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Westworld 4×04: in ogni realtà, l’inferno sono gli altri

«Bring yourselves back online.»
«Tornate in linea.»

La vita che viviamo è così fragile che se la osserviamo troppo si spezza.
Così omicida diventa quello sguardo giudice che a due tempi opprime ma dà anche vita all’individuo come “essere per sé”
Tale sguardo è per Jean-Paul Sartre quello degli altri, che rende il mondo circostante l’inferno in Terra che tanto somiglia alla perfetta macchina di anestetica interazione costruita dai parchi di Westworld, e ancor più dal “nuovo mondo” di Halores rivelato in questo quarto episodio. 

Ma quello sguardo è anche il nostro, rivolto a noi stessi, come l’alienante cilindro di luce che illumina l’uomo sul palcoscenico della vita, e lo rende “nudo”. Nudo è l’androide di Westworld sottoposto ad analisi, perché nudo si sente l’uomo di Sartre sottoposto allo sguardo altrui
Nudo stavolta è anche Caleb, intrappolato nella circolare perfezione vitruviana che deifica l’uomo e lo “condanna a essere libero”, come direbbe appunto Jean-Paul Sartre. Almeno finché abbiamo scoperto aver mantenuto la sua natura umana. È questo, infatti, il grande plot twist di una sublime 4×04, che riporta ufficialmente Westworld agli alti sfarzi della prima stagione: Caleb è ora un host, o almeno lo è il Caleb che abbiamo visto nel fidelity test di Halores.

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Westworld 4×04 – Caleb nel “nuovo mondo” di Halores

Assistiamo alla danza funerea di Maeve e Caleb tra i tabulati a rullo che descrivono le melodiche narrazioni del parco a tema anni ’20, convinti di assistere a un imprevedibile presente nel quale i due protagonisti proveranno a fermare il piano di conquista di Halores, finché non scopriamo che i due sono invece morti in quel parco 23 anni prima (Halores rivelerà a Caleb di essere la 278esima copia di se stesso, il 278esimo tentativo del fidelity test, che si presuppone equivalga a un tentativo al mese per i precedenti 23 anni). L’ordine delle timeline impone quindi che Caleb, in quanto “outlier” – individuo anomalo che resiste al controllo delle mosche – sia stato sottoposto a test per 23 anni nella linea temporale che rappresenta il presente, realtà in cui Halores ha vinto la guerra contro il genere umano e ha costruito il suo nuovo mondo. Tuttora Caleb potrebbe non essere totalmente sotto il controllo di Halores, come suggerisce la scena finale dell’episodio in cui quest’ultimo viene preso di forza dai soldati dopo essere stato incappucciato, che prova come per Halores sia ancora impossibile “comandare” lo stesso Caleb.

Quella caustica introspezione, la corrosiva ossessione che è lo sguardo giudice verso se stessi che aveva portato James Delos a vivere l’inferno in miniatura minuziosamente agghindato da William grazie a una spirale ricorsiva di drammi – col primo vero fidelity test introdotto nella seconda stagione – è un fuoco che circoscrive ora l’inferno di Caleb, che è rappresentato inevitabilmente dagli “altri”. Gli altri, per Caleb, sono la sua famiglia.
È da sempre che la retorica di Westworld trasuda un egoismo prospettico, nell’idea che tutto ciò che abbiamo sia stato creato dall’uomo, stavolta perfino una nuova forma di vita cosciente. L’uomo che diventa Dio, in grado di generare un “essere per sé” di natura sartriana. La moltitudine delle culture è sempre nata dalla diretta esperienza di un “outlier” – per dirla alla Westworld – con la realizzazione del divino e della spiritualità, come sosteneva il filosofo tedesco Oswald Spangler (basti pensare a ogni forma di simbolismo religioso), ed è questo che diventa Caleb nella nuova Westworld: il martire di una nuova cultura. Un nuovo Dio.

Non ha paura di morire, Caleb, mentre gli viene rivelata (e ci viene rivelata) la sua natura, mentre confessa che la sua unica preoccupazione è il ricordo ormai stantio della sua famiglia, un ricordo antico che si ripete in un loop che non ha futuro. Così Caleb trova il suo inferno negli “altri”, in un ricordo che non può essere più sovrascritto dell’inevitabilità del divenire. Caleb diventa anche Dio così come inteso nella poetica dissacrante di Westworld, mentre sceglie di essere condannato, mentre con l’estremo anelito di libero arbitrio si impone di non avere libero arbitrio, scegliendo l’inferno negli altri.
Diventa invulnerabile, Caleb, mentre svela impavido la sua vulnerabilità.

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Westworld 4×04 – Maeve è l’arma nel deserto

Deus ex è anche Bernard, che pattina leggiadro tra piste quantistiche e ci porta in questo episodio alla conferma di quanto teorizzato nella precedente recensione (che potete trovare qui), ossia che l’arma sepolta nel deserto è Maeve, che la ragazza della Resistenza è proprio Frankie, figlia di Caleb in cerca di vendetta, e che la loro timeline è ambientata in un presente in cui Halores ha compiuto il suo scopo. Una serie di conferme che finiscono per definire meglio anche l’incastro temporale dell’avventura di Bernard nel Sublime, nel quale si evince sia stato 30 anni, ossia da 7 anni prima della presunta morte di Caleb e, soprattutto, della “morte” di Maeve seppellita nel deserto (in cui è rimasta, appunto, per 23 anni).

In un episodio che è già tra i più poetici manifesti della filosofia determinista di Westworld, è cruciale (e deliziosamente metaforico) il significato della Torre. È superbo, infatti, che nella “nuova New York” di Halores la Torre venga raffigurata in quello che – come i più attenti avranno notato – è il punto esatto in cui dovrebbe trovarsi la Statua della Libertà. Un imponente simbolo del controllo (che tra l’altro è raffigurato in miniatura anche dai tanti lampioni che costellano le strade della nuova New York, quasi fossero in realtà “ripetitori” del segnale emanato dalla Torre che impone il controllo sugli umani) che prende il posto del più imponente inno alla libertà, al libero arbitrio.

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Westworld 4×04 – La Torre
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Westworld 4×04 – I presunti ripetitori della Torre

In quella riproduzione (dis)umana di “parco al contrario” in cui potrebbero essere gli host a “giocare” con gli umani tenuti sotto controllo dalla Torre, vive Christina. Come ogni ipotetica versione della Dolores icona di Westworld, anche qui Christina recita involontariamente l’ingenuo ruolo di un “piccolo principe” alla scoperta di ciò che però non può vedere. All’innocuo sussulto che lo spettatore ha al momento dell’iconica battuta “significa qualcosa per te?” (“does that mean anything to you?”), segue l’evidenza che Christina non può effettivamente vedere la Torre oggettivamente posta al capezzale della New York che fu.

Torna utile, a tal proposito, analizzare i comportamenti del vecchio vagabondo nel primo episodio di questa stagione, il quale sembrerebbe esporre nei suoi deliri il fatto di essere l’unico in grado di sentire e vedere la Torre. Come rivelato da Halores a Caleb durante il fidelity test, il morbo delle mosche ha avuto difficoltà ad attecchire sulle menti già plasmate, quindi sugli adulti, e ha dovuto attendere una generazione – partendo dai bambini – per la diffusione dello stesso. Dando quindi per assodato che la timeline di Christina sia quella del presente, ossia quella di una New York ormai controllata dalla Torre, il mondo che vediamo è riempito da esseri umani controllati che, come con gli host incapaci di percepire ciò che metteva in dubbio la loro natura nel parco, non sono in grado di vedere ciò che li controlla. L’età avanzata del vagabondo sarebbe la prova del fatto che il morbo non ha attecchito, ragion per cui quest’ultimo è in grado di vedere la Torre.

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Westworld 4×04 – Christina (Dolores) e Teddy

Nell’innocua sensualità del nostalgico passo a due tra Christina e Teddy risiede l’ultima metafora dell’inferno negli “altri”. Nel trascendentalismo di un amore quasi iperuranico, esistente in una dimensione che diventa solo vago ricordo, e genera la tenera tensione dell’equivoco che colora la splendida conversazione tra i due, fatta di frasi ricorrenti e trepidanti esitazioni. L’”altro” stavolta è Teddy, che potrebbe essere uno degli host insoddisfatti dal Sublime di cui parla Akecheta nell’episodio precedente, tornato nel mondo “reale” con lo scopo di rompere il loop di Christina, riportandola all’inferno di una realtà “dolorosa” come quella di Dolores.

Siamo condannati a essere liberi, ed è esattamente questa la ragione per cui il nostro inferno sono gli altri. Quelli cui decidiamo deliberatamente di dare potere, di spogliarci con uno sguardo altrimenti innocuo. Quelli che a volte non sono neanche realmente “altri”. 
L’inferno sono gli altri, quelli che creiamo col nostro stesso cinico sguardo giudice.

La vita è così fragile che, se la osserviamo troppo, si spezza.

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