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Lettera di Cosimo De’Medici alla Cupola autoportante

In Carreggi, Villa Medici,  il dì XXX settembre 1463

Oggi io, Cosimo, scrivo a te, amica mia. Spero che le mie parole non ti saranno troppo amare.

Questa mia lettera forse potrà sembrare, a chi aprirà il mio epistolario, un gioco di malaugurato gusto. O le ultime visioni di un vecchio pazzo.

Forse, amica, pazzo lo sto diventando davvero. Ma superato il mirabolante numero di settanta anni, e vissuto ciò che ho vissuto, non potrei nasconderlo. E quindi con le mie ultime facoltà intellettuali, e nella Grazia di Dio, ho deciso di rivolgermi proprio a te.

Il settimo mese dei Romani è quasi alla fine. Nella mia Carreggi si cominciano a percepire i primi venti invernali, che soffiano tra i rami più alti. Seduto nel mezzo dei vigneti e delle colture, le dolci colline sono diventate mie compagne di tutte le ore. E qui, come il mio amato padre prima di me, rimembro e mi dolgo delle mie perdite.

Nei miei anni di gioventù mai avrei pensato di somigliare a mio padre, in qualsiasi modo. Ho sempre cercato di essere Cosimo, e non Giovanni. Di presentarmi come il nuovo volto della borghesia, dell’aristocrazia e del popolo di Firenze. Di diventare quello di cui la gente aveva bisogno, di trasformare la mia natura come una superficie riflettente.

Ma alla fine di tutto sono qui, da solo e sul terminare degli anni. Non sono poi diverso da qualsiasi altro figlio di Dio.

Cosa sono diventato, vecchia amica? Non tengo più conto dei giorni o delle ore. Alla fine di tutto, chi conosciamo scompare anch’egli per sempre. Cerco di cancellare il dolore, ma continuo a ricordare tutto.

So di fare un peccato a Dio nel solo osare pensarlo, e un peccato ancora più mortale a riportarlo in parole. Ma, davanti alle mie ricchezze, alle mie terre, io sono infelice. L’inverno è freddo in questo misero anno, e si è portato con se molto più che la mia giovinezza. L’equinozio è data infausta ormai. E il XXIII un numero da dimenticare, perchè capace solo di ricordarmi la scomparsa di Giovanni.

Ho perduto molto nella mia esistenza, mia dolce amica. E ogni notte tradisco me stesso, maledicendo il Signore Iddio per aver preso mio figlio, e non me al suo posto. E nell’aver così tante volte profanato la mia fede, non mi sento più nelle facoltà di potermi rivolgermi a Lui.

Ed è questa la causa per cui scrivo a te, amica. Sono anch’io un cittadino di Firenze, e come gli altri, così anche io alzo gli occhi al cielo. E nel farlo non vedo certo Dio, ma te. Alta e troneggiante sopra Firenze.

Cosimo

Ho impiegato poco tempo a sognarti, molto di più a visionarti sulla carta. E nel darti forma non sono stato certo solo. Brunelleschi Filippo e i suoi visionari metodi di costruzione hanno permesso la tua nascita.

Sai quanta speranza ho riposto nella tua forma. Quella visione di te, elevata sopra i cieli, ci avrebbe donato un posto nella storia.

La famiglia Medici sarebbe stata ricordata negli anni, nel suo punto più alto. Visionaria e apparentemente impossibile nella sua potenza. Un mito, come colonne d’Ercole per un nuovo futuro, e un ricordo possente del passato di Firenze.

Ma forse il mio sogno è stato alla fine solo ritrarre una mia icona, l’icona di Cosimo De’ Medici. La ma consorte mi ha sempre perdonato molti sbagli, ma mai si è dimenticata di tenere ben presente il mio desiderio di essere ricordato.

Mentre scrivo le ore stanno passando, e il sole non scalda più come un attimo prima. Il vento è sempre un poco più intenso, e il freddo un poco più presente. Lo senti anche tu, amica mia?

Forse io e te siamo più simili di quello che io abbia mai pensato, cara amica. Nel ricordo di Cosimo, e nel suo essere materiale, mi sono rivisto in te.

Calce il mio sangue, e solide fondamenta le mie gambe. Le mie ossa sono mattoni, e la mia carne marmo. La pelle, come mura esterne, è stata battuta da venti e intemperie, che le hanno lasciato nient’altro che cicatrici. Il mio cuore è pitture e affreschi, ritratti e giochi, battaglie e santi. E la mia mente guarda alta verso il cielo, alta e intraprendente come un pinnacolo bianco.

La grande differenza tra me e te, amica mia, è solo il tempo. Alla fine ciò che rimane di noi sono spoglie mortali, non certo durevoli negli anni come dura pietra, ma volatili come foglie secche al vento.

La vita di un essere umano è troppo breve per veder realizzati tutti i suo sogni e progetti. Ma spero che tu possa accettare i miei occhi, amica. Così che possa vedere, grazie alla tua posizione privilegiata, tutto ciò che non mi sarà permesso quando si chiuderanno per sempre.

È quasi sera, a Carreggi. Il vento sta diventando più pungente e freddo, le ombre degli alberi più lunghe sul terreno. E io sono ancora qui a scrivere, ma ancora per poco.

Davanti a me vedo le nuvole cominciare a dileguarsi. Nuvole a me tanto care, certo, ma pesanti e a volte insostenibili. E che cominciano a far sentire il loro peso sul mio animo. Pensieri e preoccupazioni non sono mai stati per me, amica. Ho sempre preferito vedermi libero da ogni catena, e toccare le nuvole.

Forse questi pensieri saranno anche di Lorenzo, un giorno. Ma spero che mio nipote possa essere migliore di me nell’affrontarli.

Se potessi avere dal Signore la possibilità di ricominciare, amica, compirei le stesse scelte e gli stessi sbagli. Sono infelice, ma non rimpiango il passato. Rimarrei me stesso, e tu rimarresti te stessa. Ma non posso più scrivere, ormai. Non vi è più luce che illumini le mie parole.

È ormai ora che rientri in casa: i miei vaneggiamenti sono diventati veramente quelli di ” Cosimo il Vecchio”, come il soprannome che mi è stato dato.

Ci rivedremo, amica mia. Non visito la mia Firenze da troppo tempo.

E quando ti avrò davanti agli occhi, sarà la mia volta di guardarti dall’alto. E di trovare la mia pace, lì dove io, Cosimo, sono voluto sempre stare. Alto nei cieli di Firenze, insieme a  te.