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5 Serie Tv da guardare se sei fan di Stanley Kubrick

4. Hannibal
Hannibal

“Hannibal” spiega lo scontro e la fusione, il perfetto incastro di conformazioni opposte e quindi combacianti.
Un connubio di sapori conditi al meglio e soffritti insieme per deliziare la fame presuntuosa e boriosa di chi inneggia ad una faida tra sfarzosi imperi della mente, in lotta tra il tacito e l’espresso.
Una succulenta portata dalla prelibata presentazione, con l’uomo, in tutti i sensi, cotto e speziato, al centro di questa.
Anche in “Hannibal” rivediamo costanti elementi rappresentativi del cinema di Kubrick, tra cui la violenza come eccesso per soddisfare un bisogno, ed in particolare lo stile espressivo che conduce a notevoli riferimenti.
Fuller ha infatti “confessato” di aver più volte, nella sua vita, cercato di riprodurre la spettacolarità visiva e sconfinamento dell’accezione semantica di “stanza” con la riproduzione fedele del bagno dell’Overlook Hotel di “Shining”. Spesso senza successo, a causa del budget ridotto.
SHINING HANNIBAL Quì, invece, l’impresa sembra riuscita e viene reso al meglio il concetto di “istanza psichica” come vero e proprio luogo fisico, dal bianco ed il rosso che ondeggiano fino a scontrarsi e fluidificarsi insieme in un onda liquida di innocenza ed abuso, su pareti che, secondo Fuller che racconta la sua prima visione di Shining da bambino, “sembrano essere state dipinte col sangue“. Con essa, l’intero set di “Hannibal” è stato allestito seguendo le minuziose e precise regole visive di Kubrick, con quell’invisibile ma gravoso clima sospensivo.

 

5. Black Mirror
black mirror

La società canta un motivetto robotico, che non può essere danzato.
Ogni episodio, con trama differente e finita, in “Black Mirror” spiega il raccapricciante e quasi funereo risvolto, declinato a quotidianità, degli scroscianti e scoscesi, sempre ripidi e frenetici e giammai orizzontali e riflessivi, fiumi di dinamismo sociale. Lo sviluppo altro non è che uno sfuggente, seppur sconfortante, cambiamento di stato per passare a qualcosa di differente, presumibilmente decantato e più limpido.
Lo schermo di “Black Mirror“, tuttavia, resta appunto nero.
Il cambiamento di stato volge al peggio, e laddove l’intelligenza rattoppa, l’etica squarcia delicatamente.
In “Black Mirror” il rinomato senso di oppressione sovrano, la riverenza che bolle ed evapora paura, sono il tema principale incalzante lo spettatore.
In particolar modo, l’episodio speciale di Natale, che esprime il senso di reclusione in maniera non solo figurata, bensì fisica.
Nessuno vuole essere ignorato, sentirsi escluso. Li fa sentire invisibili“: parole professate per spiegare il disagio estremo, ad uno stadio cronico che porta al suicidio, e che vengono rapportate progressivamente ai vari stadi di implosione emotiva e “detenzione sociale” che vengono a svilupparsi, fino a condensare lentamente in un vero e proprio procedimento tecnologico, quello del “blocco” che permette alle persone di prendere l’idea di inferno altrui ed adagiarveli, di renderli invisibili ai propri occhi, di eliminare la possibilità di riscatto, cancellando ciò che sono stati, sono e potenzialmente saranno.
Seppure il mondo attraverso il buio schermo spento come la società che ne usufruisce è di un’angosciante rassegnazione di chi non può fregiarsi della possibilità di cambiare le cose, lo spettatore ci si specchia compiaciuto e narcisista fino al momento in cui si illumina per scoprire le carte, permettergli di leggerle ed accorgersi di aver dato tutto troppo per scontato.

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