Vai al contenuto
Serie TV - Hall of Series » Il Metodo Kominsky » Il Metodo Kominsky 3 – La Recensione della terza (e ultima) stagione

Il Metodo Kominsky 3 – La Recensione della terza (e ultima) stagione

ATTENZIONE: questo articolo contiene spoiler sulla terza stagione de Il metodo Kominsky.

L’acclamata serie di Chuck Lorre, vincitrice nel 2019 di due Golden Globes, torna su Netflix con il suo ultimo atto. Cala il sipario su una delle commedie più interessanti degli ultimi anni. Un progetto che ha visto due grandi star di Hollywood come Michael Douglas e Alan Arkin, cimentarsi nel ruolo di un attore al tramonto e del suo agente, due ultrasettantenni alle prese con la vecchiaia, lo scorrere del tempo, le riflessioni sulla vita, il rapporto con le donne. È una serie tv brillante, commovente, delicata, ironica. Spensierata e profonda. A tratti malinconica, bruciante. Lorre, il creatore di Due uomini e mezzo e The Big Bang Theory, qui usa il sarcasmo come strumento per esorcizzare la paura della fine, del distacco, per tenere a bada il sopraggiungere della morte, che prima o poi arriva per tutti.

La terza stagione de Il metodo Kominsky va in scena con un peso ingombrante sulle spalle: l’assenza proprio di Alan Arkin.

Si parlava della volontà del premio Oscar di non prendere parte ai nuovi episodi. Era una voce che circolava e che, con la pubblicazione del trailer, ha trovato la sua conferma. Ci eravamo chiesti se Il metodo Kominsky potesse superare l’assenza del suo co-protagonista. La coppia Douglas-Arkin funzionava alla perfezione. Tra i due, si era creata una certa alchimia, una chimica magnetica che sullo schermo trasmetteva tutta la sua forza. Pensare a Il metodo Kominsky senza una delle sue componenti principali dava l’idea di una serie monca, indebolita, fuori obiettivo.

Il metodo Kominsky

E invece la terza stagione riesce a reggere l’urto. Innanzitutto, perché la presenza di Norman Newlander aleggia sui nuovi episodi in maniera costante. Nei flashback, nei discorsi, nei ricordi, persino nella dedica finale dell’Oscar. È come se il vecchio amico di Sandy non se ne fosse mai andato davvero. Sembra quasi di sentirlo mentre lancia una delle sue battute caustiche sulla vita. E poi l’assenza si supera facilmente perché, malgrado il lutto, la serie non si chiude su se stessa, ma si dimostra ancora in grado di esplorare le varie sfaccettature dell’esistenza. Il mood di base resta lo stesso. Il metodo Kominsky non si intristisce, non si demoralizza e non perde la sua spigliatezza comica.

Andato via Norman, arriva Ruth, l’ex moglie di Sandy. O, come dice lui, la prima delle sue tante ex mogli. A interpretarla è Kathleen Turner, l’attrice che ha recitato al fianco di Michael Douglas in La guerra dei Roses, Il Gioiello del Nilo e in All’inseguimento della pietra verde, film per il quale ottenne un Golden Globe nel 1985. Tra Kathleen Turner e Michael Douglas c’è sempre stata grande intesa. Qualcuno, a quei tempi, parlava anche di qualcosina in più di una semplice intesa sul set. Sta di fatto che la coppia – o meglio, la ex coppia – ne Il metodo Kominsky riesce a trovare complicità e brillantezza. I dialoghi tra i due personaggi sono tra i più profondi e divertenti.

Questa serie si alimenta di dicotomie, di contrasti tra caratteri diversi che alla fine riescono a ridere e a far ridere. E se l’assenza di Norman appare apparentemente insormontabile, l’arrivo di Ruth riequilibra le cose. Riesce a stabilizzare una storia che ha il pressante bisogno di parlare a una controparte, di dispiegarsi lungo due binari distinti, che però spesso trovano un punto di incontro. Non è un caso che Ruth piombi sulla scena immediatamente dopo il commiato di Norman. La sua figura serve a controbilanciare la partenza del co-protagonista. E chi meglio di Kathleen Turner? Lei e Douglas riescono a riprendere un filo abbandonato qualche decennio prima e a dargli nuovo smalto, nuova energia.

La vita di Sandy non è più la stessa senza il suo amico di una vita. L’immagine del Martini poggiato con delicatezza nel posto vuoto che era di Norman è una delle scene più delicate e commoventi della terza stagione. Un’immagine che parla da sola e che strappa un sorriso più che una lacrima. Perché Il metodo Kominsky riesce a far prevalere la leggerezza sempre, anche nel brindisi con l’amico morto, con una sedia vuota. Chuck Lorre è stato capace di parlare del dolore in maniera divertente. Lo ha fatto dalla prima stagione, attraversando momenti traumatici e scaraventandoci addosso il malessere di alcune sequenze struggenti, ma senza mai abbandonarsi al dramma. Il metodo Kominsky guarda alla morte in controluce: si lascia dietro l’abbaglio del dolore e riesce a razionalizzare con calma.

Sandy Kominsky elabora un passo alla volta il lutto per la perdita del suo migliore amico. Lo troviamo subito alle prese con il lascito di Norman, i problemi che quest’ultimo è riuscito a causargli anche da morto. Ritroviamo Phoebe (Lisa Edelstein) e Robby (Haley Joel Osment), la figlia problematica di Norman e il nipote membro di Scientology. C’è Mindy (Sarah Baker) che si divide tra il prendersi cura di suo padre e l’accettare la proposta di matrimonio di Martin (Paul Reiser). E c’è sullo sfondo la scuola di teatro – nella quale, inaspettatamente, piomba anche una guest star come Morgan Freeman -, il luogo fisico e spirituale in cui Sandy riesce a superare davvero il distacco e a interrogarsi sul senso della vita e della morte.

La morte è una presenza preminente che aleggia in tutte le stagioni de Il metodo Kominsky. Dando un’interpretazione più larga della serie, si potrebbe addirittura affermare che sia la morte la vera protagonista dello show. Una morte che si vuole esorcizzare e allontanare ricorrendo a battute di spirito e provocando situazioni esilaranti. Ne è un esempio il funerale di Norman, che termina con la sua segretaria che si lancia sulla bara e con la compagna che racconta i particolari piccanti della loro vita di coppia. Dopo i lutti accumulati, credevamo di poter finalmente guardare alla vita e invece Chuck Lorre ci ripropone un’altra toccante dipartita, dolorosa almeno quanto le precedenti.

Il metodo Kominsky

Sarà che, arrivati a settantacinque anni, ci si può aspettare poco dalla vita e tanto dall’attesa della morte.

Sarà che questa è una serie che parla del tramonto e non guarda al nuovo giorno. Ma è proprio questo il grande insegnamento che Il metodo Kominsky sa dare: che, anche se giunti al crepuscolo di un giorno né troppo bello né particolarmente brutto, si può rinascere costantemente come persone nuove. Ci si allena al dolore e si schiariscono le nubi sopra la testa. E, perché no, si può arrivare a realizzare il sogno di una vita.

LEGGI ANCHE – Il metodo Kominsky Il mio viaggio all’interno della serie