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Come The Bear ha valorizzato su schermo la cultura della formazione

The Bear ci ha regalato una stagione ancor più bella della prima e non si spenderanno mai abbastanza parole per tessere le lodi di questo piccolo gioiello seriale. Il sesto episodio ancora una volta si è confermato un capolavoro di sceneggiatura, interpretazione e regia, capace di tenerci incollati allo schermo in un turbinio di emozioni e asfissiante tensione. Avremo modo, in prossime pubblicazioni, di ritornare su questa puntata e in particolare sul dettaglio (geniale sotto ogni punto di vista) della forchetta lanciata. Ma per ora vogliamo soffermarci su un altro aspetto. Qualcosa che forse ai più sarà sfuggito e che, paradossalmente, non riguarda nessuno dei punti di forza espliciti di The Bear: né la resa attoriale, né la regia o la sceneggiatura. Riguarda un dettaglio contenutistico passato in sordina.

Per comprendere al meglio di cosa parliamo dobbiamo riavvolgere il nastro, tornare alla prima stagione, all’inizio della gestione dell’hamburgheria da parte di Carmy. Davanti a sé lo chef stellato trova una situazione ai limiti dell’inconcepibile: caos, insubordinazione, incapacità organizzativa, dilettantismo. Il locale è una polveriera pronta a scoppiare, cosa che regolarmente accade con un culmine emotivo e psicologico raggiunto nel sesto episodio della prima stagione. Poi, però, incredibilmente si spalancano le porte per un nuovo inizio: il finale di stagione ci regala un colpo di scena tanto inaspettato quanto insperato che mette in mano a Carmy la possibilità di cambiare ogni cosa.

Con i soldi incredibilmente apparsi il protagonista può ripartire da zero, può ripensare completamente il locale, il menù, il team. Ogni cosa.

Può fare tabula rasa e ripartire solo dalle cose che funzionano. Eliminare le altre. Cacciarle il più lontano possibile da sé e da quell’inferno di confusione e nevrosi che era The Original Beef of Chicagoland. Ed è a questo punto che succede qualcosa che finisce per stupirci. Per anni siamo stati formati a programmi televisivi di cucina che ci mostravano soluzioni radicali a problemi radicali. E, ammettiamolo, quando dopo pochi episodi della prima stagione di The Bear abbiamo visto Richie creare tensione, gestire le cose alla “buona”, remare contro, avevamo ben chiaro cosa dovesse fare un capo: licenziarlo. Cacciare le pecore nere, gli incompetenti e insubordinati (vero Tina ed Ebraheim?). Ma Carmy non lo fa.

Richie
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Eppure lui viene da un ambiente spietato in cui ogni minimo errore può essere pagato con un licenziamento. Non c’è spazio per sbagliare come non può esserci per l’insubordinazione e la contestazione dello chef. Ma Carmy non segue questo esempio. Per anni aveva accettato, si era riconosciuto in quel modello di perfezione, in quell’implacabile legge in cui a sopravvivere sono soltanto i migliori. Per l’eccellenza devi essere pronto, devi essere perfetto. Devi essere un soldato. E ora Carmy rinnega tutto questo e di colpo ci fa vergognare di noi stessi.

Sì, perché non è solo una questione emotiva. Non è soltanto perché Richie è suo “cugino” (e non lo è neanche davvero). Non è solo perché Ebraheim e Tina sono due veterani del locale, i bracci destri del fratello morto. Certo, forse all’inizio può esserci stato questo pensiero. Carmy può essersi detto di dare a tutti una possibilità per rispetto del ricordo fraterno. Ma poi questa giustificazione cade. Cade ogni volta che Tina sbaglia e si mostra inadeguata, cade davanti a tutti i loschi affari di Richie, davanti alla sua strafottenza e incapacità. Cade per l’incompetenza di Ebraheim. E allora quando all’inizio della seconda stagione di The Bear Carmen ha davanti a sé un nuovo inizio e l’obiettivo è addirittura ottenere una “stella”, non può esserci spazio per sentimentalismi e dilettantismo. Servono professionisti. E qui c’è la rivoluzionaria visione di Carmen Berzatto: la scelta di confermare in blocco la squadra.

Una follia apparente, qualcosa di inconcepibile per noi che proprio non capiamo il perché.

Noi che avremmo facilmente tirato una riga su tutti tenendo solo le punte di diamante della squadra: Sydney e Marcus. Avremmo scelto l’eccellenza. Il protagonista di The Bear però non è né un pazzo né un sentimentale. E come noi aspira all’eccellenza. Perché allora confermare una banda di scappati di casa? Carmy ci ricorda qualcosa. Qualcosa che anni di cucine infernali, grida, strepiti e giudizi intransigenti avevano allontanato dalla nostra sensibilità. Carmy ci ricorda che si può puntare sul capitale umano. The Bear d’improvviso fa una cosa totalmente nuova nella seconda stagione. Ci mette di fronte alla possibilità di investire sugli altri.

The Bear
(640×360)

Richie non aveva mai fatto formazione, non aveva quel capitale umano che ci si guadagna a suon di esperienza sul campo e scuole di perfezionamento. Aveva avuto soltanto un’educazione “da strada”, si era inventato autodidatta in un ambiente disfunzionale sul baratro della bancarotta, ed era stato costretto a rabberciare continuamente le fondamenta di un’attività mandata avanti senza una visione. Doveva sporcarsi le mani, ricorrere a espedienti arzigogolati, scendere a patti morali, porre continue toppe. È il solo contesto che ha conosciuto, il solo in cui ha vissuto e in cui ha imparato ad adattarsi. L’arrivo di Carmy ribalta completamente le sue certezze, il suo ruolo di tuttofare pressappochista ma funzionale. Richie è convinto, anzi sa, che il sistema da damerino del “cugino” non può funzionare. Non è in un ristorante stellato, non vanta incassi milionari, non ha mezzi all’avanguardia: The Original Beef of Chicagoland per tirare avanti deve ricorrere a ogni mezzo tra il legale e l’illegale.

Per questo, per tutta la prima stagione Richie è oppositivo: si sente scavalcato da Sydney, critica i cambiamenti, vede le sue incerte certezze venire meno. Uno come lui in qualsiasi contesto professionale competitivo avrebbe fatto una brutta fine, non ritenuto al passo, considerato elemento di instabilità per l’ambiente di lavoro. Sarebbe stato licenziato. Carmy al contrario crede in lui, decide di puntare sulle qualità che ha intravisto: sulla sua capacità di adattamento, sull’equilibrismo di chi è stato capace di tenere a galla la baracca ricorrendo alle più fantasiose trovate. Punta su di lui e sul potenziale del suo capitale umano. Lo manda a fare esperienza in un ristorante stellato, lo sottrae a quel contesto disturbante in cui era cresciuto. E Richie non delude. Con una rapidità incredibile abbandona le sue rassicuranti convenzioni e il machismo di facciata di chi non pensa di avere padronanza delle giuste conoscenze sul campo.

Inizia la sua formazione e scopre la bellezza di un lavoro fatto a regola d’arte.

Scopre il piacere di servire il cliente, di allestire il locale, il senso dell’impegno, la dedizione totale di una brigata che rema in un’unica direzione. Vede l’arte dietro a tanto perfezionismo, l’eleganza di chi sa esattamente quello che fa. E ne rimane estasiato, completamente avvinto da questa nobilissima forma di passione. Ascolta le storie dei suoi compagni di brigata, vede il fuoco che divampa in loro: il fervore, l’abnegazione totale, il sogno fatto di fatica, sudore e sacrificio. E cambia. Richie diventa un altro, matura un’etica del lavoro, si dimostra incredibilmente portato per il ruolo di direttore di sala, dà prova di assorbire ogni informazione e trucco del mestiere con una rapidità impressionante.

Tina
Tina sfiletta alla perfezione un pesce (640×360)

Carmy non punta solo su chi palesemente mostra un potenziale eccezionale come Marcus, mandato a fare esperienza a Copenaghen (come a suo tempo aveva fatto Carmen) ma anche su Richie, Ebraheim e Tina. E ognuno di loro, responsabilizzato e messo in condizione di poter maturare quell’esperienza professionale fino ad allora impossibile, per costi, da sostenere, si dimostra all’altezza. E allora sì, ci vergogniamo un po’, perché noi non avremmo dato una possibilità a nessuno di loro. Non avremmo capito cosa serviva a ognuno di loro. Li avremmo semplicemente tagliati fuori, ancora una volta messi nell’impossibilità di accrescere il proprio capitale umano. E avremmo sbagliato. Tutto in nome di un successo che pare premiare solo chi può permettersi onerosi costi di formazione.

E invece The Bear ci ricorda di colpo l’importanza della cultura della formazione.

The Bear rimette al centro l’uomo, le sue qualità nascoste, il diritto che ha ognuno di noi di essere messo nella condizione di esprimersi al meglio e di sviluppare le proprie conoscenze e qualità. E lo fa nel modo più inaspettato possibile. Aggiungiamo allora anche questo merito alle infinite qualità di The Bear: l’aver valorizzato su schermo la cultura della formazione. E l’averlo fatto facendoci sentire un po’, giustamente, in colpa.

La nostra guida informativa su tutto ciò che c’è da sapere di The Bear 3 (data, trama, cast e news)