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The Crown – La recensione della quinta stagione: il tramonto di un’era gloriosa

*Attenzione, seguono spoiler su The Crown 5, disponibile su Netflix*

Il drama storico che viviseziona la vita della defunta Elisabetta II e della famiglia reale britannica è tornato il 9 novembre con il quinto capitolo. The Crown è una delle serie tv più raffinate e controverse di Netflix che ha saputo ammaliare il pubblico grazie alla sontuosità dei dialoghi e all’accuratezza di costumi e ambientazioni (10 citazioni di The Crown da usare se vuoi sembrare intelligente). Accompagnata da una coltre di polemiche, preoccupazioni e curiosità, The Crown 5 è tornata con un cast rinnovato che include Imelda Staunton come regina. Il nuovo capitolo immortala una delle fasi più turbolente della Corona, ovvero le crepe aperte dal fallimento del primo matrimonio dell’allora erede al trono (Quanto c’è di vero nella storia d’amore tra Carlo e Camilla nella terza stagione di The Crown?). Le 10 puntate da circa un’ora si concentrano su quello che – per stessa ammissione della regina – è stato il punto più basso toccato dalla famiglia reale. Preceduto da quattro stagioni brillanti, intense e ispiratrici, l’ultima fatica di Peter Morgan, arrivata dopo due anni di attesa, sembra arrancare. Si percepisce un’aria crepuscolare, viziata. Un’atmosfera che si aggrappa troppo al passato. La sensazione, in parte, è voluta ed è coerente con le tematiche narrate. In questa occasione, infatti, il dramma storico passa al setaccio il decennio più difficile della storia della Royal Family. Entriamo nel vivo della crisi tra la Principessa di Galles Diana Spencer e l’attuale re, Carlo III, e ripercorriamo gli scandali che hanno scosso la Corona negli anni Novanta. Assistiamo al crollo dell’immagine pubblica della famiglia reale e a quello del suo ruolo all’interno della società britannica, che fatica a capire. Al centro della narrazione c’è la cosiddetta “Queen Victoria Syndrome”, come titola il primo episodio; ci sono i fallimenti matrimoniali, i lutti, i rimpianti, le paranoie, le ansie e la sensazione che quel castello di carte stia crollando a causa di incomprensioni interne. Una House of The Dragon senza draghi, insomma. Eppure, nel nuovo capitolo manca quella tensione vibrante e plumbea che rende il prequel di Game of Thrones esaltante, e manca la profondità delle prime stagioni di The Crown. Non è tanto la vicenda raccontata, ma è la produzione ad apparire stanca.

The Crown 5, il tramonto di un’era gloriosa

The Crown 5 - Netflix (640x360)
The Crown 5 – Netflix (640×360)

Le dieci puntate scritte da Peter Morgan e dirette a turno dai registi e dalle registe Jessica Hobbs, Alex Gabassi, May el-Toukhy, Erik Richter Strand e Christian Schwochow ci riportano nel Regno Unito tra gli anni Ottanta e Novanta (in particolar modo, tra il 1992-97), intervallati dai numerosi flashback. Ci avviciniamo alle soglie dell’anniversario dei 40 anni dall’incoronazione della Regina Elisabetta II, ormai ultra sessantenne. Il peso dei suoi anni incomincia a farsi sentire, non solo a corte, ma anche tra i sudditi. Secondo un sondaggio, infatti, il 50% dei britannici preferirebbe che la monarca abdicasse in favore del primogenito, che pare essersi già mosso per creare una corte personale. Lo splendore di quel regno che Elisabetta ha edificato mattone dopo mattone appare sbiadito. Anche con il principe Filippo, duca di Edimburgo, qualcosa sembra essersi spezzato. Le sfide che minacciano la Corona sono numerose. Il mondo sta cambiando. L’Unione Sovietica è crollata, Hong Kong ha ottenuto l’indipendenza, l’avvento di nuove tecnologie incombe e una nuova concezione di famiglia, meno tradizionale, si va configurando.

Gli equilibri politici e la compagine del nuovo scenario culturale, però, restano piuttosto in secondo piano rispetto ai problemi di natura sentimentale; cioè gli scandali che alimentano pettegolezzi e diffidenza. La crisi tra il principe Carlo e la principessa Diana è ormai insanabile, tanto che la regina non può che concedere il divorzio, gettando così le basi per una crisi costituzionale della monarchia. I mass media, sempre più potenti, diventano i principali promotori degli scandali. Diana decide di dare la sua versione dei fatti e prende parte prima alla pubblicazione di un libro (sebbene lo neghi), poi a un’intervista con la BBC che minerà l’immagine di Carlo come erede al trono. A complicare la situazione già tesa subentrano nuove figure, come il magnate Mohamed Al-Fayed (Salim Daw), spinto dal desiderio di ritagliarsi un posto a corte, e il figlio Dodi con la sua casa di produzione e i suoi pochi “momenti di gloria”.

Il cambio della guardia funziona, fino a un certo punto.

Lady Diana Spencer - The Crown 5
Lady Diana Spencer – The Crown 5

Il Guardian e il New York Times si sono espressi. “È tempo che questo spettacolo noioso finisca per sempre” titola il primo mentre il secondo chiede: “La stanchezza di The Crown 5 ti è già arrivata?”. Non sempre siamo d’accordo con le due testate, ma in questo caso sia qui a Hall of Series, sia tra gli spettatori l’impressione sembra essere condivisa. Inutile sottolineare quanto la produzione Netflix mantenga un livello qualitativo altissimo, ma inferiore a quello delle prime quattro stagioni. Olivia Colman passa il testimone a Imelda Staunton che veste i panni della regina come fossero suoi. Staunton è magnifica. È umana e regale, fragile e potente. Leggermente meno, ma comunque incisivi, lo sono Jonathan Pryce (l’High Sparrow di Game of Thrones) nelle vesti del principe Filippo, Lesley Manville in quelli della principessa Margaret e Olivia Williams in quelli di Camilla Parker Bowles. A Elizabeth Debicki, invece, è toccato il ruolo più ingrato, cioè quello dell’amatissima principessa Diana. L’attrice si è dimostrata una valida proposta ed ha saputo cogliere tutte le contraddizioni e le insicurezze di Lady D., come fece Emma Corrin. L’interprete di Dodi Al-Fayed, Khalid Abdalla, funziona. Così come convincono il dottor Hasnat Khan, grande amore della principessa, interpretato dalla star pakistana Humayun Saeed e il primo ministro John Major, interpretato da Jonny Lee Miller, la cui presenza non è centrale come lo era quella dei suoi predecessori. Dispiace non aver trovato Andrew Scott nei panni di Tony Blair bensì Bertie Carvel, che rivestirà un ruolo centrale nella prossima stagione.

Tutto sommato i nuovi volti funzionano – sebbene non tanto quanto quelli delle prime stagioni – eccetto uno: Dominic West nei panni del principe Carlo d’Inghilterra. L’eleganza e il fascino innato del pluripremiato attore inglese sono il problema più grande di The Crown 5. Sebbene West sia riuscito a carpire ogni espressione e dettaglio del linguaggio del corpo del nuovo re – come l’immancabile mano in tasca – non riesce a convincerci. Il principe Carlo non è mai stato percepito come un uomo affascinante. Tutto il contrario: sia dai rotocalchi che dalle parodie, Charles è sempre stato dipinto come “un brutto anatroccolo”, goffo e incompreso, a fianco di una creatura quasi angelica. Non si tratta di gusti soggettivi, ma di una percezione collettiva che rende impossibile credere che quello sia Carlo del Regno Unito, spezzando così l’incanto.

Carlo non è l’unico problema.

Dominic West - principe Carlo d’Inghilterra
Dominic West – principe Carlo d’Inghilterra

Malgrado la bravura di Dominic West, è davvero difficile entrare in sintonia con il suo personaggio, contrariamente a quanto accadeva con Josh O’Connor: una scelta di casting eccezionale. Carlo non è l’unico problema di The Crown 5. La narrazione cattura, ma appare complessivamente slegata. I numerosi flashback non arricchiscono come facevano quelli delle prime stagioni, ma interrompono il ritmo. Spesso mancano le informazioni di contesto che aiutino a capire i fatti anche allo spettatore più smemorato. Ogni episodio, poi, si concentra su singoli personaggi o eventi storici senza badare troppo all’amalgama finale. Un episodio si concentra sul beone Boris Nikolaevič El’cin, un altro sui tentativi di Mohamed Al-Fayed di sedere a fianco della regina oppure sulla sua amicizia con il “valletto del re”.

Una delle scene più forti, e più riuscite, è il barbarico assassinio della famiglia imperiale Romanov. Forse l’unico evento storico trattato con la giusta efficacia e intensità drammatica. Per il resto, gli eventi e le problematiche appaiono appena tratteggiate. Non si scava in profondità, come facevano le prime magnifiche stagioni. La trama non è ricca dei discorsi grandiosi che hanno reso The Crown una perla di drammaturgia. Diversi dialoghi appaiono superflui e al centro dell’attenzione sembra esserci più il gossip che la storia. Neanche i dialoghi tra il primo ministro e la regina brillano come facevano i confronti acuti con Margaret Thatcher o Winston Churchill.

Imelda Staunton - The Crown 5
Imelda Staunton – The Crown 5

The Crown 5 ha avuto l’onere di trattare un capitolo recente e fin troppo critico della famiglia reale britannica, ma non ne ha sfruttato il potenziale. Il conflitto, le riflessioni sulla vecchiaia, sulla modernità che avanza e sui legami sentimentali spezzati sono temi di discussione affascinanti, ma nella trama mancano complessivamente di epicità. Non è chiaro quale voglia essere il fulcro narrativo del nuovo capitolo, che viene spezzato da troppe trame secondarie. The Crown 5 presenta le stesse dinamiche torbide e complesse di famiglie imperfette, corrose dall’interno, come quelle di Succession e House of The Dragon dell’HBO. Tuttavia, al contrario delle due serie tv citate, l’ultima fatica di Morgan non si concentra sul conflitto storico, umano né sul dilemma morale.

La quinta è la stagione della disillusione, il crollo della favola, il volo dell’erede al trono in business class. Appassiona e coinvolge, ma si avverte la mancanza del dramma umano profondo e del carattere trionfale che permeava le stagioni d’esordio. La lettura sapiente che Morgan ha fatto degli eventi storici degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta qui è spesso ambigua e si incaglia su questioni secondarie. Il cambiamento che minaccia i Windsor, il bisogno del rinnovo di atteggiamento e immagine, il superamento dei concetti vittoriani e il “futuro entusiasmante” di un’istituzione pachidermica dovrebbero costituire il fulcro narrativo. Invece, gli episodi centrali perdono di vista il cardine della storia. Oltre all’episodio russo, avvincente e triste, solo l’ultimo risolleva le sorti di una stagione interessante, ma fiacca. Nel finale ritorna la questione della Britannia: la metafora narrativa di raccordo più potente della stagione e sicuramente il nodo più riuscito. Tuttavia, l’interesse ruota troppo spesso intorno agli scandali, ai problemi coniugali e ai tentativi ingenui di Carlo di succedere alla madre che ormai considera obsoleta.

La stagione termina con il disarmo del panfilo e l’ipotesi, furbetta, di Blair del New Britain in affitto. Ad ogni modo, nella stagione non è emerso nulla di scottante né compromettente. Al contrario, la famiglia reale ne esce piuttosto pulita. Ad eccezione di Lady D., il cui lato “civettuolo” ha avuto più risalto. La sesta, e ultima, stagione dovrebbe riguardare la relazione con Dodi Al-Fayed e il nuovo corso di Tony Blair. Ci auguriamo solamente che nell’epilogo si riaccenda l’interesse verso la storia e il dramma umano piuttosto che verso il gossip.