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RaiPlay può (e deve) essere la vera tv del domani, ma molti non se ne sono ancora resi conto

Lo dicono loro stessi fin dall’intestazione: “RaiPlay, molto più di quanto immagini”. E non è difficile comprendere la motivazione: RaiPlay è una piattaforma utilizzata da un pubblico sempre più ampio, molto spesso composto da una fascia di giovanissimi che sembrerebbero non associarsi con semplicità al brand Rai, ma c’è ancora molto da fare sia a proposito di chi la utilizza che – soprattutto – di chi ne ignora l’esistenza. E non si parla tanto del prodotto in sé, bensì della sua diffusione. Come mai? Perché RaiPlay ha tutto il potenziale per diventare sempre più grande, ed essere l’unico vero tramite generazionale tra la vecchia tv in declino e i nuovi media ormai incalzanti anche in una terra allergica alle evoluzioni come la nostra. Attraverso un’offerta davvero al passo coi tempi, un’accessibilità sempre più favorita dalle tecnologie a disposizione e una visione sul lungo periodo che sta andando oltre gli schemi a cui ci hanno abituato per decenni i canali generalisti.

RaiPlay, in sostanza, non è e non deve essere per alcun motivo un mero supporto della vecchia tv, un implemento utile ad ampliarne il raggio, ma un’alternativa capace di assumere una centralità sempre più marcata. Per farlo, però, deve raggiungere un pubblico superiore a quello attuale. E inglobare, in pochi anni, gran parte della platea televisiva tradizionalista.

Non siamo noi a chiederlo: è la naturale evoluzione dei media a farlo con insistenza.

Lo diciamo per un motivo semplice, lo stesso motivo che ci ha portato a lavorare sul tema: RaiPlay è ancora un oggetto misterioso per una percentuale significativa del pubblico potenziale. Lo dimostriamo con due fattori: la scarsa diffusione del marchio sulla stampa e alcune tra le domande più cliccate su Google. A proposito della prima, è sufficiente fare una piccola ricerca e individuare i pochi articoli pubblicati negli ultimi mesi in cui si è parlato direttamente di RaiPlay: uno dei primi è un pezzo del magazine Panorama dello scorso 11 aprile. Il titolo? Un titolo a cui facciamo in qualche modo eco: “Il successo (semi-nascosto) di RaiPlay”. All’interno dell’articolo, sono presenti alcune dichiarazioni di Elena Capparelli, attuale direttrice di RaiPlay, in cui vengono esposti gli importanti risultati ottenuti dalla piattaforma negli ultimi anni: “Abbiamo raggiunto quota 23,4 milioni di iscritti. Il tempo speso nella fruizione dei contenuti online ha registrato, nel primo trimestre dell’anno, una crescita del 61% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente. Il consumo è cresciuto dell’81,5%, la fruizione di contenuti online in diretta del 13%”. Insomma, un vero e proprio boom. Ma quanti ne hanno parlato, finora? E quanti se ne sono resi conto, a oggi?

Non troppi, a giudicare dalle ricerche più battute su Google. Alla voce RaiPlay, infatti, attirano l’attenzione alcune tra le domande più frequenti fatte dagli utenti: molti, infatti, si domandano quanto costi il servizio e cosa si debba fare per iscriversi e guardare, per esempio, i contenuti in diretta. Sorprende? No, affatto: l’alfabetizzazione digitale dell’Italia è un problema molto serio e porta con sé anche l’incapacità di accedere facilmente a un servizio del genere. Un servizio, lo specifichiamo, gratuito. Ma perché preoccuparsene, nel momento in cui i dati parlano di una crescita esponenziale? Perché quei numeri, seppure degni di nota e meritevoli di un’attenzione mediatica che finora non hanno ricevuto in alcun modo, fanno di RaiPlay un’ottima alternativa alle varie piattaforme di streaming a pagamento ma non centrano ancora l’obiettivo primario che dovrebbe porsi da servizio pubblico: essere la nuova televisione, non solo un’altra televisione. Essere la Rai1 del domani, non solo una Netflix gratuita. Divenire un presente dalle porte aperte a tutti, incluso chi non abbia idea di come si accenda uno smartphone, e non solo un vagheggiante futuro dalle lunghissime scadenze.

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Cosa serve, allora, a RaiPlay per crescere ancora? Dovremmo chiederlo ai dirigenti della Rai, più che ai responsabili della piattaforma. I numeri evidenziati da Capparelli sottolineano la bontà di un progetto accolto da sempre con grande diffidenza, e la sua capacità di intercettare una fascia di pubblico più giovane che usufruisce del servizio pubblico con notevoli resistenze, ma è arrivato il momento di andare oltre e affrontare uno step ancora più ambizioso: uno step che porti RaiPlay a divenire la nuova realtà generalista di riferimento nell’arco di un decennio o poco più. Per farlo, servono dei ponti: un impegno più forte da parte della Rai nel promuovere i prodotti esclusivi della piattaforma, numerosi e d’ottimo livello, e una crescita del sistema Paese nel supportare uno dei fiori all’occhiello di un’azienda pubblica che troppo spesso fatica nel sincronizzarsi con le nuove esigenze di un mondo in costante movimento.

Sul primo fronte, sono rare le operazioni che hanno connesso al meglio l’ottimo lavoro di RaiPlay con quello portato avanti dalla Rai: uno dei migliori, in questo senso, riguarda il nazional-popolarissimo Fiorello, da anni volto di punta della piattaforma attraverso un impegno diretto e non. Diretto nel 2019, per esempio, quando sbarcò sul servizio di streaming con una trasmissione intitolata, per l’appunto, Viva RaiPlay!, destinata esclusivamente al canale on demand, e alla creazione di vari contenuti connessi ai suoi ultimi progetti televisivi. Ma anche (se non soprattutto) indirettamente: il suo Viva Rai2!, complice anche il particolare orario di messa in onda su Rai2, è da oltre un anno uno dei programmi più visti sulla piattaforma. E porta con sé un pubblico generalista che lo “insegue” sul web nel momento in cui gli è impossibile farlo in diretta attraverso i canali tradizionali. È una buona notizia? Assolutamente sì, così come sono da accogliere positivamente gli accessi legati ai grandi titoli proposti dalla Rai, Sanremo in primis, e a tutti i canali di sviluppo offerti dalla vecchia televisione alla nuova televisione. Talvolta con prodotti più adatti allo streaming che alla linearità di un tempo, come dimostrano i successi sulla piattaforma delle trasmissioni di Valerio Lundini e Alessandro Cattelan.

Ma basta? RaiPlay può davvero accontentarsi di operazioni sporadiche del genere? Oppure meriterebbe di più?

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Meriterebbe obiettivamente di più, e qua si arriva a un altro punto: RaiPlay è molto più di quanto immagini anche chi utilizza RaiPlay ogni giorno. Spieghiamoci meglio, e per farlo diamo un’occhiata alla top ten dei contenuti più visti oggi (4 dicembre 2023) sulla piattaforma. Eccola:

  1. Un Professore

2. Viva Rai2!

3. Lea

4. Noi siamo leggenda

5. The Voice Kids

6. Circeo

7, Ballando con le stelle

8. I bastardi di Pizzofalcone

9. La conferenza stampa

10. Non ci resta che il crimine.

Cosa possiamo dedurne? Se da un lato è evidente l’attività “di rimbalzo” dalla tv lineare a quella on demand, dall’altra spiace constatare che questo sia in troppi casi l’unico utilizzo che si fa di RaiPlay. Ma ripetiamolo ancora: è molto più di questo. E basta osservare l’unica mosca bianca della classifica, quella al nono posto, per capirlo a prescindere da tutto quello che potremmo dire a proposito del vastissimo archivio con titoli che attraversano settant’anni di storia: La conferenza stampa è infatti un format originale della piattaforma che ha ottenuto un notevole successo nell’ultimo anno, ma non possiamo dire altrettanto a proposito dell’innumerevole quantità di titoli prodotti appositamente per il servizio di streaming. Giusto per fare degli esempi: avete mai sentito nominare Nudes, Passeggeri notturni o Cinque minuti prima? Probabilmente no. E se avete più di 30 anni, diviene quasi certo. Di cosa si tratta? I titoli menzionati sono tre serie tv interessantissime prodotte dalla Rai – quella che fa ancora “le solite fiction”, secondo troppi disinformati – e distribuite in esclusiva su RaiPlay. Prodotti d’ottimo livello, al passo coi tempi e capaci di essere competitivi coi titoli proposti da Netflix o da Prime Video per i medesimi target di riferimento. Prodotti che molto spesso non mettono piede nella tv lineare, e quando lo fanno ci arrivano attraverso programmazioni inadeguate. Beh, è un peccato. Perché certificano l’ottimo lavoro fatto da RaiPlay e la visione lucida ed efficace della sua direttrice, lavoro peraltro premiato dal pubblico che ha dato un’opportunità ai titoli in questione, ma evidenziano anche un’attività di promozione dei prodotti più peculiari ancora insufficiente rispetto al potenziale che hanno.

Come dimostrarlo? Attraverso uno spunto che arriva da RaiPlay pur non essendo nato su RaiPlay. E che su RaiPlay non è nemmeno cresciuto, per molti versi. Parliamo di Mare Fuori, una serie tv che piaccia o meno è divenuta negli ultimi anni un vero e proprio fenomeno di costume, oltre che uno dei maggiori successi della serialità italiana nell’ultimo decennio. Una produzione Rai in tutto e per tutto, cresciuta però attraverso l’impulso di Netflix. Mare Fuori, infatti, è esplosa solo dopo la seconda stagione, grazie all’ingresso nella piattaforma statunitense: molti sono addirittura convinti che la serie sia una produzione Netflix, e questo denota un limite grave della Rai sul piano distributivo. Cosa c’entra RaiPlay con tutto ciò? C’entra nella misura in cui la terza stagione, trascinata da un grandissimo hype mediatico a seguito della popolarità acquisita su Netflix, è stata mandata in onda sulla piattaforma pubblica in anteprima portando con sé un numero impressionante di iscrizioni e riproduzioni. Numeri in gran parte inediti, distanti dagli standard abituali. Ancora: accogliamo con piacere la valorizzazione di un prodotto che sta facendo le fortune della Rai, ma perché la serie ha avuto bisogno del traino di Netflix e non è stato in grado di farcela da sola? Cosa sarebbe successo se Netflix non fosse stata obbligata a presentare in archivio una percentuale significativa di produzioni italiane? Che fine avrebbe fatto Mare Fuori se non fosse mai uscita dai confini della Rai?

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Non avremo mai una riprova, ma con ogni probabilità avrebbe subito lo stesso destino ingeneroso riservato a tante altre produzioni Rai dal potenziale interessante: non avrebbe beneficiato di una diffusione di massa e sarebbe stata apprezzata da una cerchia più o meno ristretta di spettatori. Al di là di quel che si possa pensare di Mare Fuori, è evidente che la Rai possa e debba fare di più. E che il particolare percorso verso il successo della serie dia un’idea chiara del vero problema: il mezzo di diffusione, più che il prodotto stesso. Lo stesso vale per RaiPlay, canale che ospita più di una “wannabe” Mare Fuori: una direzione illuminata e uno sforzo produttivo sono sufficienti per ottenere dei risultati importanti su target specifici e per la costruzione di “un’altra Rai”, una Rai più vicina ai giovani e al mondo che incalza oggi, ma perché accontentarsi di un obiettivo del genere (seppure rimarchevole)? Perché non iniziare a vivere un’idea di futuro prossimo come se fosse invece un presente incombente? Perché non arrendersi all’idea che la tv lineare sia comunque destinata a tramontare definitivamente entro dieci-quindici anni? Dobbiamo davvero pensare alle sole esigenze dei bilanci annuali, ancora ancorati alle logiche commerciali imposte alla televisione di vecchia generazione, senza tenere uno spazio per osare e aggredire il domani con la necessaria lungimiranza? Non vogliamo pensarlo. E saremo per questo dalla parte della giovane RaiPlay, con la speranza che possa ottenere nei prossimi anni tutto quello che sta mostrando di meritare. Perché sì, non è solo uno slogan: è più di quanto immaginassimo, sul serio. Molto di più, davvero. Persino più di quanto immaginassero loro stessi.

Antonio Casu