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ATTENZIONE: nel seguente articolo possono essere presenti spoiler su The Waterfront.
In un paesino della Carolina del Nord, dove il pesce puzza dalla testa e la famiglia è un concetto molto, molto discutibile, i Buckley provano a tenere in piedi un impero ittico ormai in decomposizione. Nel farlo, si tradiscono, si pugnalano (a volte metaforicamente, altre meno), trafficano droga, fanno sesso con chi non dovrebbero, si insultano e, ovviamente, ogni tanto si dicono andrà tutto bene. Spoiler: non andrà bene un bel niente. Anzi, andrà sempre peggio, se possibile.
The Waterfront, serie Netflix uscita il 19 giugno, è l’ultima creazione di Kevin Williamson, già padre di Dawson’s Creek, Scream e The Vampire Diaries. Otto episodi che mescolano criminalità, faide familiari, segreti, incroci sentimentali, vendette e colpi di scena a raffica. Il tutto condito con quella sapienza narrativa da soap opera 2.0 che sa benissimo cosa sta facendo: intrattenere. E basta. Il che, sia chiaro, non è un difetto. A patto di sapere cosa si sta guardando.
Chi cerca una nuova Breaking Bad, una nuova Ozark resterà deluso. Qui siamo di fronte a una versione balneare di Dallas, con meno petrolio e più droga. Chi si accontenta, invece, di un buon piatto condito con drama, eccessi e qualche morte ben coreografata, qui troverà pane per i suoi denti. O aragosta, se vogliamo restare in tema.
The Waterfront: tali padri…

Al centro della serie ci sono i Buckley, potentissima (ex) dinastia del pesce locale e dinamo di tutti i guai della cittadina immaginaria di Havenport, North Carolina. Il patriarca Harlan (un sempre magnetico Holt McCallany) ha un paio di infarti sulla schiena, una bottiglia sempre in mano, una libido inossidabile e mantiene più segreti di un confessore. È uno di quei personaggi che non si redime mai del tutto, che non fa mea culpa, ma che in qualche modo finisce per catalizzare la scena ogni volta che entra in campo.
La moglie Belle (Maria Bello, elegante e velenosa al punto giusto), è quella che apparentemente tiene le redini della famiglia. Ma attenzione: qui nessuno è quello che sembra, e la calma apparente di Belle nasconde accordi sottobanco, trattative con clan rivali e una certa voglia di rivincita personale. Tra Harlan e Belle il matrimonio è una questione molto complicata. Si amano. Si odiano. Si prendono. Si mollano. Litigano e si caverebbero gli occhi ma hanno prestato giuramento e finché la morte non li separerà potete star certi che nessuno riuscirà a separarli davvero.
…tali figli
I due hanno un paio di figli che non brillano. Cane (Jake Weary), il rampollo dal nome già minaccioso, entra nel narcotraffico come altri entrano in palestra: con la convinzione di fare qualcosa di utile, ma senza reale preparazione. È la classica ex promessa del football, innamorato della sua ex compagna di liceo che finisce per sposarne un’altra. Idealista fino a un certo punto, confuso per tutto il resto, rappresenta il prototipo del maschio post-patriarcale: vuole fare il duro ma ha bisogno di essere guidato.
Bree (Melissa Benoist), la sorella, dopo una vita di dipendenze, colpe, scelte sbagliate e incendi domestici non proprio accidentali ha perso la custodia del figlio. Lavora nel ristorante di famiglia e combatte ogni giorno contro se stessa. È in cerca di redenzione. Come? Diventando l’amante di un agente della DEA (Drug Enforcement Administration) che cerca di incastrare suo fratello e suo padre. Simpatica, no?
Nella famiglia c’è posto per un figlio illegittimo di Harlan (Shwan, interpretato da Rafael Silva) che compare all’improvviso, non si sa perché, scegliendo il momento peggiore. E poi, per fortuna, c’è Peyton (Danielle Campbell), la moglie di Cane. Una figura che parte in sordina, con il suo aplomb da donna del Sud, ma che col tempo sembra quella su cui davvero si può contare. Furba, calcolatrice, perfettamente consapevole di cosa le serve per sopravvivere in quel nido di vipere che sono i Buckley. Quando entra in scena, non urla. Ma cambia le regole del gioco. Per il suo tornaconto e non per quello della famiglia cui è legata.
The Waterfront: funziona, certo, ma…

Il cast è azzeccato. McCallany e Bello portano sulle spalle intere scene con una presenza scenica da cinema classico (di qui il rimando a Dallas e Dinasty. Le versioni originali, però…). Anche Melissa Benoist regala momenti sinceri, anche quando la sceneggiatura le chiede di muoversi sul crinale del melodramma puro. Jake Weary ha davvero il physique du rôle, con quella faccia un po’ smarrita, un po’ da pugile suonato. E Danielle Campbell riesce nell’impresa non banale di restare credibile nonostante le poche scene. Lascia il segno perché il suo personaggio è quel tipo di donna che ha dovuto conquistarsi ogni centimetro del suo spazio, e adesso che ce l’ha, non ha alcuna intenzione di cederlo. Una presenza silenziosa ma strategica, come chi sa esattamente dove colpire per cambiare l’equilibrio delle cose.
La messa in scena è curata, la fotografia scalda il paesaggio con quel tono da Southern Gothic in salsa Netflix, e la regia di Marcos Siega e Liz Friedlander non fa errori grossolani. Il ritmo tiene, gli episodi scorrono e non ci si annoia mai. C’è sempre una porta da aprire, una verità da scoprire, un cadavere da smaltire.
…perché un ma arriva sempre!
The Waterfront è una serie che vive in bilico tra il melodramma familiare e il noir rurale, e non sempre trova l’equilibrio. Ogni episodio è un susseguirsi di morti trucide, tradimenti clamorosi, rivelazioni da far impallidire Beautiful. Sembra che l’unico criterio per la scrittura sia: e adesso facciamo succedere QUALCOSA. Una roba qualsiasi, purché succeda.
Il problema non è l’assurdità degli eventi: quello, anzi, è parte del divertimento. Il problema è che a furia di stratificare eventi e sorprese, la narrazione si gonfia come una cima mal annodata, che alla fine non tiene più nulla insieme. Tutti i personaggi sembrano in corsa per il titolo di più disfunzionale dell’anno. È come se la sobrietà fosse stata bandita dagli sceneggiatori per decreto.
E la parte crime?

In teoria centrale, la parte crime viene quasi trattata come un incomodo. La DEA c’è, ma non incide. Lo sceriffo prima si scopre essere la mente, poi quando sostituito, diventa il braccio. Gli omicidi fioccano, ma nessuno pare troppo interessato. In altre serie del genere almeno si intuiva un contesto: qui sembra tutto così lasciato al caos che si inizia a pensare che Havenport non sia negli Stati Uniti, ma in una dimensione parallela dove la giustizia è un optional.
La sospensione dell’incredulità viene spinta a livelli cosmici. Si muore come mosche, ci si tradisce peggio di Shakespeare, ma tutto fila liscio. C’è chi manovra partite di droga come se stesse gestendo una pescheria di quartiere e chi tramanda segreti familiari come se fossero ricette di famiglia. E ogni volta che qualcosa fa una brutta fine (e succede spessissimo), qualcuno sussurra: andrà tutto bene. Come no.
È qui che spunta l’ironia involontaria. Il figlio che vuole prendere il comando ma ha bisogno della moglie che lo guidi, la moglie che trama col clan rivale, il figliastro che compare dal nulla ma resta perché ha fame d’affetto. Ogni cliché è spinto un po’ più in là, fino al limite della parodia. Il risultato? Una tragicommedia criminale che intrattiene, diverte, ma che chiede allo spettatore di non farsi troppe domande. Tipo: ma davvero nessuno nota che ogni due giorni salta per aria un peschereccio con dentro un cadavere?
The Waterfront: un guilty pleasure con la licenza di esagerare
Diciamocelo: The Waterfront non è la serie che rivoluzionerà la televisione, ma nemmeno quella che vi farà pentire di aver premuto play. Se la si prende per quello che è, un melodramma criminale che ama esagerare, ci si può perfino affezionare al suo caos calcolato.
È quel tipo di racconto che si infila perfettamente in una serata estiva: un po’ melodramma, un po’ noir, un po’ guilty pleasure. Ha il ritmo giusto, facce giuste, tensione giusta. Ma non chiedetele profondità, coerenza o sottigliezza. È una soap criminale che si veste da thriller di frontiera, con dentro così tanta roba da far girare la testa.
Fa sorridere nei momenti in cui dovrebbe far tremare. Fa riflettere, a volte, ma più spesso fa sgranare gli occhi per l’assurdità degli sviluppi. E va bene così. Perché sa cosa vuole essere e lo fa con convinzione. È la versione Netflix di un libro da spiaggia: patinato, caotico, irresistibilmente sopra le righe.
Se vi mancano Dawson’s Creek e Sons of Anarchy, The Waterfront potrebbe essere il compromesso estremo che non sapevate di volere. E se invece cercavate Ozark… be’, forse cambiate molo.