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Nella prima stagione di True Detective c’è qualcosa di maestoso. Qualcosa che non appartiene alla trama, alla narrazione o alla recitazione. È qualcosa a esse legata, ma che è altro. Una forza visiva che afferisce unicamente a Rust Cohle, ma della quale noi tutti partecipiamo come spettatori. Rust vede oltre le cose. Vede quello che c’è come noi non potremmo vederlo mai. Vede anche quello che non c’è o forse sarebbe meglio dire vede quello che c’è solo per lui.

Non a caso l’episodio in cui questa sua caratteristica viene maggiormente messa in risalto, il secondo, si intitola “Visioni”. E di questo stiamo parlando. Quella capacità recondita in Rust di vedere oltre le apparenze del mondo. Di percepire con gli occhi, e quindi con la mente, qualcosa che si muove e vibra sotto la superficie della realtà.

True Detective

Non è un dono. Almeno non per Rust. È parte di lui. È qualcosa che interviene e altera le sue capacità percettive facendo intersecare le sue percezioni sensibili con le sue emozioni. Sono due i momenti significativi in questo episodio in cui vediamo questo effetto. Il primo si verifica in macchina con Martin, dopo che abbiamo appena finito di sentire raccontare da Rust, durante l’interrogatorio, l’impatto che ha avuto la morte della figlia sulla sua vita, sul rapporto con la moglie e sulla sua carriera. L’inquadratura ci mostra i due detective in viaggio, con la telecamera posizionata appena oltre il finestrino del passeggero. Rust vede qualcosa. Il riflesso del cielo sul finestrino ci mostra il cielo variare in tonalità molto accese sul rosso e rosa.

Il volto di Rust è scosso ed è chiaro che quello che sta avvenendo sia solo dentro la sua mente. Allo stesso tempo però è reale.

Reale. Come si può definire ciò che è reale se non mediante i nostri stessi sensi. E se questi sono fallaci? Alcune delle più profonde pagine del pensiero occidentale sono state scritte per cercare una risposta a questo quesito. Quello che possiamo dire è che per Rust è reale, pur essendo consapevole che lo è unicamente per lui.

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Poco dopo, sceso dalla macchina, volge nuovamente lo sguardo al cielo. Uno stormo d’uccelli neri (quanto sarebbe facile e pertinente proseguire con “com’esuli pensieri“) si levano da terra e compongono un’improbabile e surreale spirale. Reale o nella mente di Rust? Entrambe le risposte sono vere. E lo sono nello stesso tempo senza rischiare di farci cadere in un paradosso. Perché è Rust stesso il paradosso che diviene legenda per spiegarci la sua stessa realtà.

True Detective è costruita magistralmente su salti temporali. Così faremo anche noi.

Episodio tre: La stanza sbarrata. Qui abbiamo una prima chiave di lettura ed è lo stesso Rust a fornircela. Martin lo invita infatti a un’uscita a quattro con la moglie Maggie per presentargli Jennifer. Durante la serata si affronta un argomento chiave per capire meglio il personaggio di Rust. Sentiamo Martin dire: “E io che pensavo non potesse andare peggio […] può assaporare i colori“. La reazione di Jennifer sottolinea la medesima curiosità che appartiene al pubblico, infatti, chiede: “Quindi, che cos’è la sinestesia?”.

Ecco svelato uno degli aspetti caratterizzanti il personaggio di Rust. La sinestesia. Di cosa si stia parlando, per chi non conoscesse questa condizione percettiva sensoriale, ci viene spiegato dallo stesso detective:

“[..] è un tipo di ipersensibilità. È un senso che stimola un altro senso. A volte vedo un colore e mi fa sentire un sapore in bocca. Il tatto un tessuto. Un profumo può farmi sentire una nota in testa.”

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Non ci spingiamo a dire che le visioni di Rust afferiscano alla sinestesia o siano da essa causate. Ma indubbiamente la sinestesia è anch’essa manifestazione di quella ipersensibilità di cui lui stesso parla. Un’alterazione percettiva che consente un’interazione con la realtà di un grado superiore. Una sorta di percezione “al quadrato“.

Di nuovo dobbiamo fare un salto temporale alla True Detective. Ma questa volta il salto è trascendente. Dobbiamo, non solo cambiare anno e arrivare nel 1892, ma anche paradigma. Dalla finzione dobbiamo spostarci alla realtà. Siamo a Nizza, il 22 di gennaio, sulla pagine di un taccuino sono riportate le seguenti parole, memoria di un’esperienza:

“Camminavo lungo la strada con due amici – era il tramonto – sentii come un soffio di malinconia. Tutto d’un tratto il cielo si trasformò in rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai alla staccionata stanco morto – vidi le nuvole fiammanti come sangue e simili a sciabole sopra il fiordo e la città nero pesto. I miei amici continuarono – io stavo lì, tremante di angoscia – e sentii come un grido forte, infinito, che attraversava la natura

Torniamo con la mente a quella visione del cielo con cui abbiamo aperto la nostra disamina su Rust durante il secondo episodio di True Detective. Quel cielo visto all’orizzonte con sfumature rossastre. E quel viso contratto in un’espressione sgomenta di silenziosa paura. Pensiamo ora alle parole lette nel taccuino di Edvard Munch. L’esperienza di quella visione del cielo sopra Oslo che porteranno il giovane pittore norvegese alla realizzazione di uno tra i più profondi e struggenti dipinti del panorama artistico mondiale: L’urlo della Natura.

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Quello che ci viene presentato in True Detective è questo. Un urlo silenzioso nella mente di Rust. Non l’Urlo della Natura, ma della mente di un uomo con una sensibilità fuori dal comune che viene investito dai propri sensi senza barriere. Senza filtri. È l’animo stesso di Rust messo alla prova, attraversato e percosso dalle sue visioni. Un animo tormentato e fatale.

“Quando avevo quelle visioni, la maggior parte delle volte pensavo di essere matto, ma c’erano altre volte in cui pensavo di riuscire a svelare la realtà segreta dell’universo.”

Quale che sia la causa. Quale che sia l’origine di questa sensibilità diviene superfluo, come nel caso di Munch. Che dipenda dalla sinestesia, dalla morte della figlia, dal rapporto col padre o dalle droghe assunte sotto copertura, resta il fatto che Rust vive un mondo che non è quello di Martin. Che non è quello di tutti noi. E al tempo stesso è il medesimo. La consapevolezza di questo è la disperazione silenziosa di Rust. Che è la disperazione ritratta da Edvard Munch.

Anche nel caso del maestro norvegese, infatti, l’unico modo per esprimere il grido della Natura è mediante la rappresentazione di un uomo. È difatti la consapevolezza della realtà e della propria condizione rispetto a essa che permette la razionalizzazione del dramma. Ma questa non comporta una soluzione, una possibilità di superamento di questa condizione, ma solo l’affermazione della nostra inadeguatezza.

“Siamo delle cose che si affannano nell’illusione di avere una coscienza. Questo incremento della reattività e delle esperienze sensoriali è programmato per darci l’assicurazione che ognuno di noi è importante, quando invece siamo tutti insignificanti.”

 

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Rust, come Edvard, però, deve reagire. Deve esorcizzare la propria visione. Deve rendere questa percezione maggiorata finalizzata a qualcosa. La risoluzione del caso. Una piccola briciola di giustizia, o meglio di verità, in un mondo che per sua natura è distorto. E la distorsione genera sofferenza.

Questo è il regalo che ci fa True Detective. Tramite Rust Cohle, per un breve istante, anche noi passeggiamo sulla collina di Ekeberg con lo sguardo rivolto verso Oslo. Ma noi non siamo Rust Cohle. E tanto meno Edvard Munch. Noi siamo come gli amici che lo accompagnavano o come il povero Martin Hart: passeggeri inconsapevoli di una realtà più profonda e sofferente di quanto ci sarà mai data opportunità di sapere.

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