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Garry Marshall, fucina creativa di molte sit-com, stava per fallire con Happy Days e proprio dal titolo. La sua proposta iniziale era COOL, tutto maiuscolo, titolo bocciato dai “focus group” che nell’altro secolo erano l’equivalente umano degli algoritmi. Happy Days, giorni felici, niente a che vedere con l’omonima pièce teatrale di Samuel Beckett. Forse la prima serie spin-off da un film che ha conquistato un posto meritato nella storia del cinema, American Graffiti. Mantenendo la promessa di felicità nel titolo, la costola seriale del film abbandona la parte malinconica e trattiene alcuni personaggi affrancandoli dal peso dei giorni faticosi di vita per lasciare solamente la felicità, la gioia dell’essere giovani nel paese Disneyland che è l’America per tutti quelli che la amano ma la conoscono poco.

A quasi cinquanta anni dalla messa in onda sul canale ABC si innesta un effetto nostalgia multiplo. Happy Days celebra gli anni 50, il nostro tempo onora a rotazione i decenni del secolo scorso e celebrando gli anni 70 si genera un effetto myse en abyme. La nostalgia della nostalgia, doppio specchio retrovisore che riflette il tempo che era proiettato a sua volta nel passato. Ma tutto questo a cosa ci porta? Heyyy..senza altre parole, l’esclamazione non solo verbale e con una totale aderenza alla gestualità dell’unico vero cool nella storia delle serie televisive è la risposta.

Non è un paese per Fonzie

happy days
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Outsider di charme, padre di tutti i Grease prodotti, adulto tra idolatranti adolescenti, guru della meccanica ma soprattutto dell’arte della seduzione, Arthur Fonzarelli, per tutti Fonzie nella carica fisica ed attoriale di Henry Winkler ha idealmente appeso il giubbotto di pelle nei nostri salotti e nella nostra memoria collettiva. Un chiodo nero sopra una Fruit of the Loom bianca è Fonzie e nessun altro. Nessun Danny Zuko a venire e gioco di bacino di John Travolta ha mai usurpato la magica icona di Happy Days che non avrebbe mietuto lo stesso successo se The Fonz, da personaggio secondario, non avesse conquistato la scena. In fondo i Cunningham che lo hanno accolto nella stanza sopra il garage, sono il primo esempio di famiglia allargata. Howard (Tom Bosley), padre piccolo imprenditore che tenta di fare il patriarca con scarsi risultati. Marion (Marion Ross), madre casalinga affettuosa con più capacità di adattamento agli stimoli del mondo giovanile rispetto al marito. Richie (Ron Howard), il figlio per bene, prototipo di americano che agisce da 40enne in un corpo da ragazzo. Joanie (Erin Moran), la piccola di casa con tutta la vitalità ed effervescenza che mancano al fratello, soprannominata da Fonzie “sottiletta” (shortcake in originale).

Una famiglia come tante che tesse il quotidiano con simpatia, affronta le piccole contrarietà della vita, un microcosmo inglobato in una casa borghese. Il fuori è un diner che accoglie tutti i ragazzi e le loro confidenze scambiate nel bagno/ufficio di Fonzie. Non entra mai nell’inquadratura il resto del mondo, un piccolo accenno a cosa c’è oltre la porta bianca di casa Cunningham. La bolla Pleasantville di Happy Days non viene mai neanche incrinata. L’unica incursione esterna sarà la presenza dell’alieno Mork. Piuttosto un altro pianeta ma non il mondo reale. Mentre i Cunningham discutono dell’orario di rientro diverso per età tra Richie e Joanie l’America inviava i suoi ragazzi in Vietnam. Non ci sono scritte finali in sovraimpressione come in American Graffiti dove si leggeva come l’età adulta fosse entrata nelle vite dei ragazzi dei giorni felici (tra i vari alter ego, Terry “il rospo” che in Happy Days ricorda Potsie, risulterà disperso in Vietnam, John Milner il più adulto, pilota di dragster senza giubbotto ma sicuramente Fonzie, falciato da un automobilista ubriaco, Steve Bolander che è interpretato dallo stesso Ron Howard, destinato a diventare un mediocre agente di assicurazioni).

L’effetto Pleasantville è un continuum che non abbandona mai la sit-com e qualsiasi argomento viene trattato con leggerezza ma i principi di lealtà, amicizia, senso di appartenenza sono sempre fedeli compagni di viaggio per tutta la serie.

Happy Days non poteva essere diverso. Un piacere semplice in un mondo complicato. Gli Stati Uniti hanno visto il loro primo Presidente dimettersi per lo scandalo Watergate, la prima grande crisi energetica a seguito dell’embargo del petrolio dell’OPEC. L’America abituata a sognare e realizzare si trova a dover accettare che la più alta carica istituzionale, l’uomo che non è solo Presidente dei suoi elettori ma di tutta la popolazione, abbia mentito. Le certezze vengono meno. Ci vuole un Fonzie che non mente anche se non riesce a dire che ha sbagliato e traduce, costretto, “non avevo esattamente ragione”. E’ linfa vitale sapere che ogni martedì sera l’America tradita dall’uomo scelto a rappresentarla, che fatica a mandare avanti la catena produttiva, si possa specchiare nell’America che era, che forse non è mai stata ma è così che funziona il sogno americano. Pensiamolo, immaginiamolo e diventerà realtà. Per quasi 10 anni Happy Days ha accompagnato la lenta uscita dal tunnel della crisi economica e politica, ha visto 3 Presidenti, ha ispirato sette spin-off , ha reso iconico un giubbotto di pelle nera tanto da essere conservato allo Smithsonian.

Non ha mai smesso di farci sorridere, solo nel nostro secolo ha perso realmente il sorriso che illuminava il bel viso di Joanie invece è stato rubato da una morte prematura dell’attrice Erin Moran. A questo neanche il migliore Heyyyyy di Fonzie può porre rimedio ma per un tempo utile a rendere felici dei giorni normali resta l’arma migliore.