Better Call Saul è appena tornata con la quarta stagione e l’ha fatto quasi in sordina. La sorella minore di Breaking Bad è una creatura decisamente più schiva rispetto alla maggiore, elogiata da tutti come un punto fermo tra i capolavori seriali.
Meno avvezza all’azione sincopata, e più alla costruzione meticolosa di un ambiente e di un microcosmo di personaggi, Better Call Saul ha saputo costruirsi negli anni un’identità forte.
Un’identità che la rende quasi indipendente dalla sua ingombrante sorella e per alcuni aspetti decisamente più interessante.
Il forte senso di tragedia corale che pervade Breaking Bad non trova un corrispettivo in Better Call Saul. I suoi personaggi calcano un palcoscenico sicuramente meno caotico, più ordinato, in cui ogni particella prende posizione per originare quello straordinario Big Bang seriale che è la creatura di Vince Gilligan.
Proseguendo sulla falsariga di questa metafora: Better Call Saul è l’indefinito tempo e spazio che partorisce la vita, mentre Breaking Bad l’esplosione primordiale. Un’esplosione in cui il finale di questo spin-off rappresenta il primo anelito alla vita, il primo fremito di elettricità.
Come potrebbe finire Better Call Saul e perché potrebbe finire in un determinato modo?
Secondo la teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche, l’universo nasce e muore ciclicamente, ripetendo all’infinito se stesso come un serpente che si morde la coda. Una teoria che farebbe solo apparentemente sprofondare nel nichilismo la metafora dell’universo associato a Breaking Bad e a Better Call Saul, e che invece potrebbe generarne uno simbolico eternamente ricorrente, più simile a un caleidoscopio che a una discesa nell’abisso della ripetizione.
Vi abbiamo già parlato dell’universo di simboli che caratterizzano Breaking Bad e anche di quelli che costituiscono l’ambiente simmetrico, lineare, composto da una luce rigorosa e da un forte feticismo estetico di Better Call Saul.
Il simbolo sul quale vogliamo costruire la chiave di volta di questa speculazione sul finale di Better Call Saul però è uno solo, capace di contenere al suo interno infiniti universi di significato.
Questo simbolo, fortemente accentuato nelle prime stagioni, è stato solo apparentemente accantonato ma sprigiona la sua potenza significante ogni volta che ricompare sullo schermo.
La macchina di Jimmy, la Suzuki Esteem del ’98 giallo urina e con la portiera di colore diverso (e ugualmente riconducibile alle evacuazioni corporali), dalla quale il nostro avvocato non riesce a liberarsi.
La macchina a cui ritorna sempre dopo brevi parentesi di felicità 4×4, sedili in pelle e porta caffè, rassegnato alla sua presenza come a quella della sfortuna che sembra perseguitarlo. La stessa che lo porta ovunque, per ricondurlo sempre allo stesso punto: la non affermazione di se stesso; il mancato riconoscimento degli altri; la ricerca della spensieratezza che caratterizza Saul e che Jimmy solo a fatica riesce a strappare a morsi alla vita.
La macchina che, nella sua funzione silenziosa e indispensabile di trascinatrice di anime, è una controparte perfetta, anche in termini visivi, di quel camper che abbiamo conosciuto in Breaking Bad. Quel camper sgangherato piombato nelle nostre vite inaspettatamente, con il suo carico di dramma umano già pronto per essere scaricato addosso allo spettatore.
L’ormai iconica autovettura di Better Call Saul, invece, non contiene un dramma: è una silenziosa accompagnatrice di Jimmy alla ricerca di se stesso, un’ingombrante e imbarazzante presenza giallo-marrone che cozza con l’immagine che abbiamo del rampante Saul.
Non è esagerato dire che se il camper di Breaking Bad conteneva l’anima di Walt e Jesse, la macchina di Better Call Saul contiene quella di Jimmy.
E se il camper di Breaking Bad finisce schiacciato, annientato per necessità, allora la macchina di Better Call Saul deve finire allo stesso modo, e così l’anima del suo guidatore. L’imbarazzante involucro senape dell’essenza di Jimmy deve creparsi per lasciar uscire dalle sue lamiere urlanti una creatura colorata e spregiudicata di nome Saul Goodman.
Il veicolo che, nell’imperfezione del suo colore, rappresenta anche l’ultimo richiamo al passato del nostro avvocato. Un passato che, contrariamente a quanto vediamo al cinema, è colorato e contrapposto nella sua vivacità a un presente bianco e nero che ci rattrista e ci inquieta. Quando la macchina di Better Call Saul svanirà, una ventata di colori, camicie fantasia e cravatte psichedeliche faranno la loro irruzione in scena.
Per venire poi risucchiati, annientati, sclerotizzati in un dualismo senza colori che porterà la storia di Saul Goodman a quello che, a tutti gli effetti, appare come un capolinea.
Non con il faccia a faccia con Walter White e Jesse Pinkman, dunque, Jimmy completerà la sua trasformazione. Ma con la spoliazione di se stesso, tramite il sacrificio della sua parte più ingombrante, imbarazzante, caparbiamente resiliente e insieme pura e vera nella sua semplicità.
Quella maledetta macchina, rivestimento simbolico della sua onestà.
Questo finale, intriso di simbolismo, potrebbe essere il miglior modo per concludere l’avventura di Jimmy. Un’avventura che, nella sua ciclicità, porterebbe in seno molti parallelismi con l’epopea di Breaking Bad. Conserverebbe però intatta la qualità che abbiamo imparato ad apprezzare in questo prequel: la sua forte identità.