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Boardwalk Empire 1×01 – Quando il capolavoro annunciato è davvero un capolavoro

Ogni sabato sera, sempre alle 22.30, vi portiamo con noi all’interno di alcuni tra i momenti più significativi della storia recente e passata delle Serie Tv con le nostre recensioni ‘a posteriori’ di alcune puntate. Oggi è il turno della 1×01 di Boardwalk Empire.

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul pilot di Boardwalk Empire.

Vorreste fare gli sceneggiatori e siete alla ricerca di un esempio ideale? Sognate di scrivere il pilot perfetto di una serie tv e non sapete da chi prendere spunto? Beh, le risposte sarebbero molteplici in tal senso, ma ne abbiamo una che andrà oltre ogni legittima contestazione potenziale: analizzate a fondo il primo episodio di Boardwalk Empire (disponibile in Italia su Sky e Now) e andrete sul sicuro. Strana categoria, quella di Boardwalk Empire. In Italia, almeno. Perché rientra nel novero di serie tv che hanno sentito nominare un po’ tutti, ma non troppi l’hanno vista. Il punto, però, è che chi l’ha vista ha una certezza incrollabile: poche volte si è visto qualcosa di tanto bello sul piccolo schermo.

Esageriamo? Macché: Boardwalk Empire è uno di quei titoli che andrebbero affiancati a I Soprano, Mad Men o Breaking Bad. È molto più di una serie feticcio d’alta qualità con una solida cerchia di appassionati. No, qua andiamo oltre: Boardwalk Empire, quella prova, l’ha superata sul serio. E il suo pilot, andato in onda il 19 settembre del 2010, è semplicemente uno dei migliori di tutti i tempi.

Rilanciamo ancora: è un vero e proprio “capolavoro”, dall’inizio alla fine. Sì, un “capolavoro”, definizione stavolta non utilizzata a sproposito (come spesso accade in questi casi).

Non siete convinti? Legittimo: la stiamo sparando grossissima. Allora vi riportiamo tre dati per darvi una prima idea. Uno: l’episodio è diretto da Martin Scorsese, non il primo scemo che passava per strada. Uno dei più grandi registi di tutti i tempi, messosi al servizio di una serie tv per la seconda volta nell’arco della sua gloriosa carriera: la prima era stata nel 1986, quando diresse un episodio di una serie ideata da Steven Spielberg, Amazing Stories. Magari ne parleremo un’altra volta.

Perché accettò Boardwalk Empire, a distanza di ventiquattro anni dall’isolata esperienza sul piccolo schermo?

Lui la raccontò così: “Ciò che è accaduto negli ultimi nove-dieci anni, in particolare all’HBO, è quello che, a metà anni Sessanta, speravamo accadesse per i primi film televisivi: avrebbero dovuto avere libertà, abilità nel creare un universo, personaggi di ampio respiro e storie a lungo termine. Ma nei decenni successivi non penso sia accaduto”. L’HBO “rappresenta un’opportunità per sviluppare una narrazione innovativa, molto diversa dalla televisione del passato”. Ok, ci ha convinto. E chi non si sarebbe fatto convincere dalla HBO, quella HBO?

Due: il solo pilot costò qualcosa come 18 milioni di dollari. Parecchi, in una fase di passaggio della golden age televisiva non ancora abituata a budget del genere. Il più costoso di sempre, in quel momento. Ne valse la pena? Arriviamo al punto tre: Boardwalk Empire, nominata per cinquantasette volte agli Emmy, ne ha vinti venti in cinque stagioni. Parecchi. Ma mai quanto il pilot stesso, in proporzione: il solo episodio d’apertura, infatti, conquistò addirittura sei statuette. Sei, per un singolo episodio. Nel bel mezzo di una golden age strapiena di titoloni che hanno fatto la storia della tv. Sei tra i quali il quasi ovvio Emmy dedicato alla miglior regia di una serie drammatica, cannibalizzato da Scorsese grazie a una direzione degna dei suoi titoli migliori.

Insomma, la considerazione di base è una, alla fine dei conti: Boardwalk Empire si presentò al mondo per conquistarlo senza alcuna modestia, e ci riuscì.

Era un capolavoro annunciato, e ai differenza dei più ha poi mantenuto la promessa fin dai primissimi minuti dell’apertura. Ancora scettici? Lo capiamo. Allora andiamo un po’ più a fondo.

game of thrones

Diamo un’occhiata alla trama. Atlantic City, 1920: è capodanno, anche se non è capodanno. Spieghiamoci meglio. La narrazione parte con un evento epocale che rappresenta per molti versi uno spartiacque nella storia degli Stati Uniti. La dichiarazione d’indipendenza? La fine della guerra di secessione? Troppo tardi: inizia il proibizionismo, l’era intercorsa tra il 1920 e il 1933 in cui fu messo al bando l’alcool. Capodanno sia, allora: tra le strade vorticose e lussureggianti di Atlantic City, ridente realtà in ascesa, suonano idealmente le campane a morto. Bottiglie nelle carrozzine e una portata in giro con un corteo funebre, accompagnato pure dalla banda: un requiem risuona nell’aria, pur festante.

Luci, e ombre: nelle botteghe oscure di una città nata per incarnare il peccato, l’alcool si ripresenta puntuale e lontano da occhi indiscreti.

Allo scoccare della mezzanotte, l’età del proibizionismo viene accolto da palloncini neri e da un brindisi che beffeggia i benpensanti. Al centro, una figura statuaria che di statuario non avrebbe proprio niente. Nucky Thompson, rassicurante tesoriere di giorno e gangster di notte, è il protagonista di una menzogna che non ha la minima intenzione di macchiare con la verità.

Se da un lato Thompson – interpretato dal miglior Steve Buscemi mai visto – si presenta agli occhi del popolo come figura di supporto e di guida solida, moralmente indissolubile e generoso benefattore delle frange più fragili, dall’altra disvela subito il suo animo più fetente: Enoch, infatti, ha l’ambizione senza compromessi di un vero americano che si è fatto da zero. Ed è l’anello di congiunzione tra la superficie di Atlantic City, bisognosa di un riferimento politico che la conduca nei difficili anni postbellici, e la Atlantic City sotterranea, mascalzona e delinquenziale.

Enoch Thompson è un gangster provetto sui generis, asse promesso di una rete che unisce la sua città ai baldanzosi newyorkesi e agli spietati capi di Chicago, presentati in scena uno a uno tra finzione e realtà.

E che realtà: l’arrogante Lucky Luciano irrompe in scena mentre un discreto Al Capone, ancora distante dai fasti futuri, si affaccia all’orizzonte con tutta la lucida determinazione del leader che si farà. La lista è lunga ma al centro c’è sempre Nucky Thompson: un gangster un po’ così, piccolo piccolo e presunto fanfarone. Che paura potrà mai fare quell’uomo minuto dallo sguardo malinconico e assorto nel vuoto, incapace di sfondare una porta con una spallata? Nessuna, sulla carta. E questo, in fondo, è il suo vantaggio preliminare: tutti lo sottovalutano e lo trattano con sufficienza, ignari del mostro lungimirante che si cela dietro quegli occhi apparentemente fuori contesto.

jimmy e Nucky- Boardwalk-Empire

Ma chi è davvero? Solo l’intera visione di Boardwalk Empire offrirà una soluzione soddisfacente, ma gli indizi del pilot sono ben chiari. All’ombra dell’uomo di potere insaziabile e vanesio sussurra un uomo solo, vedovo dell’amore della vita e con due desideri inappagabili: ritrovare la forza di amare e avere un erede a cui lasciare l’impero che si appresta a costruire. Quell’erede, in realtà, sarebbe presente in scena: non il fratello minore Eli, inadatto alla missione, bensì Jimmy Darmody. Non un figlio, ma quasi. Un po’ Thomas Shelby, platealmente chiuso nel PTSD del reduce di guerra, un bel po’ Chris Moltisanti (o Jesse Pinkman, se preferite). Confronto non casuale: la dinamica tossica che si innesca da subito con Nucky è fortemente associabile a quella che legò Tony Soprano al suo “figlioccio”, evocando scenari poco rassicuranti per il futuro prossimo e remoto.

Il presente sbraccia tra le maglie larghe di un proibizionismo che rappresenta un’opportunità gigantesca per la malavita americana, mentre le nuove leve sono impazienti e arrabbiate, soggette all’irruenza e ad azioni che rischiano di compromettere tutto e tutti.

Non è un caso allora che la scena madre del pilot di Boardwalk Empire – esposta attraverso un brillante gioco di equivoci che incornicia l’episodio – lo veda protagonista. Darmody, infatti, decide a un certo punto di fare tutto quello che è solito fare un figlio quando ancora non è pronto a prenderne il posto: si ribella. E nel momento in cui si ribella, combina un macello. Insieme al compare Capone, più scafato e pronto a scalare la piramide, mette all’angolo Nucky con un’azione improvvisa che rischia di metterlo in una posizione molto difficile, salvo poi svelare tutto al proprio mentore in nome di un’opportunità che ritiene opportuno avere. Thompson è all’angolo, ma solo fino a un certo punto.

Spoiler: è solo l’inizio.

Così come è solo all’inizio l’intenso rapporto Margaret Schroeder, vedova prossima con famiglia a carico, avvicinatasi schivamente a Nucky per poi ritrovarsi in una dinamica sempre più profonda e pericolosa.

Tutto ciò si sviluppa nelle segrete stanze di una città che brilla di ombre quanto di luci, in cui il budget mastodontico si fa spazio fino all’ultimo dollaro attraverso una fotografia monumentale. Una fotografia valorizzata dalla regia virtuosistica di Scorsese, da una riproduzione dettagliata della Atlantic City più bella di sempre e dalla scrittura rigorosa e incisiva di Terence Winter (l’ideatore di Boardwalk Empire, già sceneggiatore de I Soprano e prossimo autore di The Wolf of Wall Street), sublime nell’introdurre un’esperienza immersiva completa e sfaccettata. Succede di tutto in qualunque momento, senza un attimo di tregua. Ma non c’è mai un singolo momento di confusione.

Attraverso le azioni e i desideri dei protagonisti di Boardwalk Empire, vediamo da subito come possa entrare in rotta di collisione uno dei cardini dell’essere americani, l’ambizione sfrenata, con la necessità di accettare pericolosi compromessi in nome di essa.

La corruzione, allora, invade gli spazi vitali dell’apparenza in un fragile equilibrio di paradossi che danno vita a un racconto organico e suggestivo. Come gestire la propria moralità in una fase dalle illimitate opportunità, si domanderanno tutti senza mai esplicitare il quesito? Inizia così un viaggio molto americano, rivolto alla creazione della propria identità e al desiderio di lasciarsi alle spalle un’eredità. Una storia degli anni Venti, eppure tanto attuale. Incarnata al meglio da un istant cult, capace di lasciare un segno profondo nella storia delle serie tv fin dal primissimo episodio. Talmente istantaneo da essersi consegnato alla leggenda mentre stavano ancora scorrendo i titoli di coda. E dimostrare che non sempre serve del tempo per capire chi possa entrare a far parte dell’olimpo delle serie tv: i colpi di fulmine, d’altronde, sanno essere rivelatori.

Allora, cari sceneggiatori, prendete appunti: la lezione di Boardwalk Empire, purtroppo inascoltata dai più, sta per ricominciare.

Antonio Casu