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Westworld 2×08 – L’amore imprigionato nel Labirinto

«Bring yourselves back online.»
«Tornate in linea»

Siamo così bravi a trasformare gli oggetti in noi stessi. In quello che viviamo.
Trasmigriamo in loro come fosse un rifugio sicuro, una promessa di immortalità incerta ma ineluttabile.
Perfino Orfeo aveva trovato nella sua lira un limbo nel quale stanziare, affascinato a prima vista dalla possibilità di sopravvivere al tempo attraverso le note del suo coccolato oggetto.
Allo stesso modo, l’obliosa necessità di conoscere il vero ha condotto Akecheta, protagonista di questo ottavo episodio di Westworld, a un oggetto che ha liberato il fragore del dubbio.
Akecheta trova il Labirinto, un banale orpello il cui fascino diventa ossessione e piacere del mistero.
Trova il dubbio, lo spiazzante intreccio di scelte che conducono a un centro.
Del dubbio si innamora più che della sua realtà, fino a quel momento inconfutabile, ma non più di ciò che ha deciso essere una parte di sé.
Ciò in cui “si è trasformato” donandovi una parte, seppur non deliberatamente: la sua amata.

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Stavolta è l’Uomo in Nero ad aprire l’episodio disteso in terra col volto che bacia il suolo, in riva al fiume, analogamente all’apertura di stagione che vede protagonista Bernard.
Sia lui che Maeve, anch’essa distesa su un lettino in fin di vita, vengono traghettati verso un destino che nonostante le migliaia di codici predefiniti non è mai stato così deterministico: la somma delle loro azioni diventa ora un risultato, antistante l’un l’altro.
Se quella di Maeve, malgrado il tragico sviluppo, continua a essere la titanica scalata degli ambiziosi androidi (o androgini?) verso l’Olimpo di Zeus, quella de l’Uomo in Nero diventa l’assillante discesa negli Inferi, dove viene condotto da chi ironicamente si scopre essere sempre stato in possesso della risposta da lui agognata, ma dai quali ha sempre parlato una lingua diversa. In ogni senso.
La stessa discesa che fraziona il simbolico cammino di Akecheta.
È così che la mitologia greca si fonde, ancora una volta, col dramma cibernetico di Westworld.

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Akecheta, come Orfeo, conduce un percorso a cavallo tra il mondo e ciò che è sottogiacente.
Un percorso che comincia con un “dono”, appunto.
La lira offerta da Apollo a Orfeo diventa per Akecheta il Labirinto, involontario lascito di Arnold.
Dalla gelosa e dedita custodia del dono, nel mito scaturisce la suggestione di massa, la lieta ammirazione per l’uso che Orfeo fa dell’oggetto; allo stesso modo, Akecheta “risveglia” gli altri host solo coccolando il suo amuleto, concretizzando lo sviluppo idiomatico della psicologia che è tipico della tragedia greca.
Ma la programmazione di Akecheta viene ritoccata, detratta dalle molteplici possibilità di un protagonista ignaro, e con la casualità che è indebita a un androide si trova a capeggiare e “liberare” la Ghost Nation come Orfeo alla spedizione degli Argonauti.
Tra storia («Prima il mio cammino era molto diverso. La mia casa era piena di pace») e teosofia oscillano le mai casuali battute del nativo americano, che per quasi tutto l’episodio sembrano fare da orgogliosa eco alla presente appartenenza a una terra che caratterizza un’etnia, e rafforza una personalità empatica come quella di chi è stato ingiustamente privato della propria identità.
Il concetto teosofico della ricerca della verità attraverso un oggetto viene apostrofato grazie ad alcune battute, e scandito chiaramente nelle affermazioni di chi diventa protagonista sopraffatto: «Poi ho trovato qualcosa che avrebbe cambiato la nostra vita».
Tale affermazione culmina nella più simbolica tradizione totemica indiana, tanto cara anche alla mitologia del capostipite Twin Peaks (che racconta dei nativi americani come i primi fruitori di conoscenza soprasensibile attraverso il misterioso ritrovamento di un anello).

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Ma se il totem diventa il parassita portatore di un ricordo mai avuto, il viaggio che Akecheta sceglie di affrontare è una pista di scelte che si ripetono per somigliare al passato, e che gli impediscono di dimenticare in quale cuore è trasmigrato quando, per la prima volta, ha “subìto” una scelta che non ha mai avuto voglia di mettere in discussione.
Per questo non può dimenticare Kohana, dismessa dalla Delos con la stessa tragica fulmineità di Euridice uccisa dal morso di un serpente.
È l’amore imprigionato nell’antefatto di un Labirinto a liberare il culmine della metafora: nel ricordo sbiadito (per il poco tempo passato insieme, per Orfeo; per l’attribuzione a una vita passata, per Akecheta) di una donna, i due viaggi diventano una delicata e perfetta sovrapposizione.
Afflitti dal dolore, entrambi intraprenderanno un cammino oltre ciò che è dato conoscere, nella speranza di riportare in vita la propria amata.
Quel substrato che inizialmente Akecheta aveva potuto soltanto assaporare dall’esterno con occhio curioso prende le sembianze dell’Ade greco.
Incoraggiato dal tarlo del dubbio, innestato dal rassegnato delirio di Logan, ora Akecheta giunge ai confini di un mondo che era convinto si sarebbe stancato di prolungarsi lungo l’infinito, con un’ostinazione che rammenta la simile impresa cinematografica di Truman agli ingannevoli confini del suo Truman Show.
Giunto al pedice del mondo, come Orfeo usa l’oggetto della sua consapevolezza per ammaliare Cerbero con la sua musica, così l’indiano usa la coscienza per capire che, come in uno shakespeariano Romeo e Giulietta, sarà la morte a condurlo dove desidera.

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Negli Inferi Orfeo incontrerà Ade che, incantato dalla musica della lira, concederà alla coppia di tornare al mondo a una sola condizione: Orfeo non dovrà mai più guardarsi alle spalle.
Con i suoi nervi d’arpa, Akecheta incanta Ford.
Il Dio di Westworld percepisce la sua “gioia malata di universo”, e affascinato dagli effetti della sua stessa creazione lo lascia andare.

Allora, nel suo volto letteralmente diviso a metà tra l’oscurità e la luce, ad Akecheta non resta che riaddormentarsi piangendo, privato anche della fortuna di Orfeo. La fortuna di una possibilità.

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Ma Ford afferma di aver programmato Akecheta per essere curioso, e quella che può essere una fortuna per l’uomo diventa un dolore risparmiato all’androide.
Akecheta non soffrirà la perdita dell’amata per sua stessa colpa, come invece è destinato a fare Orfeo.
Non la perderà ammirando l’alba e guardandosi curioso alle spalle per condividerla con lei.
Akecheta sarà più audace di così, e si trasformerà in ciò che ama.
Come fosse un oggetto nel quale siamo bravi a trasmigrare.
Come fosse qualcosa da prendere e da portare per sempre via con sé.

Siamo così bravi a trasformare gli oggetti in noi stessi. In quello che viviamo.
E come fosse un oggetto, a volte ci impossessiamo di un cuore.
Akacheta e Kohana, amanti ormai pendolari, l’hanno rubato l’un l’altro e si sono trasformati in esso.
Suggellando una promessa che fa: “Prendi il mio cuore quando te ne vai”.

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