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Jimmy McGill ha davvero viaggiato indietro nel tempo

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sul finale di Better Call Saul

Continuava a non voltarsi alle spalle, Jimmy McGill. Guardava avanti, pur di non farlo. Correva all’impazzata, per non pensare. Per non affrontare se stesso e non ammettere che un’alternativa, in fondo, potesse esistere davvero. Non lottava, Jimmy. Zittito in una desolante pièce in cui interpretava il protagonista, il villain, l’inattendibile narratore e pure la vittima. Fuggiva inseguito dai demoni, Jimmy. Dentro se stesso, negli angoli più reconditi di un’anima che insisteva nel farsi lupo pur di tenere sotto i piedi un mondo che pareva non volergli dare credito. Ma forse la realtà era un’altra. Perché è vero, loro, gli altri, chi contava davvero nella sua vita, avrebbero dovuto fidarsi di lui, ma il primo uomo a non aver dato sufficiente fiducia a Jimmy McGill era sempre stato uno, più di chiunque altro: se stesso.

No, Jimmy non si era mai fidato di se stesso. Aveva pensato per troppo tempo di doversi mascherare, per trovare la sua dimensione. Trasfigurarsi, pur di appagare i desideri più reconditi e sublimare i sogni più vacui. Essere Saul Goodman, qualunque cosa significasse. Mentire a tutto e tutti, trasformare l’intera esistenza in una farsa, chiudere Jimmy in una cella e soffocare l’urlo a ogni costo. Guardava avanti, Jimmy, per non guardare avanti una solo volta. Non scrutava l’orizzonte: guardava per terra, dritto in un terreno fatto di carta. Da banconote, le sue sabbie mobili. Non sprofondava mai, ma non stava mai a galla. S’illudeva che Jimmy non esistesse più, Kim fosse solo un dolce ricordo di mezza vita, Chuck e Howard gli spettri di un incubo a occhi chiusi. S’illudeva di essere l’eroe di una vendetta, contro chiunque non avesse mai creduto in lui. Lui che avvocato lo era sul serio, a modo suo. Ma interprete del ruolo che un destino ineluttabile pensava avesse scritto per lui: il pagliaccio, triste.

S’era convinto che suo fratello avesse ragione, in fondo: lui, Slippin’ Jimmy, sarebbe stato Slippin’ Jimmy per sempre e non meritava per alcun motivo di essere un McGill. In modo da essere accettato, senza che nessuno lo facesse mai sul serio. Ma era una truffa, tutta una truffa. L’inganno degli inganni, la simulazione di una realtà che si era confusa con l’artificio di un uomo solo. Saul Goodman aveva catturato Jimmy, convincendolo che una macchina del tempo non potesse entrare in funzione. Non per cambiare il corso degli eventi né rinnegarli, ma per cercare un percorso alternativo, al primo bivio. Essere all’altezza di se stesso, ritrovarsi, esistere senza più limitarsi a sopravvivere. Schiacciare lo scarafaggio, trasformarlo nell’eco di un ricordo collettivo, convertirlo in un’icona ed essere finalmente libero. Alla luce del sole, dentro una cella. Condannato alla redenzione, per tutta la vita. Alla fine l’ha fatto ed è stato bellissimo vivere il finale di Better Call Saul attraverso questa prospettiva, ma non è stata certo una svolta improvvisa.

Jimmy ci aveva già provato, a evadere dalla cella di Saul. Al termine di Nippy, mentre stringeva tra le mani una camicia che il suo alter ego avrebbe tanto apprezzato: ingabbiato nella maschera di Gene, Jimmy aveva sorriso appena, malinconicamente. Non detestava Saul, ma sapeva che fosse arrivato il momento di seppellirlo in un cumulo d’abiti sgargianti. Dopo averlo usato per un’ultima volta, in un piano perfetto dai toni giocosi che tanto avevano del primissimo Jimmy, funzionale alla riaffermazione momentanea di un volto ben più minaccioso. Ci aveva provato, Jimmy. Accarezzava l’uomo che non rinnegherà mai d’esser stato e allo stesso tempo stringeva tra le mani il ricordo di Kim. La sua Kim, dispersa chissà dove in un Purgatorio persino più greve del suo. Costruita col rigore di una donna ancorata alla giustizia, sfuggita troppo tardi agli spettri di un’infanzia deviante.

Ci aveva provato, ma avrebbe potuto provarci con maggiore convinzione. Jimmy, però, non era ancora pronto a lasciare la sua cella: immerso in una narrazione che aveva sospeso il tempo in un’inconsistente bolla, Gene sfuggiva all’incalzare di una vita che lasciava alle spalle tutto e tutti, abbracciava il ricordo di una donna che pareva non esistere più. Eppure sentiva ancora la sua fiducia, nonostante tutto. La incontrava nei suoi sogni, come se Lalo non avesse mai freddato Howard in quella maledetta notte. Convinto che le maree levigassero i ricordi peggiori, fino a farli svanire nelle azioni meccaniche di una quotidianità innaturale. Sicuro di non poter essere il giudice di se stesso, la cella si richiudeva un attimo dopo essersi aperta timidamente. Dopo una telefonata, quella telefonata. Dopo la detonazione, l’urlo di dolore di Jimmy e l’esplosione di rabbia del mostro, Gene diventava altro. Kim non c’era più ed era stata fagocitata da un’ombra sbiadita, degna di un professore di chimica incapace di prendere in mano il proprio destino. Nessuno si fidava più di Jimmy, e Jimmy pensava di essere morto una volta per tutte.

Better Call Saul

Sfuggito ai titoli di coda di una storia che aveva già scritto la parola fine, Gene riabilitava Saul. Lo usava ferocemente, come mai aveva fatto neanche nei peggiori momenti della sua triste narrazione. Per essere altro, chiunque non fosse fino in fondo. Gene Takovic, l’uomo che non era mai esistito davvero e danzava coi fantasmi in un incubo a occhi aperti. Nel bel mezzo di una landa desolata in cui continuare a registrare gli eventi sul più derelitto dei palcoscenici, in una cassetta logora ormai fissata dentro una mesta schermata blu. Gene, privato di ogni speranza, non s’arrendeva alla fine e se la prendeva con gli spettri dei suoi peggiori errori, punendo se stesso col vigore di un uomo riemerso dagli inferi. Poi, però, all’improvviso, una piccola luce si era riaccesa nei suoi occhi: Jimmy, l’ergastolano, ergastolano non era davvero. Faceva sentire la sua voce ma Gene, accecato dalla rabbia, era del tutto incapace di sentirlo. Fino al punto di non ritorno, racchiuso nelle quattro parole che avevano salvato la vita alla povera Marion: “Mi fidavo di te”.

Gene, a quel punto, s’era fermato. Incapace di respirare, boccheggiava mentre Jimmy, finalmente, sospirava. Jimmy era riuscito a placare il mostro, dopo averlo sabotato in ogni modo possibile: Saul non sbagliava mai, non lasciava tracce, non peccava mai d’alcuna ingenuità. Gene, invece, no: mentre Jimmy combatteva contro di lui, il suo alter ego cadeva in fallo, fino a farsi smascherare e catturare come un dilettante qualunque. Jimmy era riuscito quindi a fermare Gene, ma non era ancora pronto alla fuga definitiva. Dentro la piccola cella di Omaha, le mille frazioni di una anima alla ricerca di sé si scontravano duramente. Mentre Saul, perso di vista dagli altri, trovava l’ultimo palco della sua vita. Nel patteggiamento che mostrava al mondo il talento cristallino di un avvocato capace di mettere all’angolo chiunque altro, Saul svelava il volto per l’ultima esibizione della sua gloriosa carriera, simulava, mistificava, raccontava la miglior verità per costruire la peggiore menzogna. Sfidava il sistema, e vinceva.

Better Call Saul

Ma che vittoria era? L’ennesima, fottuta, illusione. L’infinita farsa per ingannare il tempo, provocarlo e rimandare il momento del confronto risolutivo con se stesso. Una fuga, ancora. Lunga sette anni e mezzo, mentre una macchina del tempo ormai arrugginita sembrava esser ormai destinata all’oblio. Jimmy, però, non ne poteva più. Guardava negli occhi Kim, chissà dove. Sentiva il respiro sulla sua pelle, condivideva con lei il desiderio di essere libero una volta per tutte. Attendeva solo il momento giusto per attaccare Saul, uccidere per l’ultima volta un uomo resuscitato troppe volte, consegnarlo alla storia e confinarlo alla leggenda. Ma da solo non era capace di farlo, gli serviva l’aiuto di Kim: il suo esempio, la sua virtù, la sua capacità di fare la cosa giusta al momento giusto. Essere se stessa, senza aver paura. Fidarsi di sé, sfuggire alla monotonia del Purgatorio per prendere una strada diversa, col coraggio di cambiare per riappropriarsi della propria identità.

Jimmy, nel momento in cui scopriva cosa avesse fatto la donna che tanto aveva amato, riemergeva. Prendeva la parola, il controllo della propria vita. Accendeva la macchina del tempo per guardarsi alle spalle, ascoltare il saggio Mike, l’amato fratello Chuck, persino quell’infame ingrato di Walter White. Ammetteva di avere dei rimpianti, interrompeva la fuga, si fermava e correva indietro nei decenni: dopo che si era trasfigurato nella peggiore delle bestie, Jimmy metabolizzava i lutti, assorbiva i traumi, guardava se stesso allo specchio e si riscopriva migliore di quanto pensasse di essere. Jimmy, persino sorridente, scopriva di esser sempre stato un McGill. E capiva che Saul, l’uomo che aveva fatto di se stesso il burattino e il burattinaio, dovesse pagarla cara. Saul, allora, veniva affrontato da Jimmy, l’unico giudice in grado di condannarlo, e si arrendeva alla sconfitta. Mentre Kim, nonostante tutto, mostrava di non aver mai smesso davvero di credere in lui.

Better Call Saul

Better Call Saul finiva così, senza che finisse mai. Il finale, sospeso, schiacciava il tempo, lo assoggettava alle leggi di un destino riscritto da interpreti impavidi e schiudeva al mondo una piccola cella. L’imperfetto e il trapassato si trasformavano nel presente, mentre il presente si fionda sul futuro con rinnovata leggerezza. Non sappiamo dove si trovino oggi Jimmy McGill e Kim Wexler, ma in realtà sappiamo benissimo dove saranno per sempre: liberi, in prigione. Insieme, per il tempo di una sigaretta che non si spegnerà mai. Complici di un ultimo inganno, una bugia bianca. Amanti, per sempre. Complici, per l’eternità. Immersi nel bianco e nero che li ha trasformati nei protagonisti della loro pellicola preferita, scritta, interpretata e vissuta da loro stessi. Senza inizio né fine, intenso ed emozionante, sospeso in una luce che scende malinconica per inghiottire l’oscurità e si contrappone a quello che avevamo visto nei primi minuti di questa straordinaria storia. Sospeso nella dimensione di una macchina del tempo che si è inceppata per consegnarsi al mito e prendere per i fondelli l’inevitabile realtà, testarda nel riprendere il proprio spazio vitale nell’ultima scena. Ma non ci interessa, non ora: quel che conta è che Jimmy non abbia mai smesso di vivere, Kim non abbia mai smesso di amarlo e Better Call Saul, la nostra Better Call Saul, abbia un finale, perfetto, che si concluderà solo quando vorremo noi. Con ogni probabilità, mai. Alla faccia del destino, e di chi si ostina a credergli.

Antonio Casu , con un ringraziamento speciale per i lettori che hanno accompagnato questa avventura unica.

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