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Better Call Saul 6×12 – Breaking down

Crolla, breaking down, una colonna in questa 6×12 di Better Call Saul. La colonna portante di un impero, il simbolo di una maschera che sembrava aver avuto la meglio su tutto. Crolla, quella colonna, senza far rumore perché non è massiccia, non ha peso: è vuota, finta, di gomma, come la maschera di Saul Goodman. Basta un attimo per ritirarla su, per rimettersi la maschera, tornare agli inganni e dimenticare quel breakdown.

Better Call Saul

È il breakdown di un matrimonio finito, dei fogli di un divorzio che poggiano accusatori e definitivi sul tuo tavolo mentre tenti di trovare il coraggio di rimetterti quella maschera, di tirare di nuovo su la colonna che regge tutta la messinscena e tornare a essere Saul Goodman davanti all’amore che hai perso per sempre. Ti metti la maschera davanti a Kim fingendo che vada tutto bene, fingendo che “S’all good man” e inizi a recitare la tua parte. Piazzi sul tavolo la pacchiana statua della giustizia, dici “yes” con gesto ampio della mano mentre la porta si apre e innesca un jingle patriottico, fai tante faccette mentre sei a testa china sul telefonino, firmi il divorzio -quel tremendo divorzio- con tentata nonchalance e avvii una conversazione apparendo il più sciolto possibile prima di concludere il tutto con un augurio di “bella vita” rivolto alla donna che hai perduto per sempre, e un epiteto sessista (“chiappe dolci“) a Francesca.

La colonna è tornata su, il breakdown passato, almeno per ora.

Tornerà di nuovo, nel tempo del bianco e nero, nel tempo di Gene, ancora una volta, inevitabilmente causato da Kim, da quel residuo del fu Jimmy McGill che non vuole ancora abbandonare Saul Goodman. In quella chiamata, che ora possiamo ascoltare e che conferma le anticipazioni che vi avevamo dato, c’è tutto il senso di un’amore perso. Gene prova a rievocare la complicità passata, tutta basata sulla furbizia di entrambi, prova a ridestare Kim (“Hey, sei sveglia!“), o meglio Giselle, la sua complice e amante.

Kim Wexler

Fammi sapere che sei ancora viva, dì qualcosa“, supplica Gene. Vuole riaverla per un istante, togliere la grigia maschera che è costretto a portare ed emozionarsi di nuovo in piani da mettere in piedi con la sua amata. Sogna di trovare con lei un modo di scampare al grigiore, di risolvere l’impasse nel quale si trova. Sembra urlare: Kim, sono vivo! Sono io! Sono qui! Cosa ci impedisce di riunirci? Ma qualcosa che li allontana irrimediabilmente, che li colloca nel caldo della Florida e nel gelo del Nebraska, c’è: è la distanza morale che Gene non può, però, capire.

Kim è fuggita. Fuggita dal dolore, dalla colpa, dagli inganni. Per lei, nonostante il caldo sornione della Florida, però, non c’è altro che il bianco e nero. Un bianco e nero che lei stessa si è imposta come autopunizione per le sue colpe e come forma di allontanamento da ogni emozione e sentimento. Kim sceglie di non vivere, di rifugiarsi nella negazione di sé stessa, nel grigiore. Il suo compagno è banale, stupido (tanto da confondere la Svizzera con la Svezia), imbarazzante nel rapporto sessuale (“Yup! Yup! Yup!“). Tutto nella sua vita è convenzionale, vuoto, ordinario: dalla scelta della maionese, all’anonimo lavoro per una ditta di impianti di irrigazione. E Kim non compie mai una scelta, lo avete notato? Demanda agli altri la scelta di un surrogato della maionese, non interviene nella discussione sulla droga, non sceglie il tipo di gelato per la torta della segretaria.

Kim ha scelto di non vivere.

Si lascia trascinare da questa apatia che è l’apatia di chi è traumatizzato e non sa, e non vuole, esprimere il proprio dolore perché troppo grande, troppo pesante, troppo colpevole. E allora ci si può solo chiudere al mondo, vivere nel bianco e nero e lasciarsi vivere, incapaci, come il primo Walter White, di prendere in mano la propria vita. Inetti, remissivi, passivi. Maschere di se stessi.

BCS

Non è questa la vera Kim, e serve paradossalmente Gene a ricordarglielo. Provocata, messa di nuovo a parte delle sue colpe dal diavolo Saul (“Perché non ti costituisci tu? Cosa te lo impedisce?“) stavolta non fugge. Dà a se stessa la risposta tanto semplice quando pesantissima ai suoi tormenti: Perché non mi costituisco? Già, perché? Cosa me lo impedisce ora che sono morti tutti? La risposta è sempre semplice. È la risposta che danno Skyler e Hank a Walt, il padre di Nacho a suo figlio: è la risposta che conosce chi vive nel blu della Legge.

Nacho rifiuta la risposta, così come fa Gene in questo episodio di Better Call Saul, e come fece Walter in Breaking Bad. Ma non Kim. Per lei, come per Jesse, c’è ancora speranza di una redenzione, come ci ricorda chiaramente il cartello recante l’insegna “Alaska” (che rievoca la fuga salvifica di Pinkman nel Camino) che vediamo mentre la Wexler sbarca ad Albuquerque. Kim confessa, confessa tutto e torna a respirare. Cheryl le chiede: “Perché lo fai?“. La risposta la sappiamo già, non serve ascoltarla. È quella dei personaggi “blu” di Better Call Saul: ‘Perché lo fai?’ Perché è la cosa giusta.

Kim Jesse
Crolla Kim, crolla la maschera che aveva tirato su per proteggersi da tanta sofferenza e colpa.

E piange in un breakdown mentale di una potenza espressiva indicibile, di una sincerità che oltrepassa qualunque finzione scenica. Non è più recitazione, è realtà. Better Call Saul travalica così i limiti del palco teatrale. Lo fa con una Rhea Seehorn monumentale che piange davvero, che si erge a rappresentante vera di quel dolore reale di un personaggio fittizio.

Better Call Saul

L’ammissione di colpa restituisce Kim Wexler, e Rhea Seehorn con lei, alla vitalità di chi prova emozioni, di chi finalmente, può elaborare il dolore troppo a lungo represso. Quella mano che intravediamo, quella mano consolatoria di una sconosciuta, è il simbolo di questo perdono che ora Kim può meritarsi, che ora è giusto che raggiunga. Aveva pianto Jesse nel finale espiatorio di Breaking Bad, piange Kim nel suo riscatto morale (non piangono mai, invece, i ‘condannati’). Eppure, nella sua vita è ancora il grigiore: come fare per tornare a quel colore che sembrava possibile solo nell’eccitante pianificazione degli inganni?

Forse col ritorno all’avvocatura, a quelle cause pro bono evocate in questa 6×12 di Better Call Saul dall’immagine di un legale che assiste un anziano indigente mentre Kim osserva nostalgica. O forse nell’amore per Jimmy, per quell’uomo che sembra, però, scomparso per sempre.

Better Call Saul
Mai come in questo episodio Saul è stato vicino a superare quel confine che aveva sempre cavalcato con abilità.

Il mental breakdown di Gene, già evidente nello scorso episodio, si accentua fino all’estremo ora. Quella chiamata con Kim lo ha fatto crollare sotto la rinnovata consapevolezza che la distanza con lei è incolmabile. Per questo si è rituffato negli inganni, si è calato nuovamente nella maschera di Saul, quella copertura creata appositamente per mascherare la sofferenza che stava dietro la fine della relazione, creata per negare a se stesso il dolore. Ma non è più Saul. I suoi continui errori, il suo oltrepassare la linea a cavallo tra Legge e ingiustizia non è da Saul Goodman.

Sembra fare di tutto per essere scoperto: l’inganno portato avanti nonostante non ci fossero più i presupposti, l’effrazione e soprattutto l’incomprensibile pausa che lo blocca davanti alla porta. Gene torna indietro e perde tempo. Sembra di vedere quella che in psicanalisi è considerata la pulsione inconscia di ogni ladro: l’intimo desiderio di essere arrestato, di essere punito. Così pure si tradisce stupidamente quando dimostra a Marion di conoscere bene il sistema legale di Albuquerque.

Better Call Saul

Jimmy è il più complesso dei personaggi dell’intero universo di Better Call Saul e Breaking Bad. Non può essere equiparato a nessun altro perché in lui convivono centomila identità, pulsioni contrastanti che lo spingono ora a volere il bene ora a perseguire l’inganno. Non può costituirsi perché si costituiscono quelli che stanno al di qua della Legge. Ma non vuole neppure consacrarsi al crimine come fa Heisenberg. Sta per farlo, sta per mettere il filo al collo della povera Marion ma si blocca.

È forse il punto più basso e disumano mai raggiunto da Jimmy, la mostruosità più grande tra le tante commesse.

Ma si blocca realizzando improvvisamente quell’orrore e provandone repulsione davanti alle innocenti parole dell’anziana (“Mi fidavo di te“). E allora eccolo oscillare tra il desiderio dell’inganno, del crimine più crudele e irrimediabile (anche nel voler colpire alla testa con l’urna del povero cane defunto l’uomo raggirato ) e un ultimo residuo di morale che sembra ancora, tenacemente, resistere. Che lo blocca sul più brutto. Che gli permette di rimanere sul bordo, seppur a un passo dall’abisso che lo vedrebbe per sempre e irrimediabilmente perso.

Any good?“, chiede Jesse a Kim riguardo Saul. E sembra quasi una conversazione metafisica, come se i due personaggi che, unici, raggiungeranno la redenzione, si chiedono se anche Saul sarà dei loro. Ce lo chiediamo anche noi, se “qualcosa di buono” è sopravvissuto nell’animo di Jimmy, sotto quella coltre di inganno, autonegazione, dolore, rabbia e compromesso. “When I knew him he was“, risponde Kim. Lo era, buono, un tempo, Jimmy, o almeno in qualcosa. Un grande avvocato a cui in pochi hanno mostrato di credere, un uomo in fondo capace anche di onestà ma che progressivamente ha imparato a non avere più scrupoli (“Io lo so qual è la cosa che mi ha fermato e quella cosa non mi fermerà più, 1×10 di Better Call Saul).

Gene Takovic

Servirà un breakdown forse impossibile perché le cose possano cambiare, perché anche lui raggiunga Kim e Jesse. Più facile pensare che la sua condanna sia quel limbo di grigiore dal quale non potrà più uscire e che è tatuato a pelle nella sua personalità scissa, né buono né criminale. Nulla è Jimmy-Saul se non il grigio che sta tra il bianco e il nero, tra il blu e il rosso. La sua condanna è nella sua stessa natura.

Crolla la colonna portante di Saul Goodman, crolla sotto un inganno di troppo, sotto un desiderio inconscio di annientarsi.

Stanno venendo, breaking down, meno tutte le maschere rivelando l’essenza più profonda di ognuno. Crolla la colonna, crolla la maschera. Una coltre nera impregna l’aria di fumo. Non riusciamo a capire, non vediamo chiaramente. Se prima a coprirci la vista era una maschera ora è la polvere. Nella sabbia, non lungi di là, // Mezzo viso sprofondato e sfranto. Ci avviciniamo, strizziamo gli occhi, impazienti, mentre la polvere si dirada, mentre sta per apparirci la scena finale. Ma non è ancora il momento. Per ora, c’è solo il buio cupo dell’abisso. E iniziamo a temere che sia la sola cosa che continueremo a vedere dopo il crollo, breaking down, dell’ultimo impero, dell’ultima maschera. L’abisso di Jimmy McGill.

Curiosità sparse su questa meravigliosa 6×12 di Better Call Saul: il lavoro di Mike al gabbiotto del tribunale è stato ora rimpiazzato da un sistema automatizzato (sic!); c’è un’immagine a colori in una scena in bianco e nero: è lo spot di Saul che vediamo riflesso negli occhiali di Gene al minuto 54:40 circa; una delle somme che ha il malato di cancro truffato è di “$737,612”: 737,000 era la cifra inizialmente calcolata da Walter White in Breaking Bad per garantire un futuro alla sua famiglia; vediamo spiegato il furto del bambinello a cui avevamo assistito in un passato episodio: è stato Combo, amico di Jesse, aiutato legalmente poi da Saul.

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