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Boris 4 – La Recensione dell’attesissimo ritorno della fuoriserie italiana

Nessuno ci credeva più, neanche Guzzanti. Le sfide per riavviare la macchina erano tante, ma ce l’hanno fatta. L’ostacolo più grande era sia quello di trovare nuovi argomenti, sia inserire i vecchi personaggi in un mondo nuovo, il presente. Perché dal 2007 è cambiato tutto. Dopo anni di trepidante attesa, la quarta stagione di Boris è arrivata (il 26 ottobre su Disney+). In blocco: otto puntate da mezz’ora da trangugiare tutto d’un fiato. Basta premere “play” per rivivere l’emozione che provammo quel 16 aprile 2007. Ci accoglie un’atmosfera familiare: un insulto spassionato, come accadeva all’inizio dell’avventura. L’effetto straniante è lo stesso. L’unica differenza è che 15 anni fa non conoscevamo né René né Alessandro mentre oggi abbiamo l’impressione di ritrovarci tra vecchi amici. È inutile ricordare quanto Boris sia stata una spartiacque, segnando irrimediabilmente la comicità italiana. Chi segue Hall of Series sa l’affetto – l’amore! – che nutriamo per la creatura ideata da Luca Manzi e Carlo Mazzotta e scritta dagli sceneggiatori (quelli veri, non quei tre “cialtroni” che scrivono una scappatoia alla volta): Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo. E a Mattia Torre, scomparso nel 2019, è dedicato il capitolo. La malinconia è tanta. Specialmente per l’assenza di chi ci ha lasciato; non solo Torre, ma anche Roberta Fiorentini (Itala) e Arnaldo Ninchi. Una nuova stagione era rischiosa, soprattutto senza una delle penne più importanti del progetto. Le opzioni a cui andavano incontro erano tre: il disastro, il banale effetto nostalgia oppure qualcosa di rivoluzionario e corrosivo. Tirando un sospiro di sollievo, possiamo affermare che il risultato non è stato un disastro. Siamo anche lontani dal banale effetto nostalgia, alla “volemose bene”. Eppure, sebbene la brillantezza delle trovate comiche e lo spessore della scrittura, ben calata nel presente, non possiamo parlare di un ritorno compiuto della verve satirica di Boris. La quarta è un’ottima stagione. La fuoriserie, per fortuna, mantiene il suo primato. Diverte, emoziona e sa essere il racconto disilluso del nostro Paese. Ciarrapico e Vendruscolo sono riusciti a cambiare tutto senza cambiare nulla. Cioè, a mantenere le stesse dinamiche comiche, incastrandole con il presente. L’operazione è riuscita in pieno. Ma c’è un “ma”…

*Attenzione, seguono spoiler*

Boris 4: social, lock e algoritmi “so not italian”

Vita di Gesù, Boris 4
Vita di Gesù, Boris 4

Dopo tre stagioni passate a dissacrare le strutture sociali del nostro Paese – e non solo del comparto audiovisivo – Boris 4 non poteva non decostruire il nuovo sistema sociale governato dagli algoritmi. La nuova avventura seriale ci riporta così nel dietro le quinte di un nuovo progetto, sempre molto, troppo, italiano. Questa volta, a minacciarli, non c’è “La Rete” bensì “La Piattaforma”. Il regista, René Ferretti (Francesco Pannofino), non si farà rodere il fegato da Gli occhi del cuore, ma da Vita di Gesù. Il salto di qualità non c’è stato. Il progetto nasce da un’idea malsana di Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti) che, per qualche ragione imperscrutabile, ottiene il via libera dai nuovi “padroni”. Un doppio incubo perché oltre a gestire “l’attore Stanis”, René dovrà fare i conti anche con “il produttore Stanis”.

A coronamento della personalità schizoide, facilona e megalomane di Stanis, pur avendo superato i 33 anni, il divo molto italiano si calerà nei panni di Gesù. Nel frattempo – stentiamo ancora a crederci – La Rochelle si è sposato con Corinna Negri (Carolina Crescentini), la quale interpreterà Maria; una Maria scomoda! Anche la “cagna maledetta” ha fatto carriera (e sembra pure meno cagna). Ora è perfino produttrice con la sua SNIP (So Not Italian Production!). L’era dello “smarmella tutto” è finita, ma c’è un nuovo pericolo che, come il Dottor Cane, non ha un volto: l’algoritmo. Spetta a questa entità astratta l’ultima parola: cioè il “lock”. Neanche il pubblico è più quello di una volta: ora è attento ed esigente. Al posto de La Rete, avida, spietata e corrotta, c’è una piattaforma di streaming e le sue “caselline”, altrettanto avida sia di soldi che di qualità. Non solo, ma ci sono i social, i codici di comportamento etici e tante altre novità che la troupe di René non sa come affrontare.

Boris (640x360)
Boris (640×360)

La trama è solida e divertente, malgrado pecchi leggermente di autoreferenzialità. Ma funziona alla grande. Del resto, firma il progetto anche The Apartment di Lorenzo Mieli: una garanzia! La trama della quarta stagione è riassunta nella sigla – sempre geniale – cantata degli Elio e Le Storie Tese. I personaggi sono maturati pur restando quei “disadattati”. Corinna è diversa, meno divertente però, ed è diventata “la pulcina” di Stanis. Glauco (Giorgio Tirabassi) baratta crudo di pesce ed è consulente al Ministero della Cultura in Namibia. Duccio “no shooting” (Ninni Bruschetta) è nella sua solita forma sbiadita, equipaggiato di cataratta e 25 anni di astinenza. Sergio è dove dovrebbe stare, in prigione. Lopez (Antonio Catania) è in pensione dalla Rete. Si è reinventato produttore fondando la sua QQQ (Qualità, Qualità, Qualità) insieme al suo ricco cugino calabrese, lo Zio Michele (Giuseppe Piromalli). La figlia di Mazinga, che è diventata duchessa, incastra René usandolo come alibi. Alfredo, alla fine, se lo bevono le guardie per spaccio. Arianna (Caterina Guzzanti) ha una felpa più cachi che arancio, un marito, che trascura, e un figlio. Il posto di Itala è stato preso, timidamente, da un’altra segretaria di edizioni. Ferretti è quello di sempre; ha provato a fare un TikTok e ci ha regalato un omaggio finale divertente, ma imbarazzante, o cringe, di Flashdance. Karin è sempre Karin. Lorenzo, lo schiavo, è il braccio monco di Duccio, ma si ostina a fare la sua “fotografia politica”. Biascica è lo stesso mammalucco, ma mostra perfino delle potenzialità nascoste. Alessandro (Alessandro Tiberi), la novità più significativa, ha fatto carriera ed è diventato il responsabile italiano de La Piattaforma. In realtà è sempre “lo schiavo“, di una certa Allison, e lavora per “il nemico”.

La troupe di Ferretti – René, non Dante – manco a dirlo, fa fatica a mettere in pratica un codice etico lavorativo più attento all’inclusione e alla diversità. A mettere i bastoni tra le ruote, però, ci sono anche la social media manager, lo zio Michele che vuole “sparare a ‘sto futuro”, che ama le scene chiare, che si capiscono (un altro villain molto italiano); e Tatti Barletta (un fantastico Edoardo Pesce), un Giuda, un sobillatore, un sindacalista che prova a diventare protagonista. Rincontriamo “il ragazzo del discorsetto” che ora ha 52 anni, e non c’ha ancora il carisma. Nelle otto puntate succede di tutto. La comparsa del “blocco due” è in realtà una agente sotto copertura che ha “inclusionato” Alfredo, per dirla alla Biascica. La profezia di Ronciglione è esilarante, ma è un elemento dal potenziale sconfinato che avrebbe meritato più spazio, magari per generare quell’effetto un po’ thriller, un po’ mystery alla Machiavelli. Tutto è cambiato, eppure quelle dinamiche troppo italiane permangono. Gli stagisti hanno fatto carriera, ma restano schiavi dentro. Ora le riunioni si chiamano “le call”; Mariano ha lo starter pack del complottista. C’è una nuova stagista, Lalla (Aurora Calabresi). Cioè la nuova “Alessandro”, che funziona solo a metà. Il suo personaggio non è centrale come lo era “lo schiavo”, che in fondo rappresentava chiunque sognasse la qualità. Un’occasione sprecata perché oggi, ancor più del 2007, la situazione lavorativa delle nuove generazioni è più critica che mai.

Boris 4 è ancora Boris

Boris 4

I riferimenti al materiale originale, le inside jokes, splendono. Anche le nuove battute hanno mordente, sebbene non sempre raggiungano la spontaneità e la grandezza delle originali, a cui restano un po’ troppo attaccate. Menzione d’onore per “Oggi a Favino gli hanno proposto di interpretare Favino” di Martellone, il quale aspira a diventare “Gifuni”; che incontra pure! Peccato sia Favino mascherato. L’unico rimpianto è quello di non aver portato a bordo il vero Favino. “‘O dimo” può già entrare nel vocabolario di Boris, a fianco dell’iconico F4. Insomma le gag sono divertenti e coerenti con l’essenza della serie. Anche Biascica ci ha regalato delle nuove perle da usare nel quotidiano, come “Le persone ve le includete”, mentre “Pepperoni” e la declinazione inglese del “Dai, dai, dai” – che diventa “die, die, die” (muori, muori, muori) hanno già un sapore leggendario. Quello che ci convince meno è quello che dovrebbe essere il villain della stagione, cioè l’Algoritmo; affiancato dalla referente de La Piattaforma Allison Daltman (Emma Lo Bianco), un personaggio poco sfruttato. L’Italia è ancora “un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte”. Purtroppo. La trovata dell’algoritmo ha senso e fa riflettere. Non c’è dubbio che la tecnologia, se sostituita all’estro umano, generi mostri. Ma forse la centralità data all’algoritmo fa perdere di vista il vero nemico. Il villain di Boris è sempre lo stesso: la mediocrità. E lo è anche in questa stagione.

Tiberi, Pannofino
Tiberi, Pannofino

È questo, a nostro avviso, il limite della nuova avventura che perdere il focus su chi combattere e segue la corrente. I primi capitoli hanno dimostrato che una serialità di qualità era possibile. Oggi viviamo nell’era seriale più florida. Negli ultimi dieci anni sono arrivate delle perle (nazionali e non) che hanno surclassato perfino il cinema. La serialità è diventata una dimensione dove sperimentare. L’egemonia della Rete è finita. Certo, esistono ancora i prodotti brutti. Esistevano perfino ai tempi di Manzoni e di Dante (il fatto che certe operette non siano arrivate a noi lo dimostra). E se l’Italia è riuscita a trovare una propria dimensione narrativa è anche grazie a Boris. Quel modus operandi di fare televisione trova pochi interlocutori, forse lo zoccolo duro che resta fedele ai palinsesti generalisti. La soap opera e la fiction in stile Occhi del Cuore non si è estinta, ma ha perso centralità. La Rete non guida più la serialità, ma è la coda che segue. Il tentativo, ancora goffo, delle televisioni generaliste di adeguarsi è il segno che qualcosa è cambiato dal 2007. Boris ha inaugurato una rivoluzione culturale. Ha smontato i meccanismi di un certo pensiero e ce li ha sbattuti in faccia, come la Locura e le cose fatte a “c***o de cane”.

Sono riusciti a far saltare “l’algoritmo”?

Pannofino, Guzzanti, Tiberi
Pannofino, Guzzanti, Tiberi

Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo hanno cercato di smontare l’algoritmo che pare dettare le regole che stabilirebbero l’esito di un prodotto, basandosi solo su cosa vedono gli utenti. La sua fallacia è stata già ampiamente dimostrata. Molti prodotti annunciati come “di punta” sono stati un flop. La componente umana, per fortuna, ha ancora importanza. In realtà, come hanno dichiarato gli autori, non volevano hackerare l’algoritmo, ma metterci in guardia. Il problema, infatti, non sono gli strumenti, ma l’uso che se ne fa. La nuova stagione ci porta a riflettere sui limiti di certi meccanismi astratti, ma si fa anche beffa di quel conservatorismo che, nel 2007, era rappresentato da La Rete mentre ora è rappresentato dai cosiddetti “boomer”. Non tanto per età anagrafica, quanto per mentalità retrograda, cioè coloro che non riescono a leggere il presente e, occupando delle posizioni strategiche importanti, fanno danni. Dunque non bisognerebbe focalizzarsi sull’abuso di espressioni anglosassoni come “call” e “lock”; né sull’esigenza di creare delle storie più inclusive oppure sul dibattito intorno alle nuove proposte linguistiche che tentano di rendere il linguaggio più rappresentativo della realtà (le battute tristi sulle desinenze “U”, per intenderci).

Non bisognerebbe nemmeno concentrarsi sull’algoritmo in sé. Qualcuno leggerà tutto questo come un messaggio di denuncia, un attacco al fantomatico “politicamente corretto”, e sarà contento. Ed è qui che ritroviamo l’eredità di Torre: al centro della polemica, ci siamo noi. Da un lato c’è chi sogna il cambiamento e lo rincorre a ogni costo, dall’altro chi lo ostacola, lamentandosene. Ferretti, Duccio, Lopez, Arianna, e lo stesso Alessandro, sono diventati dei boomer brontoloni e inetti, incapaci di leggere la realtà, che subiscono passivamente. La quarta stagione di Boris accontenta tutti: sia quelli uniti sotto il grido di “non si può più dire nulla” sia chi si lamenta dei “boomer” , cioè coloro che urlano “non si può più dire nulla”. Un win-win “molto italiano”, ma geniale.

Non smettere mai di “sorprenderci” e “rompere”.

Boris 4 - Disney Plus
Boris 4 – Disney Plus

Le nuove generazioni stanno portando avanti una battaglia più attenta al presente e al futuro. All’ambiente, alle persone e all’unicità. A volte si esagera, è vero, ma insieme si può lavorare per rendere il mondo un posto migliore, non certo schiavo dei “diktat” ma sicuramente più sensibile. Chi rema contro con insofferenza, lamentandosi solo della presenza dei personaggi afrodiscendenti, del ruolo più centrale delle donne e di un linguaggio più inclusivo, in realtà, compie lo stesso errore di chi cerca di imporre il cambiamento dall’alto. La Rete è stata sconfitta, ma la mediocrità vive ancora. Scherziamo pure sull’algoritmo o su alcune forzature, certo, che rappresentano un limite. Un problema per l’arte che, come affermano i due autori, “non deve inseguire, ma essere inseguita”. Ogni epoca ha i suoi pericoli. Adesso c’è il rischio “non di fare male, ma di fare di plastica”. Asservirci alla tecnologia, senza utilizzare l’estro umano, rischia infatti di creare un modello che appiattisce tutto.

Boris 4 ci ricorda l’importanza di rompere i codici, e non di limitarci a replicare ciò che funziona. Segnala, dunque, un pericolo e ci ricorda che il compito di un autore è quello “sorprendere”, non di replicare. Netflix ha corso più volte questo pericolo con i prodotti italiani. Pensiamo al fiasco di prodotti fatti con lo stampino, come Baby o Curon. Ma la stessa Netflix ha anche prodotto la meravigliosa Strappare lungo i bordi, lasciando piena libertà creativa a Zerocalcare. Il rischio di appiattimento c’è, ma non siamo ancora schiavi dell’algoritmo. I prodotti di rottura, anche in Italia, ci sono. Il problema è che la m***a salta sempre di più all’occhio. Le nuove generazioni che guardano al futuro hanno amato Boris perché quelle dinamiche sociali persistono. Chi sono dunque “loro”? Chi è La Piattaforma? Netflix, cioè la stessa che ha rilanciato il fenomeno “Boris” sotto pandemia? Oppure Disney+ che ha prodotto la nuova stagione assicurando brillantezza e originalità? La serie di Mattia Torre denunciava un sistema corrotto, una struttura clientelare che non si limitava al mondo dello spettacolo, ma rappresentava l’Italia stessa, la politica, il posto di lavoro. Nella quarta stagione chi si vuole denunciare? Quella stessa troupe che si è rassegnata alla m***a e, sebbene il cambiamento in corso, non sa come adattarsi? Forse il backstage è la chiave di lettura. Cosa mostra se non un gruppo di razzisti, omofobi e sfruttatori? Chi rappresenta dunque “quel dietro le quinte”?

Il nemico siamo noi

Biascica (640x360)
Biascica (640×360)

Il nemico non è La Piattaforma né l’algoritmo né il cugino Michele. Il nemico siamo noi quando cerchiamo scappatoie. Quando ci limitiamo a lamentarci. Quando tentiamo di adattarci prima di capire. Il problema non sono i nuovi codici etici, ma la superficialità nell’applicarli dando vita a “trame teen” raffazzonate e fuori contesto. Il problema non è “l’inclusivity” “la diversity”, ma quando queste vengono applicate in maniera superficiale, generando prodotti terribili come Vita di Gesù. Boris è stato un prodotto di rottura, ma oggi, da rompere, c’è rimasta ancora la mediocrità. Un modo vecchio di fare le cose dove non c’è posto per il nuovo. Infatti Lalla verrà licenziata perché “presuntuosa”. Quella troupe invecchiata è dunque l’incarnazione di quello che non funziona. In questo senso, Boris 4 funziona, graffia e fa riflettere. Ci ricorda la grandezza di Boris, pur non avendo l’arrabbiatura del primo Boris.

La nuova stagione è un prodotto di fino intelligente, un omaggio emozionante che ripropone una struttura a cui siamo affezionati, ma non aggiunge nulla di nuovo. Manca l’amarezza, forse perché non ce n’è più bisogno. Manca la scrittura corrosiva. Il finale emoziona e fa riflettere. È interessante la riflessione che ne deriva: “Perché ci hai fatto questo, René? Proprio noi che volevamo cambiare le cose sulle serie, anche in Italia”, dice Allison, dimostrando così di non essere il villain. Lo spettro del terzo sceneggiatore (che fa le veci di Mattia Torre) rassicura René: “diglielo che noi siamo il contrario di Re Mida”, cioè l’oro lo trasformiamo in m***a. René voleva solo cercare di non finire incasellato in quelle finestrelle della Piattaforma, con il rischio di diventare una delle tante, tutte uguali. Una paura lecita che tuttavia non si corre quando creiamo qualcosa di unico, bello, “di rottura”. Perché il pubblico sa che sapore ha la qualità.

Un omaggio a Mattia Torre strappacuore

Boris 4 - Valerio Aprea
Boris 4 – Valerio Aprea

Lorenzo Mieli ha dato l’idea dello spettro del terzo sceneggiatore mancante (Valerio Aprea) che si dissolve nel finale della prima puntata. Un’idea inedita e straordinaria, forte e suggestiva. È l’omaggio di cui avevamo bisogno! Sentiamo tutti la mancanza di Mattia Torre, e la sua assenza si sente anche nella sceneggiatura. Il terzo sceneggiatore non c’è, ma li guida nella scrittura. Abbiamo avuto i brividi, ed è scesa anche qualche lacrimuccia. Boris 4 ci ha regalato qualcosa di bello che, però, hanno maneggiato con estrema cura. La nuova stagione non è arrabbiata, ma è grata. Perché oggi, in Italia, se siamo riusciti a produrre delle serie tv di qualità – e Boris 4 è una di queste – è grazie a quel lavoro fatto 15 anni fa co’ ‘na scarpa e ‘na ciavatta. Il risultato di uno sfogo. Un’esigenza espressiva che ha dato vita a uno dei migliori prodotti italiani di satira. Boris 4 è la testimonianza che una serialità migliore è stata possibile.

Collega, com’è l’inferno?
Pieno di quarte stagioni!

“Quando ero piccolo volevo cambiare il mondo. A noi, il mondo, l’hai cambiato”. Caro Mattia Torre, lo hai cambiato anche a noi. Per questo, forse, possiamo essere meno arrabbiati. Ora è il tempo di ricordare e fare sempre meglio. Per questo non c’è più bisogno di un altro Boris.

Grazie.