ai margini, come le donne transgender, gli uomini omosessuali e in generale le persone non appartenenti alla maggioranza bianca ed eterosessuale che ancora oggi si ritrova a imporre la propria narrazione come dominante, Pose fa qualcosa di diverso da altre serie che in precedenza si erano poste obiettivi simili. Se infatti il period drama di FX non è il primo prodotto che vuole proporre un punto di vista differente, è innegabile che la scelta di affidare la messa in scena delle vicende a una writing room e a registi appartenenti alla comunità che viene rappresentata è una novità rende Pose una vera serie tv spartiacque.

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Se è vero che fin dal primo momento la serie ha voluto dare voce a comunità marginalizzate, mostrandone la vita quotidiana e portando in scena una narrazione che non le dipinge né come vittime né come outsider, durante la sua prima stagione “Pose” è scesa a compromessi con la televisione mainstream. Infatti, forse per attirare un pubblico più vasto o semplicemente perché non si pensava ancora che la potenza dirompente della serie portasse a un cambio di paradigma nel modo di raccontare e rappresentare la comunità LGBTQ+ non bianca, i primi 8 episodi presentano tra i protagonisti tre personaggi bianchi ed eterosessuali, interpretati da attori famosi quali James Van Der Beek, Evan Peters e Kate Mara. Sebbene quella di coinvolgere questi interpreti nel progetto sia stata una mossa comprensibile nell’ottica di garantire una maggiore visibilità a Pose, fin dal primo momento le storyline che li coinvolgevano sono sembrate poco organiche rispetto alla trama e soprattutto portavano via spazio alle vicende di una comunità che raramente ha avuto la possibilità di mostrarsi sullo schermo. Alla luce di queste considerazioni, risulta particolarmente importante la decisione di escludere i personaggi interpretati da Van Der Beek, Peters e Mara a partire dalla seconda stagione della serie, che diventa quindi il terreno esclusivo di quelli che fin dall’inizio erano presentati come i veri protagonisti della serie. Quella di concedere spazio esclusivamente alle voci della comunità queer e non WASP è forse la scelta più coraggiosa di Pose, il lascito più importante della serie, che diventa così la bandiera di una televisione diversa, che sia luogo di inclusione e rappresentazione della moltitudine di voci che si alzano nel mondo.

Una rappresentazione che parte da dietro le quinte, dal processo di scrittura e produzione della serie, che mai come in Pose è il risultato del lavoro collettivo di quegli stessi membri della comunità LGBTQ+ nera e afrolatina che è protagonista nella serie. L’idea alla base del progetto è infatti di Steven Canals, sceneggiatore e produttore gay di origini portoricane, che con il supporto di due dei nomi più importanti del mondo della serialità – Ryan Murphy e Brad Falchuk – ha reso realtà la sua visione, nonostante le difficoltà incontrate nel percorso. I tre creatori di Pose, una volta ottenuto il via libera per la produzione della serie, hanno scelto di affidarsi a un team creativo composto da donne transgender, come Our Lady J e Janet Mock, e membri della comunità LGBTQ+. Avere una squadra dietro le quinte il cui background personale rifletta accuratamente quello dei personaggi rappresentati in televisione è un enorme passo avanti nella lotta per l’adeguata rappresentazione televisiva delle minoranze, una lotta di cui Pose si è fatta portavoce, contribuendo a cambiare il punto di vista attraverso cui avviene la narrazione seriale al giorno d’oggi.

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L’eredità di Pose non si riflette soltanto nella sfera della rappresentazione delle minoranze, ma anche in quella del tono della narrazione, che nel period drama di FX assume un ruolo fondamentale e innovativo. La serie tratta tematiche dai forti connotati drammatici, come la sieropositività e l’AIDS, la dipendenza da sostante stupefacenti, la prostituzione e lo spaccio come uno dei pochi modi per mantenersi, o la ricerca di una famiglia quando si è stati cacciati dalla propria. Eppure, pur mostrando il dolore e la solitudine dei suoi protagonisti, l’essenza di “Pose” si trova nel suo essere una serie tremendamente motivazionale (come vi abbiamo raccontato qui), a tratti persino utopica, in grado di mostrare come la luce sia in grado di illuminare persino i luoghi più nascosti e oscuri. Il mondo raccontato dalla serie, proprio come quello in cui viviamo, non è tutto bianco o nero e le scelte che le persone compiono, o il modo in cui conducono la propria vita, vengono mostrate in questa prospettiva. L’assenza di un moralismo fuori luogo o di un eccessivo vittimismo rappresentano una ventata d’aria fresca, perché questo significa dare spazio alla vita in quanto tale, con tutte le contraddizioni e difficoltà che questa porta con sé.

Quello portato in scena da Pose è un universo dove, accanto alla malattia, alla violenza, alla morte e alla discriminazione trova spazio anche il lieto fine fiabesco, dove la speranza è più che una flebile aspettativa, ma è qualcosa di tangibile. Pur affrontando ancora una volta alcune delle esperienze profondamente traumatizzanti che costituiscono parte ineliminabile della vita quotidiana della comunità rappresentata nella serie, nella terza e ultima stagione la maggior parte dei personaggi va incontro al suo lieto fine, mostrando come la felicità e l’accettazione sociale siano possibili. Un messaggio di fondamentale importanza, perché lontano dal fato spesso riservato ai membri delle minoranze nella rappresentazione mainstream. Personaggi e percorsi come quelli di Blanca, Angel ed Elektra hanno mostrato una volta per tutte cosa significhi essere una donna transgender, forti anche delle performance straordinarie delle loro interpreti. Infatti non si può non menzionare come parte dell’eredità di Pose sia proprio il suo cast, che non a caso sta continuando a ridefinire il paradigma della rappresentazione a Hollywood. Solo per menzionare alcuni dei traguardi raggiunti dal cast della serie ricordiamo che Billy Porter è stato il primo attore nero dichiaratamente omosessuale a vincere un Premio Emmy, mentre MJ Rodriguez è diventata quest’anno la prima donna transgender a vincere il Golden Globe come migliore attrice. Ora che Pose si è conclusa, gli interpreti della serie sembrano lanciati verso un grande successo, come dimostra la lunga lista di nuovi progetti in cui vediamo impegnati tra gli altri Porter, Rodriguez, Indya Moore e Angelica Ross. Le carriere di questi attori straordinari sono lanciate verso un percorso di grande successo che non sarebbe mai stato possibile in un mondo senza Pose, un mondo nel quale il soffitto di cristallo presente a Hollywood non era ancora stato infranto con forza da questo piccolo gioiello targato FX.

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