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Superstore è una comedy intelligentissima, ma forse lo capiremo solo fra qualche anno

Superstore” aveva tutte le carte in regola per diventare una delle comedy più di successo degli ultimi anni. Eppure, nonostante le sue sei stagioni, nonostante la messa in onda sui principali canali della televisione italiana – sia in chiaro che a pagamento – e nonostante sia al momento presente quasi al completo sia nel catalogo di Amazon Prime Video che in quello di Netflix, la serie creata da Justin Spitzer (già autore tra gli altri di Scrubs e The Office) per NBC è sempre rimasta nell’ombra delle altre grandi comedy ambientate sul posto di lavoro prodotte dal canale, veri e propri cult del calibro di The Office, Parks and Recreation e Brooklyn Nine-Nine. Se è vero che raccogliere, o quanto meno condividere, l’eredità di queste serie è un’impresa quasi impossibile, che avrebbe messo in difficoltà qualsiasi comedy, posta davanti a un confronto che non poteva vincere Superstore è riuscita a proporsi come un prodotto originale, facilmente distinguibile, dalla comicità a tratti scontata eppure non per questo meno riuscita (come vi abbiamo raccontato qui).

“Superstore” è un ritratto fedele e a tratti surreale dell’America contemporanea, tra contraddizioni e risate.

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La comedy di Spitzer, che segna il grande ritorno di America Ferrera come protagonista in televisione, nasconde dietro a un’ingannevole patina di leggerezza una profonda critica sociale dell’America contemporanea, di cui evidenzia le contraddizioni e il declino a partire da quello che potremmo definire il suo simbolo: un “superstore“, ossia un negozio di grandissime dimensioni che vende di tutto, dal cibo all’elettronica, dai vestiti all’attrezzatura da campeggio, un tipo di rivenditore a prezzi contenuti estremamente diffuso negli Stati Uniti e che invece non sembra avere avuto successo sul suolo europeo. La fittizia catena dei Cloud 9, nel cui punto vendita di Saint Louis in Missuori lavorano i protagonisti di Superstore, è allora il corrispettivo televisivo di qualcosa di profondamente statunitense, ne è una rappresentazione talmente fedele e generalizzabile che il titolo della serie sceglie di riflettere proprio questa sua natura, come precedentemente era stato già fatto da “The Office“, la serie di cui Superstore si pone come erede. Se quello in cui lavoravano Michael Scott e gli altri protagonisti di The Office diventa nel titolo della serie solo un generico ufficio, per altro di un settore in crisi come quello del commercio della carta durante la rivoluzione digitale, lo stesso si può dire del Cloud 9 di Saint Louis, solo uno dei tanti superstore che cercano di combattere, quasi certamente inutilmente, con i grandi colossi internet della distribuzione e con lo shopping online.

Fin dal principio Superstore propone allora una doppia chiave di lettura: la commedia leggera e brillante in superficie, la critica sociale sottile – con qualche importante eccezione dove assume più sostanza – ma estremamente efficace al di sotto della narrazione.

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Partiamo con l’analizzare il primo livello di interpretazione della serie, quello di commedia televisiva canonica e di buon livello che ha permesso a Superstore di avere, soprattutto in patria, un discreto successo. La comicità della serie si basa principalmente sui suoi personaggi, la maggior parte dei quali ha una caratterizzazione che ricade in tipi ben definiti e un’evoluzione lenta ma decisa che li rende umani e realistici nonostante i loro tratti più peculiari vengano spesso estremizzati per divertire il pubblico. I due protagonisti, Amy (America Ferrera) e Jonah (Ben Feldman) sono per molti aspetti i classici personaggi principali della comedy ambientata sul posto di lavoro, colleghi che legano fin da subito, tra i quali lentamente si sviluppa una relazione che diventa il fulcro della serie, proposti come i più normali all’interno della rosa di personaggi assolutamente folli che li circondano. Eppure vi è nella caratterizzazione stessa di Amy e di Jonah e soprattutto nella costruzione del loro passato una forte impronta di critica sociale e un’amarezza di fondo che, pur stemperata, contribuisce a dare a Superstore una profondità rara per una commedia pura. All’inizio della serie Amy, ormai trentenne, è diventata madre da adolescente e pur brillante ha dovuto rinunciare a ogni prospettiva di carriera per prendersi cura della figlia insieme al marito che non ama ma da cui non riesce a separarsi. Jonah invece si sente migliore degli altri perché, a differenza loro, lui volendo potrebbe andarsene dal Cloud 9, potrebbe diventare medico o intraprendere qualsiasi altra carriera meglio retribuita e più tutelata rispetto a quella dei lavoratori di una catena di negozi americana. Nella caratterizzazione stessa dei due protagonisti vediamo allora già una prima importante critica allo spietato sistema capitalistico statunitense, che non ammette passi falsi per chi non ha tutele (come Amy), ma che è sempre pronto a concedere seconde occasioni a chi viene da una situazione di privilegio. La scala mobile della società nell’America contemporanea è tragicamente ferma, e i personaggi di “Superstore”, ancorati al fondo, lo sanno molto bene.

A far da contorno ad Amy e Jonah, ma prendendosi sempre più spazio nel corso delle sei stagioni della serie, vi sono un vivaio di personaggi a tratti surreali, a tratti grotteschi, sempre amabili nel loro essere sopra le righe. Glenn (Mark McKinney) è il classico americano bianco bigotto, ignorante ma dotato di buon cuore, la cui ingenuità è perennemente in bilico tra il divertente e il fastidioso e il cui ruolo di capo – fortunatamente poi ceduto alla ben più competente Amy – è in contrasto con la sua leadership inesistente e la sua incapacità di muoversi nel mondo degli affari. Garrett (Culton Dunn), Dina (Lauren Ash), Cheyenne (Nichole Bloom), Mateo (Nico Santos) e quindi Sandra (Kaliko Kauhai), Marcus (Jon Barinholtz), Myrtle (Linda Porter) e gli altri personaggi minori ma ben presenti in Superstore, rappresentano ognuno uno specifico tipo di lavoratore e hanno motivazioni differenti che li spingono a mantenere il proprio posto sottopagato e decisamente poco stimolante al Cloud 9. L’esplorazione delle ragioni che hanno portato i protagonisti a lavorare in un superstore così a lungo termine viene portata avanti per tutta la serie, soprattutto perché queste hanno precise implicazioni quando si tratta di comprendere i problemi della società contemporanea, caratterizzata dall’eterna precarietà e dal mito di una meritocrazia che sappiamo essere più una bella favola che una solida realtà.

Prendiamo come esempio il caso di Mateo, impiegato del Cloud 9 che scopriamo essere un immigrato clandestino dalle Filippine, che è riuscito a ottenere il lavoro tra inganno e fortuna e che lotta con le unghie e con i denti per mantenerlo, perché sa che se lo perdesse le probabilità di trovarne un altro sarebbero quasi nulle e che se venisse scoperto la sua intera vita verrebbe messa in pericolo. Apparentemente il più frivolo dei personaggi insieme alla migliore amica Cheyenne, Mateo diventa quindi il centro di una delle sotto-trame più politicamente impegnate di Superstore, che esplora la precarietà della condizione degli immigrati irregolari e la costante angoscia che comporta il terrore di poter essere costretti e deportati in qualsiasi momento, qualcosa che pochissime serie televisive – men che meno commedie – hanno avuto il coraggio di denunciare così apertamente.

Altrettanto importante è la questione della presa di coscienza da parte dei dipendenti del Cloud 9 delle gravi carenze del sistema americano quando si tratta di tutelare i propri lavoratori, soprattutto coloro che si trovano in fondo alla piramide sociale. Senza mai risultare pesante o palesare un intento prettamente didascalico, Superstore non si tira indietro davanti alla necessità di sviscerare quanto contraddittorio è un sistema che si basa soltanto sul profitto, senza preoccuparsi delle condizioni in cui questo viene creato. Il personaggio di Jonah, che per via della sua formazione e dei suoi privilegi è per diversi aspetti un outsider all’interno del gruppo dei dipendenti del Cloud 9, è il tramite attraverso cui il pubblico viene a conoscenza delle assurdità a cui vanno quotidianamente incontro i lavoratori in un paese che si professa spesso come modello. L’introduzione della storyline in cui al Cloud 9 si forma un sindacato, parola che spesso viene percepita come tabù in alcuni ambienti statunitensi, è quasi rivoluzionaria, nonché profondamente realistica nel mostrare quante difficoltà devono affrontare e quanto vengono osteggiati i protagonisti nella loro lotta per avere condizioni di lavoro più dignitose e maggiori tutele personali e sociali.

Superstore è intelligentissima perché le sue lezioni di vita le nasconde sotto un’apparenza di leggerezza, ma non per questo sono meno efficaci. E se durante la sua corsa ha fatto fatica ad affermarsi in Italia, soprattutto per via del suo essere così radicata nel contesto americano e così critica nei confronti degli Stati Uniti, la sua presenza su piattaforme streaming come Amazon Prime Video e più di recente Netflix potrebbe facilitarne negli anni a venire un successo tardivo ma meritatissimo, come accaduto in parte anche a capolavori come The Office e Brooklyn Nine-Nine, con cui la comedy di Spitzer condivide molto a livello di comicità e di sviluppo della trama nel corso delle stagioni. Superstore può risultare ripetitiva alle volte, ma la qualità delle sei stagioni rimane altissima e il finale della serie – che qui ometteremo di spoilerare poiché la sesta e ultima stagione non è ancora presente sulle piattaforme streaming – rappresenta una chiusura perfetta del cerchio, sottolineando ancora una volta il brillante dualismo della serie e la sua intelligenze forse non appariscente, ma mai trascurabile, di cui però ci siamo accorti troppo tardi.

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