ATTENZIONE! L’articolo contiene SPOILER della terza stagione di Squid Game.
Se si deve giocare, bisogna decidere tre cose in partenza: le regole del gioco, la posta in gioco, e la durata.
(Proverbio cinese)
Siamo già di ritorno nel parco giochi più spaventoso del mondo, persino più terrificante di quelle montagne russe della morte di Final Destination 3. E “della morte” non è un modo di dire. L’ultima stagione di “Squid Game” fa, dunque, la sua apparizione sulla piattaforma Netflix con un finale che spiazza, divide e chiude un cerchio, anzi un triangolo. Di fronte all’influenza culturale che ha suscitato lo show coreano nel panorama seriale, diventa allora impossibile non valutare questa terza stagione all’interno dell’arco narrativo complessivo, oltre che in sé e per sé. La prima domanda, impossibile da non porsi prima, durante e dopo la visione è: c’era davvero bisogno di una terza stagione?
La risposta è ni. Perché se da un lato, un’ultima stagione che proponga nuovi giochi, che sbrogli i nodi e regali una conclusione era cosa buona e giusta, dall’altro questa terza stagione ha più il sapore di una 2B. In questo senso risulta molto ambigua la scelta di Netflix nel voler dividere in due metà una stagione che poteva tranquillamente essere rilasciata sulla piattaforma per intero.
La terza stagione soffre principalmente due fattori. Il primo è il tempo. Quel vecchio infame con la barba lunga, il mantello di stelle e l’orologio in mano è un dio rancoroso che non prova pietà alcuna. Si è certamente noto per guarire tutte le ferite (o quasi), ma anche per annebbiare la nostra memoria giorno dopo giorno. Nel mondo della serialità contemporanea, poi, il tempo è un avversario da non mettersi contro. A distanza di soli sei mesi dall’uscita della seconda stagione, abbiamo la spiacevole sensazione che proprio questo lasso di tempo abbia giocato un ruolo determinante nella percezione e ricezione dell’ultima stagione.
Squid Game 3 arriva con grande attesa, salvo poi venir dimenticato da un pubblico di pesci rossi.
Dopo tre anni di attesa da quella inarrivabile prima stagione, Squid Game non sorprende più, caduta ormai nella trappola del consumismo occidentale. Un ingozzarsi incessante di falsi desideri e stereotipi che vengono alimentati dalla saturazione di “dreck”, vale a dire quei contenuti algoritmicamente conformi al minimo comune denominatore, a discapito di voci originali e indipendenti. L’MCU docet. Allora anche Squid Game fa un grosso scivolone nel lasciare così tanto e poco margine, allo stesso tempo, tra la seconda e la terza stagione e, soprattutto, nel non distinguerle in maniera netta. Qui si incastra il secondo fattore: la personalità. La seconda stagione (da molti criticata, ma che noi abbiamo difeso nella nostra recensione) trova una nuova chiave di lettura. Laddove la prima stagione si aggirava dalle parti del thriller distopico, la seconda virava nella direzione del dramma sociale. I giochi erano di simile crudeltà, ma le priorità apparivano molto diverse.
Persino le dinamiche tra i personaggi mostravano un grado di empatia maggiore rispetto al passato, per non parlare della straordinaria introduzione di In-ho nell’arena e del suo ruolo oppositivo a quello del protagonista Gi-hun. Ecco, la terza stagione non è altro che un’appendice di tutto ciò. Procede lentamente per sei puntate che affondano nelle sabbie mobili dell’action thriller, salvo poi donarci una conclusione per i posteri.

L’ultimo gioco
A 456 persone viene offerto di partecipare a sei giochi, alla fine dei quali il premio in palio è 45,6 miliardi di won. Una somma ingente, che permetta loro di pagare innumerevoli debiti e ricominciare da capo. Non hanno la minima idea di chi abbia organizzato questo infelice torneo, né tantomeno in cosa consistano i giochi in questione. Con questa premessa, Squid Game aveva spiazzato pubblico e critica, imponendosi come la serie tv più vista nella storia di Netflix e come un unicum nella serialità post Gold Era. Il gioco diventa metafora della spietatezza umana, della sua intrinseca crudeltà animalesca che, in assenza di regole e norme sociali, è libera di sfogarsi. Nella sua concezione più classifica, viene totalmente stravolto, messo al servizio di una denuncia sociale. Il gioco è gratuito, creativo, autotelico. Il bambino gioca perché ne ha desiderio, non per ottenere qualcosa in cambio.
Lo scrittore e sociologo Roger Caillois ha offerto una delle classificazioni più influenti e ancora oggi usate per comprendere il fenomeno del gioco.
La sua proposta riconosce che il gioco non è un fenomeno unico, ma molteplice, attraversato da forme molto diverse. Per Caillois, i giochi possono essere compresi secondo quattro grandi categorie principali, a cui si aggiungono due dimensioni trasversali. La prima categoria è l’agon (la competizione), che include tutti i giochi in cui la competizione e l’abilità personale determinano il successo. L’esito dipende dalla prestazione dei giocatori, secondo regole condivise e condizioni di partenza il più possibile equanimi. L’obiettivo è la vittoria, raggiunta attraverso merito e abilità. “Nascondino” o “Il tiro alla fune” sono esempi lampanti.
La seconda categoria è l’alea (la sorte). In questi giochi, il risultato non dipende dalla bravura o dall’impegno, ma unicamente dal caso. Come per “Ddakji” o “Dalgona”, il giocatore si affida al destino, accettando l’imprevedibilità come parte costitutiva del gioco. In mimicry (l’imitazione o finzione), il gioco è un atto di identificazione immaginaria. Il giocatore assume un ruolo, si trasforma in un altro e vive situazioni fittizie, rendendo l’esperienza quanto più immersiva e simbolica possibile. Infine Caillois parla di ilinx (la vertigine), una categoria in cui sono inseriti giochi che producono alterazione della percezione e dello stato cosciente, tramite movimento, disorientamento, sensazioni forti. Il piacere deriva dal perdere momentaneamente il controllo.

Controllo, competizione e crudeltà
La società diseguale e spettacolarizzata di Squid Game perverte il concetto stesso di gioco, sfruttando le categorie di Caillois per ripensare i giochi più classici della nostra infanzia. Ed è stata propria questa la carta vincente della serie tv sudcoreana, dai tempi di “Red Light, Green Light” fino ad arrivare agli ultimi giochi della terza stagione. “Nascondino” e “Il salto con la corda” ci riportano al tempo della giovinezza, alla ricreazione nel cortile della scuola, ai pomeriggi d’estate. Un immaginario di innocenza che viene brutalmente scosso, preso a pugni e accoltellato più e più volte, con il solo scopo di turbarci nel profondo.
C’è un momento preciso, durante la visione della serie, in cui mi è venuto in mente il recente discorso di Roberto Benigni a Propaganda. Ora, al di là di quello che sia la personale opinione in merito al regista e comico, rimane indubbia la veridicità del suo commento. Lui dice che quando si giocava da bambini “alt gioco” era il linguaggio universale per smettere. Niente di più vero. Due parole che mettevano la parola fine al gioco, che ci riportavano alla realtà con immediatezza e facilità. E solitamente quando succedeva? Quando qualcuno si faceva male o non si trovava più a suo agio.
In Squid Game il male, sia fisico che psicologico, è lasciato libero di diffondersi come un cancro. Nelle prime due stagioni era incarnato da singoli personaggi che minavano alla vittoria del gruppo. Nella terza stagione, invece, siamo davvero di fronte a un tutti contro tutti. Non c’è più “solo” Thanos a causare disordine e generare violenza, adesso sono tutti antagonisti della storia.
E lì, in alto, a manovrare i giochi troviamo In-ho, demiurgo dell’arena.
Il problema della terza stagione, tuttavia, è che si perde nella sua stessa retorica. La crudeltà ha smesso di scioccare, la critica è ridondante, la morale è banale. L’umanità è egoista, meschina, disposta persino a uccidere a sangue freddo una neonata per impadronirsi di un lauto bottino. Dah? Quindi si riduce tutto a questo? Squid Game 3 tenta di enfatizzare il suo racconto introducendo un nuovo e inaspettato contendente e qui apriamo un vaso di Pandora senza fondo. Il dramma sociale è a un passo dalla caricatura.

La caduta dell’eroe
Seong Gi-hun incarna l’archetipo per eccellenza dell’eroe: dalle umili origini al viaggio irto di pericoli, fino alla presa di coscienza del proprio ruolo. Dopo aver vinto i giochi nella prima stagione, Gi-hun decide di fare ritorno nell’arena per distruggere il sistema dall’interno e porre fine all’incubo capitalista. Senza mai venire meno alla propria morale, il protagonista sopravvive ai giochi, aiutando allo stesso tempo gli altri giocatori e convincendo alcuni a ribellarsi.
La terza stagione riprende esattamente da dove si era conclusa la seconda. La ribellione è stata sedata, i soldati hanno ucciso i giocatori che si erano schierati con Gi-hun e In-ho ha rivelato la sua vera identità in pieno stile Darth Vader. Gi-hun viene risparmiato e riportato al dormitorio, ormai distrutto nel fisico e nello spirito. Divorato dai sensi di colpa e dalla vendetta, Gi-hun precipita. La caduta dell’eroe è un altro fondamentale tassello del viaggio, ma lì in fondo al pozzo la redenzione è ancora possibile. Incalzato dal Front Man, deciso a piegarlo a ogni costo, Gi-hun vacilla più e più volte, cedendo all’ira e alla violenza. Eppure la fine non è ancora scritta e con un ultimo colpo di coda, il protagonista dimostra ancora una volta che non tutto è perduto.
Il mondo è un luogo oscuro, cattivo e (forse) insalvabile come ci ha tenuto a precisare Squid Game, ma non è ancora detta l’ultima parola. E siamo certi che con lo spin-off americano in arrivo firmato da David Fincher i giochi non si siano ancora conclusi.