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Perché guardare fino alla fine The Man in the High Castle, anche se ha una marea di problemi

È una notte del 1962, e un ragazzo di nome Joe Blake esprime il desiderio di entrare nella Resistenza. La telecamera indugia su Times Square, ma qualcosa non torna. I suoi maxischermi ci mostrano, in primo piano, un’enorme svastica. L’immaginazione di Philip Kindred Dick ha concepito uno scenario che stordisce e inquieta: nel suo romanzo “La svastica sul sole”, che ha ispirato la serie originale Amazon Prime VideoThe Man in The High Castle” (qui la recensione senza spoiler per chi non ha ancora guardato la serie), l’America nazista non è soltanto una minaccia scongiurata dalla vittoria degli Alleati nella Seconda Guerra Mondiale, ma è l’unica alternativa che i suoi protagonisti conoscono. Le potenze dell’Asse hanno prevalso e si sono spartite le rispettive fette di mondo. Gli Stati Uniti, in cui è ambientata la serie, sono divisi tra Germania e Giappone: a ovest si trovano gli Stati Giapponesi del Pacifico, a est sorge il Grande Reich Nazista e i due territori sono divisi dagli Stati delle Montagne Rocciose, noti anche come Zona Neutrale.

A New York gli uomini della Resistenza vengono interrotti da una retata delle SS guidata dall’Obergruppenführer John Smith, appena un istante dopo che partisse il camion su cui Joe era stato fatto salire per iniziare la sua prima missione. A San Francisco una donna americana di nome Juliana Crain prende lezioni di aikido, prima di incontrare il suo fidanzato Frank Frink in un bar. Le vite dei quattro personaggi si intersecheranno tra loro e con quelle del Ministro del Commercio degli Stati del Pacifico Nobusuke Tagomi e dell’ispettore Kido, a capo della Kempeitai di stazione a San Francisco.

La distopica The Man in the High Castle propone un’idea di fondo originale e innovativa, e il ribaltamento delle posizioni non solo incuriosisce lo spettatore ma lo induce a riflettere. Anche la trama è nel complesso ben strutturata: nessuno dei protagonisti ha un’evoluzione scontata e ogni colpo di scena è ben piazzato, riportando la palla al centro nelle battaglie personali che vedono coinvolti tutti i personaggi della serie.

Pur essendo indubbiamente un prodotto di qualità, The Man in The High Castle non è tuttavia esente da difetti, alcuni anche disturbanti, che hanno portato una vasta platea di spettatori a interromperne la visione. Cosa è andato storto?

La prima e immediata “selezione naturale” che The Man in the High Castle si autoinfligge è il connubio tra lentezza narrativa e durata eccessivamente lunga delle puntate: l’una senza l’altra sarebbe stata sicuramente meno scoraggiante, ma la combo risulta pesante anche per i più appassionati. Un ulteriore tasto dolente riguarda la sua protagonista: senza girarci troppo intorno, Juliana Crain è un personaggio che non piace. Probabilmente a causa dell’interpretazione di Alexa Davalos, bellissima ma poco espressiva, o per l’atteggiamento distaccato che riserva a chiunque incroci il suo cammino (con pochissime eccezioni), e che la porta a vedere persone e situazioni il più delle volte come mezzi per raggiungere il suo obiettivo. Non importa che il fine sia l’ideale di giustizia superiore insito nel ribaltamento del totalitarismo: lo spettatore non riesce a perdonarle questo freddo opportunismo. Del resto, se l’ombra di un sentimento pare a tratti accarezzarla nei confronti di Frank e di Joe, avremmo preferito risparmiarci la sua relazione con Wyatt, verso il quale la ragazza trasuda indifferenza da tutti i pori. Quale che sia la ragione, Juliana Crain ha l’imperdonabile difetto di non riuscire a instaurare una relazione empatica con il suo pubblico.

The Man in the High Castle

Nella quarta e ultima stagione inoltre alcune linee narrative sembrano inserite senza una reale consapevolezza di dove si voglia andare a parare, o se anche hanno una coerenza generale con la storia, aggiungono comunque della carne al fuoco di cui una trama già articolata e complessa come quella di The Man in The High Castle non ha bisogno. A discapito, peraltro, della sbrigativa uscita di scena di personaggi cruciali, che avrebbero meritato maggiore spazio o quantomeno un addio meno laconico: viene in mente Tagomi su tutti, ma anche Joe Blake. In entrambi i casi abbiamo avuto la sensazione che quei personaggi avessero ancora qualcosa da dirci prima dell’addio, ma la speranza di ritrovarli in uno degli universi paralleli è stata disattesa.

Perché allora dovreste finire The Man in the High Castle? Perché i punti forti della serie compensano tutte queste imprecisioni.

L’interpretazione magistrale che Rufus Sewell ci regala di un alto ufficiale nazista colpevole di crimini indicibili e complice di un brutale sistema repressivo della libertà, riesce a spingere il pubblico nel paradossale controsenso di amare il suo personaggio. Non perché John Smith non sia all’unanimità un uomo da condannare, al quale The Man in the High Castle infligge la fine miserabile che merita, ma perché impersona l’abissale debolezza dell’animo umano. E questo è uno spettro che ci attanaglia tutti. Avrebbe potuto essere una brava persona John: la dimostrazione arriva come una pugnalata quando entra in contatto con il mondo alternativo in cui non si è mai arruolato. Ma la verità è che nella sua realtà senza speranza John ha scelto di non esserlo, e quando se ne rende drammaticamente conto è troppo tardi: “non sa come” scendere da una giostra infernale che gira più veloce di lui e che ha contribuito ad alimentare.

Quando lo rivela a sua moglie, i suoi occhi per la prima volta nudi, fissi in una voragine di panico, gonfi di un rimpianto straziante, ci annientano.

Ma The Man in the High Castle va guardata fino in fondo anche per poter assistere alle evoluzioni che interessano, parallelamente, Frank e Kido. Il primo è un artista che ripiega su un lavoro come operaio, con una personalità inesistente all’ombra della fidanzata Juliana: non gli importa di prendere una posizione e il terrore che guida ogni sua (non) scelta lo costringe a rinnegare le sue origini ebraiche. Il secondo è un inflessibile e spietato ispettore capo giapponese, ligio solo ed esclusivamente al suo dovere nei confronti dell’Impero. Le loro strade si incontrano per la prima volta quando Kido lo arresta e poi fa uccidere i suoi familiari, innescando in Frank un tarlo che comincia a scavare nella sua indole inconsistente, fino a trovare la sua vera voce, a lungo sopita.

I due percorsi si allontanano per tornare a sfiorarsi incessantemente, in un gioco al gatto e al topo in cui i ruoli di preda e bracconiere si scambiano senza sosta fino al tragico epilogo, che è uno dei momenti più alti dell’intera serie: quando Kido lo cattura, i due antagonisti si concedono il loro primo, trasparente dialogo. Un sole morente illumina il viso fiero e sfregiato di Frank, dritto sulla propria ritrovata corteccia morale: non teme più la morte, non ora che è un uomo libero. La stessa luce indugia sul volto di Kido, gravato dall’onore di una responsabilità che non concede debolezze. E come in una tragedia greca in cui ogni attore assume spontaneamente la posizione che il copione gli ha assegnato, i due immensi personaggi si adagiano eleganti nei rispettivi ruoli.

Mentre Kido indossa l’uniforme ed estrae la spada, Frank si inginocchia sul suolo di un ex campo di concentramento americano per pronunciare in ebraico le parole di una preghiera.

The Man in the High Castle

Ma Kido da quel confronto uscirà profondamente segnato, e nel suo animo inizierà flebilmente a farsi strada la possibilità che anche altri valori siano degni di orientare le proprie scelte: toccato da questa nuova consapevolezza, riaccoglie suo figlio e suggerisce il ritiro dell’Impero Giapponese dagli Stati Uniti.

“Io penso che col tempo, con abbastanza armi e truppe possiamo piegare questi ribelli, ma il prezzo da pagare sono le anime e il sangue dei figli del Giappone. Un tempo qualunque prezzo mi sembrava giusto. Noi possiamo prevalere, Principessa. Ma io non credo più che dovremmo“.

Il finale di The Man in the High Castle resta fuori dalla bipartizione tra pro e contro di continuare a guardare la serie, perché sebbene la teoria del multiverso avrebbe potuto generare altri e più interessanti sviluppi, l’apertura del portale e il flusso di uomini e donne che lo attraversano ha il significato che ciascuno sceglie di attribuirgli. Ognuno di noi può considerarlo un escamotage non riuscito, addirittura una presa in giro, o più semplicemente una tra la infinite possibili conclusioni naturali di una serie che non è perfetta, ma ci regala picchi di introspezione che la rendono, nonostante tutto, grandiosa.

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