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Un ritratto onesto del crudo microcosmo di Oz

Non potrebbe mai succedere niente di terribile in Paradiso. Che sia l’aldilà di eterna pace o un luogo terreno bellissimo e incantevole, il solo sentir pronunciare questa parola ci regala immediatamente una sensazione di benessere e calma. Di speranza che tutto vada bene, che niente possa turbare la meravigliosa perfezione che si apre davanti al nostro sguardo. E poi è arrivato Oz (disponibile su Paramount +) a strapparci il velo di Maya dagli occhi, a distruggere l’illusione e ribaltarne completamente il significato. Perché quella in cui veniamo catapultati nella serie tv HBO non è un’ascesa alle più alte sfere del cielo, ma una caduta negli inferi terrestri dalla quale emergono i punti più bassi dell’umanità. Come se, sulla porta d’ingresso del penitenziario, ci fossero scritte queste esatte parole:

“Per me si va ne la città dolente,

per me si va ne l’etterno dolore,

per me si va tra la perduta gente […]

Lasciate ogni speranza, o voi che entrate”

Già perché, se Dante fosse vissuto oggi e avesse realizzato una serie sulla Divina Commedia, l’Inferno non sarebbe stato tanto diverso da Oz. È un girone unico, in perpetuo stato di guerra e in cui si può morire in mille modi, quello abitato dai detenuti, considerati anime irrecuperabili e costretti a subire atroci sofferenze. Le loro celle di vetro sono beffardamente aperte tutto il giorno, riducendoli ad animali in gabbia, legati con catene invisibili che ogni tanto vengono tirate, giusto per ribadire che la loro libertà è solo un’illusione. Ma non sono “pezzi” da esposizione perché malvagi, da dimenticare. Gli ultimi di un mondo che gli fa sentire tali, scarti di una società che non prova nemmeno a recuperarli.

E quando fanno i cagnacci cattivi, vengono sbattuti nella buca, spogliati dei vestiti e della dignità proprio da chi dovrebbe esercitare la giustizia, ma che invece viene fagocitato nel ventre nero del Paradiso, perdendo la moralità e diventano uno dei demoni luciferini che infliggono le peggiori pene: lo fa Claire, chiudendoci un nudo Ryan O’Reily solo per scoparselo, annullandone la volontà e deumanizzandolo fino a renderlo un bambolotto ubbidiente.

Oz

E non c’è speranza di raggiungere il purgatorio, nemmeno comportandosi bene. Miguel Alvarez non vuole quella vita e, se le azioni sbagliate non hanno funzionato, magari con quelle giuste ce la farà? Tentar non nuoce, non ha nulla da perdere. Così lui, complice del gesto più cruento dello spettacolo HBO, sta lontano dalle lotte, dai guai e aiuta l’uomo che ha orribilmente sfigurato. Tutto per niente; il destino ha già deciso che la sua vita è in quella fredda gabbia. E basta poco, allora, per perderlo di nuovo nelle vecchie abitudini, nella legge della violenza e della solitudine del Quinto Braccio.

Perché nel mondo di Oz, dominato dalle sanguinose fazioni, dalla droga e dall’oppressione, conta solo una cosa: il potere. 

Più ne hanno, più i detenuti possono garantirsi un giorno in più in quell’inferno chiamato vita. Se così può essere considerata, ormai trasformata in una feroce e animalesca lotta per la sopravvivenza. Allora, non resta che ancorarsi a principi all’esterno inapplicabili, ma un’autentica salvezza tra quelle spietate mura; a persone che sono pronti a tradire da un momento all’altro se questo vuol dire non morire. D’altronde, non hanno scelta. O impazzirebbero se si fermassero a pensare che lì dentro è impossibile invecchiare, che non si esce dal Paradiso se non in un sacco nero. Quant’è agghiacciante vivere con la paura che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo! È un universo alienante quello di Oz, che inghiottisce chiunque in angosciante labirinto fisico e mentale dove Teseo non si salva dal Minotauro.

Purtroppo, ne sa qualcosa Tobias Beecher.

Oz lo svuota e si impossessa della sua identità, permettendo a Vernon Schillinger di chiuderlo in una prigione di carne senza più soffio vitale. È un cane al guinzaglio; anzi uno schiavo ripetutamente violentato perché lo stupro è uno dei raccapriccianti modi con il quale viene esercitato il potere nella serie tv HBO. Non uscirà più da quella cella mentale. Né con la droga, né con la ribellione, né con una violenza che finisce per strabordare dai confini del penitenziario, colpendo le famiglie innocenti in questa inutile vendetta. Nemmeno l’amore, declinato in ogni sua forma, salva lui o gli altri detenuti, perché lì non esistono buoni sentimenti. Ogni cosa si piega alla pulsione malata che priva l’amore della sua bellezza, trasformandolo in un rapporto a senso unico dove uno gode e l’altro soffre. Sempre.

Chris Keller non è il filo che conduce Beecher all’uscita dal labirinto; anzi, è l’amante che gli mette la museruola come e quando vuole. O’Reily, il grande burattinaio di Oz, non si rende conto che, nella sua voglia di riscatto verso una società che l’ha abbandonato, sta trascinando letalmente anche il fratello. Cyril è la sua umanità, il suo cuore e il suo più grande fallimento. Perché aveva promesso di proteggerlo, eppure è sua la mano che lo conduce verso un destino straziante; sua e di un sistema che non vuole perdere tempo con prigionieri dai bisogni particolari. Una crudeltà assoluta, così reale che fa male guardarla nello show HBO, verso di lui e, in generale, nel modo in cui il sistema carcerario tratta i suoi “ospiti”.

Trasformandoli in animali al macello, in criminali peggiori di quello che sono; privandoli dell’accesso in Paradiso. Quello vero, però.

Kenny Wangler poteva raggiungerlo, McManus lo stava instradando verso il cammino dell’istruzione. Ma ogni tentativo di sfuggire alle leggi di Oz è alto tradimento per Simon Adebisi. Così, tra minacce, droga e percosse, condanna il ragazzo a una vita sprecata. E non possiamo che provare pietà per un giovane che poteva ancora salvarsi.

Oz

Per Adebisi, invece, non c’è mai stata speranza nello show HBO, nemmeno quando sembrava addomesticato. Come con Alex DeLarge, la Ludovico non ha funzionato perché lui contribuisce a creare quella società spietata in cui è intrappolato. Dà vita a quel clima caotico in cui i neri finalmente vincono. E gli servono sudditi, gli serve Kareem Said. Un uomo che tenta di diffondere pace e amore, ma che è in lotta con quella rabbia sigillata dentro di lui e pronta a esplodere da un momento all’altro. Come nella rivolta. Eppure, anche se non ha imparato dal Poeta e Jefferson Keane, vuole davvero salvare Adebisi, perché non può vivere al fianco di un demone che si crogiola sui resti della sua degenerazione. Non assistiamo allo scontro finale tra questi due leoni ingabbiati; del resto, ogni cosa è prigioniera a Oz, persino la violenza.

Oz è un mondo così claustrofobico e tossico che non respiriamo; intenso al punto che proviamo tutte queste sensazioni sulla nostra pelle.

Uscire da quelle celle opprimenti è impossibile. Agamennon Busmalis può scavare tutti i tunnel che riesce, ma finirà sempre nell’ennesimo vicolo cieco. Pure per noi spettatori è complesso abbandonare il penitenziario, perché veniamo tirati talmente a fondo da rimanere impigliati in quel Vaso di Pandora pieno di dolore, come se avessimo una corda legata alle gambe che ci riporta nell’oscurità ogni volta che scaliamo la parete rocciosa per evitare sangue e lava. E non riusciamo a riemergere completamente perché comprendiamo che ognuno di noi può essere quell’Augustus Hill che ci racconta verità che non vogliamo ascoltare; vittime e carnefici di un incubo che permette a mostri e paure di emergere senza soluzione di continuità.

E ci risuonano nelle orecchie le parole di O’Reily, disilluse e imperiture.

La morte è meglio di qualsiasi altro giorno a Oz.”