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Il Muro del Rimpianto – 13 Reasons Why, da serie di denuncia a teen drama

Ogni narrazione è un percorso, una strada che ci accompagna attraverso luoghi nuovi e inesplorati. Fruirne è come viaggiare: all’immobilità fisica contrapponiamo un moto immaginativo. Non c’è in fondo molta differenza tra chi viaggia e chi si mette di fronte a una storia: ci sarà chi ha più l’attitudine del viandante, chi del pellegrino, chi dell’esploratore, ma poco cambia. Ogni volta che ci troviamo dentro a una narrazione nuova, dunque, che sia letteraria, filmica o seriale, ci stiamo incamminando lungo un sentiero sconosciuto e non sappiamo cosa ci attenda. Seguendo il paragone, l’elemento che più si lega al nostro ruolo di spettatori è il bivio. O meglio, la potenzialità del bivio. In questo concetto risiede il nostro più grande potere di fruitori: noi siamo sì, in parte, passivi nell’esperire quella storia, ma siamo attivi nell‘immaginarne possibili deviazioni. Con le serie questo poi capita spesso: finisce un episodio sul più bello e noi ci chiediamo, almeno fino alla visione di quello successivo, quale possibile strada prenderà la storia, a quale opzione cederà la narrazione. Quando poi scopriamo cosa accade, ecco che una delle strade che ci si erano prospettate nella mente viene come sbarrata da un muro. Talvolta non ce ne rendiamo nemmeno conto, ma altre non riusciamo a togliercelo dalla testa: eccolo lì a privarci del diritto di intraprendere quella strada, di scoprire quel mondo, di dare quel senso alla storia. É in momenti come questo che si fa largo in noi il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e non sarà. Andiamo avanti – viandanti, pellegrini o esploratori – lungo la via di quel racconto, ma nella testa torna spesso un pensiero, un’immagine: il Muro del Rimpianto.

Ci sono serie che hanno bisogno del bivio, di una biforcazione lungo la strada che le metta alla prova e ne cavi fuori l’essenza vera, quella che altrimenti rischierebbe di appassire sotto formule primigenie. È un rischio, naturalmente. Ma in alcuni casi è la sola molla che consente a un progetto di fare il salto di qualità e di scoprire la sua natura più intima. E ci sono invece serie che al punto di svolta non dovrebbero neppure arrivarci. Finito il tragitto lineare che le ha condotte al traguardo, la possibilità di trovarsi dinanzi a un bivio non dovrebbero neppure considerarla. Al contrario, dovrebbero scansarla, girarsi indietro e accontentarsi del risultato già incassato. Perché spesso prendere altre strade, forzare la continuazione di un percorso, può essere totalmente controproducente e deleterio. È esattamente quello che è successo a 13 Reasons Why.

Una serie, quella che Brian Yorkey ha costruito sul romanzo di Jay Asher, che era partita col botto, diventando immediatamente popolarissima e dibattuta. Il concept di base è estremamente intrigante: Hannah Baker, un’adolescente di un liceo americano, prima di suicidarsi decide di incidere il proprio racconto su tredici cassette, da far recapitare ai suoi compagni dopo aver compiuto il gesto estremo. Ogni cassetta, una puntata: 13 Reasons Why indovina format e schema narrativo. Ogni episodio apre uno scorcio su una vicenda che è di per sé gravosa e sconcertante. Poco alla volta viene fuori tutta la storia, tocchiamo con mano il disagio di una ragazza che è finita vittima di certe logiche perverse da branco e dell’indifferenza e dell’indelicatezza dei suoi coetanei. L’incomunicabilità è il grande tema di 13 Reasons Why. Gli adolescenti alzano muri che poi non hanno la forza di scavalcare. Al contrario, ci vanno a sbattere contro rischiando di farsi male ogni volta. I silenzi, i malesseri, la carenza di attenzione, nella testa di un adolescente diventano giganti contro i quali combattere ad armi pari sembra impossibile.

13 reasons why
13 REASONS WHY

Questa serie affronta tematiche importanti con un ritmo travolgente, usando l’espediente dei flashback, con un finale già scritto che è chiaro a tutti sin dall’inizio.

Si parla di bullismo, della mancanza di dialogo, delle barriere tra giovani e adulti, di solitudine, di abusi e violenze. E non si ha mai la sensazione che le cose possano evolvere al meglio, anzi. La percezione del finale tragico aleggia come una scure su ogni episodio, esasperandone l’attesa. Il tono è cupo e doloroso, ogni cassetta ci restituisce una realtà amara e terribile, che vorremmo respingere con tutte le nostre forze. 13 Reasons Why ha un messaggio da trasmettere, un messaggio forte e dirompente che lo sconvolgente finale riesce a fare arrivare in tutta la sua potenza. Una testata in pieno volto, uno schianto dopo una corsa accidentata e senza freni. Non si può dire che questa serie sia un capolavoro, ma non si può neppure confinarla nell’ambito del teen drama negando l’impatto che ha avuto su un pubblico ben più ampio di quello degli adolescenti.

In sostanza, 13 Reasons Why poteva essere una buona serie. Se solo si fosse accontentata.

13 Reasons Why

Nasce come un prodotto adulto, muore come uno show per ragazzini. È chiaro che il grande successo riscosso con la prima stagione, forse un po’ a sorpresa, ha indotto la produzione a valutare l’opportunità di continuare il percorso intrapreso. Si è arrivati alla famosa svolta, al bivio che impone una scelta: quale strada intraprendere? Nessuna, 13 Reasons Why avrebbe dovuto avere il coraggio di non rischiare, di non azzardare, di fermarsi al punto giusto. E invece no. È arrivata la seconda stagione e, con essa, il lento declino di una serie che poteva essere un piccolo gioiello e invece ha deciso deliberatamente di andare a schiantarsi.

Male per loro e male per noi che, spinti dalla curiosità di vedere come sarebbe stato un secondo capitolo, ci siamo imbattuti in una storia priva della travolgente forza emotiva scaturita dai primi tredici episodi. La seconda stagione ha imbastito un processo per trovare un colpevole. Come se la morte di Hannah Baker avesse un solo responsabile e non fosse invece l’estrema conseguenza dell’indifferenza generale, come peraltro la prima stagione ha cercato di dirci.

Ma al di là del messaggio, che ne esce estremamente alterato, è proprio il meccanismo narrativo ad essersi inceppato.

E se per la seconda parte la domanda più spontanea pare essere “ne avevamo davvero bisogno?”, per la terza, invece, l’unica cosa che viene da chiedersi è: “Ma che roba è?”. Dopo aver lapidato Bryce Walker, gli sceneggiatori lo trasformano in vittima. Il contesto è sempre quello, le problematiche al centro della narrazione le conosciamo già, ma vengono sviscerate ancora più a fondo, nelle loro innumerevoli sfaccettature. Il rischio di suonare morbosi e ripetitivi è concreto e 13 Reasons Why ci casca alla grande. Una stagione con pochi alti e tantissimi bassi, con new entry stucchevoli e sottotrame che rischiano di perdere la loro centralità a vantaggio di una confusione generale che snatura del tutto il principio base da cui parte la serie: denunciare i meccanismi scellerati di una realtà che per i giovani è ancora più complessa e oscura.

13 Reasons Why aveva risposto a quest’esigenza con la prima stagione, poi ha forzato il cammino.

13 reasons why

La quarta parte la si guarda solo perché è l’ultima. Si chiude il cerchio, si mette la parola fine a un show che è stato spremuto davvero fino all’osso. Forse pure troppo. 13 Reasons Why non è una serie da buttare, intendiamoci. Solo che da prodotto di denuncia finisce per diventare nient’altro che un teen drama, buono per un pubblico di adolescenti ma assolutamente stonato per una platea di adulti. Per colmare le più che evidenti lacune, gli autori hanno scelto di mettere un sacco di carne al fuoco, secondo la filosofia del “più è meglio“: si parla infatti di omosessualità, tossicodipendenze, emancipazione femminile, emarginazione, integrazione, uso di armi, differenze sociali, omicidi, traumi psicologici e tantissimo altro ancora. Abbozzando persino (e con scarsi risultati) una mini rivolta studentesca.

Il tutto raccontato seguendo la linea del politicamente corretto, senza strappi più incisivi e profondi. Guardando a distanza di tempo gli episodi della prima stagione, i rimpianti sono tanti. 13 Reasons Why avrebbe dovuto prendere altre strade. O meglio, avrebbe dovuto avere il coraggio di fermarsi e di lasciarci di sé l’immagine di una serie in grado di trasmettere messaggi forti. Malgrado il cerchio si chiuda piuttosto bene, con un gran bel finale, le tre stagioni conclusive non risultano neanche lontanamente paragonabili alla prima.

Su questo Muro del Rimpianto andrebbe scritta un’unica grande parola, con una di quelle bombolette spray usate dai ragazzi della Liberty High per stanare i colpevoli: perché? Perché lasciare che la forza straordinaria di questa serie andasse a disperdersi in tre stagioni del tutto superflue e lontane dal messaggio iniziale proposto dagli autori? Certo, ai ragazzi rimane una bella serie da guardare, con tutte quelle dinamiche da teen drama che conquistano il pubblico dei più giovani. Ma il rimpianto di aver perso l’effetto di quella testata in pieno volto presa nella prima stagione è grande. Il rammarico di aver lasciato che 13 Reasons Why da serie di denuncia diventasse nient’altro che un drama per ragazzi, ha il sapore di un’altra – l’ennesima – occasione perduta.

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