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Perché dovreste recuperare Stateless, la miniserie creata da Cate Blanchett con Yvonne Strahovski

Uscita nel 2020, Stateless è una miniserie di sei episodi intensa, dolorosa ma allo stesso tempo meravigliosa che purtroppo è rimasta all’ombra delle leccornie presenti nel catalogo Netflix. Sarà per il delicato tema che affronta (i centri di detenzione degli immigrati in Australia) o per altri motivi misteriosi, ad ogni modo questo breve racconto di denuncia, creato, prodotto e interpretato da Cate Blanchett, insieme a Tony Ayres e Elise McCredie, è rimasto in disparte; proprio come è accaduto a Mrs. America, un’altra serie voluta e interpretata dall’attrice australiana. Stateless, ovvero senza stato, o apolide, secondo la legge australiana è la condizione che si applica a tutti coloro che sono sprovvisti di un permesso regolare e quindi devono essere trattenuti in un campo di detenzione fino a quando non sarà stata chiarita la loro posizione. Attraverso un racconto dalle sfumature kafkiane, la miniserie dimostra quanto poco sappiamo sul sistema di detenzione degli immigrati in Australia – una terra spesso idealizzata – ma che forse conosciamo ancora meno quello in vigore nel nostro Paese. La serie s’ispira alla vera storia di Cornelia Rau, che nella finzione diventa Sofie ed è interpretata da Yvonne Strahovski, Serena Joy in The Handmaid’s Tale. Quanto è accaduto alla ragazza australiana, incarcerata illegalmente per dieci mesi fra il 2004 e il 2005, ha portato finalmente allo scoperto l’operato dei centri di detenzione, fino a quell’incidente considerati esemplari, rivelando un sistema inumano e degli ingranaggi burocratici difettosi.

La miniserie ABC, oltre alla qualità elevatissima e alla tematica tristemente attuale, racchiude in sé tutto quello che una storia dovrebbe contenere. Se l’avete malauguratamente persa, senza fare spoiler, vediamo subito di cosa parla e perché dovreste mettere in pausa qualunque rewacth stiate facendo e correre a vederla.

Una storia vera, vissuta da molteplici punti di vista

Stateless

Stateless racconta le storie di quattro sconosciuti – più tanti interessantissimi personaggi “di contorno”, scritti e interpretati altrettanto bene – che s’intrecciano casualmente al centro di detenzione per immigrati clandestini di Barton, un luogo dimenticato nell’assolato deserto australiano. Ameer (Fayssal Bazzi) è un rifugiato afghano in fuga con la sua famiglia dalla persecuzione; Cam Standford (Jai Courtney), australiano, è anch’esso in fuga, ma da un lavoro sottopagato e desidera solo dare alla sua famiglia un futuro migliore; Claire Kowitz (Asher Keddie), è la funzionaria mandata a indagare sui metodi lavorativi del centro di detenzione, recentemente coinvolto in uno scandalo. Al centro della vicenda c’è Sofie Werner – interpretata dalla sorprendente Yvonne Strahovski – un’assistente di volo benestante con una famiglia in apparenza oppressiva, la quale per dare un senso alla sua vita è finita nelle grinfie di un gruppo di auto-aiuto chiamato GOPA (ispirato alla reale KENJA Communication), mascherato da scuola di danza che altro non è che una setta, al cui vertice c’è il viscido Gordon (Dominic West) e sua moglie e partner Pat (Cate Blanchett). Come ci è finita una donna bianca, benestante e cittadina australiana in un centro di detenzione per immigrati clandestini circondato da una distesa di sabbia rossa? Come ha fatto a restare in questo non-luogo per mesi senza che nessuno si accorgesse di lei? Queste domande sono alla base della narrazione e permettono di sviscerare dei problemi più complessi, come i pregiudizi raziali oppure il dibattito sui privilegi e sui diritti umani che qualcuno acquisisce per nascita mentre qualcun altro parte da una condizione di perenne svantaggio. Le performance di tutto il cast sono da pelle d’oca e in particolare quella di Yvonne Strahovski è avvincente, ricca di sfumature e, senza svelare nulla, evolve in una maniera sorprendente e inaspettata.

I “prigionieri”

Stateless

Una volta entrati, i richiedenti asilo non sono più persone, ma diventano dei prigionieri, anche se non hanno commesso crimini. In questo limbo ci sono uomini, donne e bambini, identificati solo con un numero di serie, che fuggono da una condizione brutale per ritrovarsi sospesi in un luogo altrettanto ostile dove l’unica cosa che possono fare è attendere che qualcuno si ricordi di loro. Le loro pratiche giacciono impilate sulle scrivanie degli addetti all’immigrazione che non hanno tempo di occuparsene e così queste non-più-persone restano recintate come un gregge al pascolo, senza nulla da fare. Non viene dato loro nulla da leggere e niente che possa distrarli anche solo per pochi minuti; i bambini hanno delle altalene che non possono usare perché i seggiolini sono stati rimossi per impedire che qualcuno possa usarli per scopi violenti. Così c’è chi passa il proprio tempo sul tetto con la speranza di intercettare un elicottero, chi se ne sta seduto con una valigia in mano, nel caso il visto dovesse arrivare, e chi se ne sta fermo a guardare oltre il filo spinato, covando odio e risentimento.

Cam e le guardie

Stateless

Se è facile solidarizzare con gli immigrati detenuti, è altrettanto facile detestare chi sta dall’altra parte del filo spinato, come le guardie, Cam, e i burocrati, Claire. Eppure ci rendiamo subito conto che, nonostante la loro condizione sia indubbiamente privilegiata e diversa da quella dei prigionieri apolidi, anche loro sono delle vittime consumate da un sistema impietoso e ingiusto. Un sistema che li ha trasformati, infatti l’unico modo per poter assolvere alle loro mansioni è quello di rinunciare alla componente umana. Cam, ad esempio, ha accettato il lavoro come guardia al centro di detenzione solo perché ha bisogno di soldi e spera di poter uscire presto da una vita di incertezza economica. Lo conosciamo come un bravo ragazzo, ma una volta indossata la divisa si ritrova a fare i conti con il senso di colpa e con degli istinti violenti che non sapeva neppure di avere. Uno sviluppo del personaggio agghiacciante che l’attore Jai Courtney (Spartacus – Sangue e sabbia) esegue alla perfezione contribuendo ad accrescere il valore della miniserie.

Quattro storie, un’unica considerazione

Asher Keddie

Pur denunciando la politica di immigrazione australiana, Stateless, diretta da Emma Freeman e Jocelyn Moorhouse, non è un’inchiesta e non va approcciata come tale. Anche la storia vera di Cornelia Rau funge solo da pretesto, infatti è stata liberamente rivisitata. La serie è stata acclamata per le sue indubbie qualità artistiche, ma è stata criticata fortemente da chi si aspettava un racconto dettagliato sui meccanismi dell’amministrazione australiana e sulla crisi dei rifugiati e da coloro che hanno avvertito la presenza predominante del “punto di vista dei bianchi”. Le critiche non sono prive di fondamento, ma con molta probabilità l’intento dei creatori non era quello di offrire una documentazione dettagliata in stile docu-inchiesta, bensì quello di sensibilizzare l’opinione pubblica australiana cosiddetta “bianca”, scuotendo le coscienze con una storia potente. Incentrare la vicenda su Sofie, la quale finisce negli stessi ingranaggi in cui la burocrazia risucchia i rifugiati provenienti da nazioni che calpestano i diritti umani, è un modo per permettere allo spettatore “bianco” di vivere la storia in prima persona e di sentire il peso dell’ingiustizia in quanto, come dimostrato, anche un australiano regolare può finire stritolato da un meccanismo cieco e ingiusto. Come sottolinea il New York Times:

Mentre la serie è ben fatta, ben recitata e carica di buone intenzioni, è probabilmente meno interessante come social-drama e dimostra quanto anche “le Cate Blanchett del mondo” devono faticare per poter realizzare un dramma sui problemi sociali. Un problema che è stato risolto ricorrendo alla narrazione su quattro fronti.

The New York Times

Raccontare un tema caldo e controverso come quello dell’immigrazione irregolare è un’operazione piena di insidie, che nel migliore delle ipotesi sfocia nel moralismo e nel pietismo. Nonostante le critiche amare, non c’è dubbio che Cate Blanchett, e il team di scrittura composto da Elise McCredie e Belinda Chayko, siano riuscite in un intento impossibile confezionando un racconto emozionante ma mai retorico. In questa storia non ci sono né buoni né cattivi, né vittime né carnefici ed è impossibile schierarsi da una sola parte, perché ogni storyline racconta di una persona esausta che cerca di fare quel che può per rendere la sua vita quanto meno sopportabile. Stateless dimostra che nasciamo tutti uguali, ma agli occhi della Legge non lo siamo veramente. Tutte le storie raccontano di un’anima perduta, impaurita, che insegue solo la voglia di riscatto, anche se per i cittadini di serie B sembra non esserci mai via di scampo.

Cate Blanchett

Cate Blanchett

L’ultima motivazione per recuperare Stateless è lei: Cate Blanchett, attrice e produttrice australiana da tempo impegnata nella tutela dei diritti umani e ambasciatrice per le United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) dal 2015. Come accade in Mrs. America (2020), anche in questa occasione l’attrice ha scelto per se stessa un ruolo controverso, e in questo caso marginale, come quello di Pat: una truffatrice abile nella manipolazione che gestisce un finto gruppo di auto-aiuto al quale gli iscritti versano una quota settimanale di 400 dollari australiani. Nonostante appaia in pochissime scene, Cate Blanchett ci regala un’interpretazione intensa e strabiliante dove addirittura canta e balla.

Sebbene la voce dei “prigionieri” poteva essere resa con più autenticità e le loro vicende avrebbero meritato un approfondimento meno sbrigativo, Stateless riesce comunque a far provare a coloro che hanno avuto il privilegio di nascere “dalla parte giusta” del mondo la sensazione di essere apolidi, non-più-persone sospese in un limbo dove non si hanno certezze e dove il proprio destino è affidato a una burocrazia inumana, folle e difettosa. Come fa notare l’attore Fayssal Bazzi (Ameer), Stateless dà un volto umano ai numeri e alle statistiche, dimostrando che quel sistema non funziona per nessuno. Quindi, forse, privilegiare il punto di vista “bianco” è stata una scelta strategica per far sì che la persecuzione dei richiedenti asilo non fosse più solo un problema dell’altro, ma un problema universale, urgente per tutti.

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