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Oz è la Serie Tv più claustrofobica e soffocante che vedrete in vita vostra

Chi vorrebbe mai uscire dal Paradiso? Insomma, se pensiamo al senso del termine, è quel luogo di illimitata felicità e pace in cui tutti aspirano ad arrivare dopo la morte, quel posto che non vorremmo mai abbandonare nemmeno sotto costrizione. Ma se ci trovassimo a Oz, dove “Paradiso” assume totalmente un altro significato diventando un Inferno in Terra che mostra la follia e i punti più bassi dell’umanità, andarcene è l’unica cosa che vorremmo. Peccato che uscire da quelle mura che sembrano schiacciarci sempre di più è una missione irrealizzabile, non importa quanti tunnel Agamemnon Busmalis riesca a scavare poiché ogni volta saranno completamente inutili, dato che qualcun altro riuscirà a impadronirsene o un tubo si romperà. Persino per noi spettatori uscire dal penitenziario è complicato. Veniamo trascinati talmente a fondo dentro quel mondo che ci rimaniamo metaforicamente imprigionati. Come se avessimo un cappio al collo che si stringe man mano che riemergiamo dalle profondità di Oz, scalando una parete irta e rocciosa pur sapendo che cadremo nella lava. Alla maniera del Jack di Lars von Trier, se l’avete visto.

Questo è ciò che sentono i detenuti di Oz: claustrofobia opprimente, solitudine infinita, aria tossica che toglie il respiro. Ed è così realistico che lo proviamo sulla nostra pelle.

Quelle celle di vetro aperte tutto il giorno sembrano uno scherzo, un modo per prenderli in giro e ribadire che tanto loro sono animali in gabbia, tenuti a freno da una catena invisibile e che ogni tanto hanno bisogno di una strigliata. Mentre quelle chiuse dell’isolamento o della buca li rende, ci rende, dei piccoli omuncoli nudi, privati dei vestiti simbolicamente in un caso e letteralmente nell’altro, nelle mani di chi dovrebbe amministrare la giustizia e che invece in molti casi la usa a suo piacimento perché inghiottito dalle fauci oscure e violente di Oz: Claire che fa mettere il suo bambolotto Ryan O’Reily nella buca solo per scoparselo, con quel “ti sono mancata?” che spaventa più di ogni altra minaccia, è un esempio perfetto. E ciò non fa che rendere la condizione dei detenuti ancora più soffocante, tanto che qualcuno si arrende all’inevitabile.

Oz

Basti pensare a Miguel Alvarez che ha provato tutto dentro Oz: l’illusione di libertà del plexiglas, la disperazione dell’isolamento, il freddo delle sbarre, l’umiliazione della gabbia, la nudità della buca. Eppure è uno dei pochi che è riuscito a mettere il naso fuori dal Paradiso, dopo che il suo gesto – il più crudele di tutta la serie – e la solitudine dell’isolamento l’avevano distrutto. Non vuole quella vita, così coglie subito l’occasione di scappare quando si presenta ma, in una sorta di azione punitiva del karma, viene ripreso e sbattuto nuovamente in cella. E allora tenta, stavolta, di farlo nel modo giusto. Riga dritto, non si mette nei guai, sta fuori da qualsiasi affare losco o di droga o di omicidio che gira dentro il Paradiso, addestra un cane guida per regalarlo all’uomo a cui ha tolto la vista, fa il regista dello spettacolo finale. Niente serve, niente gli garantisce la libertà vigilata e quella vita ordinaria così desiderata. Il destino è già stato scritto per lui.

Perché Oz è un labirinto fisico e mentale che però non ha un’uscita. Citofonare Tobias Beecher.

Il suo essere, la sua identità e la sua vita si perdono nei meandri più oscuri del Paradiso, lasciando che Vernon Schillinger lo plasmi e lo pieghi nella sua personalissima prigione, in quell’involucro umano senza più vita. È uno schiavo sessuale, niente di più, che deve rispondere sempre SI alle richieste del padrone. Da quella cella Beecher non uscirà mai, nonostante tutti i suoi tentativi. Prima con la droga, così da evadere in una dimensione alternativa dove il dolore non esiste, ma lui è troppo intelligente per continuare a credere in questa utopia ingannevole. Reagisce seguendo la legge di Oz, ovvero la violenza. E allora il suo volto cambia e diviene animalesco, con quel muso simile a un lupo che non è più disposto a rimanere legato al suo guinzaglio.

Alla Spartacus, lo schiavo si ribella al padrone, ma quella fiammella non viene alimentata a dovere e il nemico può continuare a togliergli ossigeno. Così quel rapporto di odio e vendetta fagocita ogni cosa, si diffonde nei cuori e nelle anime dei detenuti e delle famiglie con una forza distruttiva mortale.

L’amore potrebbe liberare Beecher, quello che pur consumandosi al buio di una cella chiusa e mal protetta sembra essere l’unica strada per andarsene dal labirinto. Finora aveva visto nei rapporti sessuali maschili solo umiliazione, annichilimento e dominazione. Con Chris Keller, per la prima volta da quando è a Oz, sente di star per uscire da quella gabbia per animali in cui Schillinger l’aveva chiuso. Peccato che sia proprio il suo amante a giocare con lui, rimettendogli più volte e a suo piacimento la museruola. Prima lo tradisce rivelando di essere alleato del suo peggior nemico, poi attraverso un sadico e spietato stratagemma lo fa rinchiudere nuovamente, dopo che Beecher era riuscito così faticosamente a ottenere la libertà vigilata, solo perché non riusciva a lasciarlo andare, solo perché nostalgico. Ma amore non è volere l’altro felice, anche se non con noi? Certo, se non fossimo nel Paradiso. Lì tutto si piega a una pulsione deviata chiusa in un rapporto unidirezionale privo delle bellezze dell’amore, in cui esiste solo il dominatore e il dominato, lo schiavo e il padrone, chi gode e chi soffre.

Nel Paradiso l’amore è semplicemente oppressione violenta che soffoca dall’interno. Di qualsiasi forma sia, stringe talmente tanto da far male.

Non solo Beecher è caduto nel tranello. Cyril e Gloria vengono intrappolati nella rete costruita per loro da O’Reily, uno dei pochi che ha compreso le regole di Oz e che le piega a suo piacimento, muovendo gli altri detenuti come burattini sul suo palcoscenico e riuscendo in più di un’occasione a far sentire gli effetti delle sue azioni anche all’esterno. Solo che non si era accorto di star scavando la buca in cui poi sarebbe sprofondato, quella che la società aveva già iniziato a fare per lui, quella in cui ci scaraventa senza pensarci più di tanto Cyril, solo per essere colto successivamente dai sensi di colpa. Infatti le azioni hanno delle conseguenze e il minore degli O’Reily, che aveva trovato una sorta di evasione in quella malattia che l’aveva imprigionato, andrà incontro al destino peggiore proprio per mano della persona che aveva giurato di proteggerlo fino alla fine.

Oz

Kareem Said ci prova a diffondere i suoi insegnamenti di tolleranza e amore, ma incontrano orecchie sorde. Però quella natura così profondamente spirituale e pacifista coesiste con una personalità energica, espressione della rabbia che sta cercando di reprimere. Del resto, è finito in prigione a causa dell’estremismo che lo ha portato a dare fuoco a un magazzino di bianchi. Non smette mai di combattere, nemmeno quando viene catturato, cercando di salvare l’anima di Jefferson Keane e di Tobias Beecher, o di dare una seconda possibilità fuori da Oz al Poeta. La sua lotta è verso tutti: contro il sistema, contro il peccato, contro il pregiudizio e, soprattutto, contro i suoi stessi demoni, alcuni dei quali sono troppo potenti anche per essere repressi da Dio. E il suo capitolo finale, triste, tragico e improvviso, è la prova della natura inconoscibile del Suo piano o una vittoria per le forze del caos in un universo freddo e senza Dio: la scelta è solo nostra.

Ma Kareem è l’unico che ha davvero avuto la possibilità di lasciare Oz.

Quando il governatore James Devlin gli offre la grazia per i suoi crimini, grazie al lavoro di qualità svolto dietro le sbarre e all’influenza esterna che chiede di rendere Said un uomo libero, quest’ultimo lo respinge in modo drammatico con quella frase che rappresenta una delle punte più alte della serialità:

“Rifiuto il tuo perdono!”

Questo riassume abbastanza bene Said, fatto di intensità, convinzione e impegno. Ma non è mai un bene chiudere le proprie emozioni dentro una scatola sigillata: così Said si sente come un leone in gabbia, una bomba a orologeria pronta ad esplodere. E quando lo fa, come nella rivolta, genera il caos.

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Quel caos portato da chi, come O’Reily, ha capito come funzionano le cose in quella prigione: Simon Adebisi.

Un uomo che definire instabile sarebbe un eufemismo perché non ha minimamente paura di oltrepassare il limite, le sue violenze e i suoi omicidi lo dimostrano. Ucciderlo è impossibile. Ci hanno provato gli Italiani ma Adebisi li ha stesi tutti e poi ha distrutto mentalmente e fisicamente il loro capo, Peter Schibetta, abbassandogli i pantaloni, sbattendolo sul tavolo e “infilzandolo”. È la manifestazione più alta del potere a Oz, un episodio violento e selvaggio che serve a creare sudditanza. Eppure c’è stato un momento in cui sembrava essersi addomesticato, trasformato in un cucciolone docile e ammaestrato. Ma quanto è durata? E soprattutto era davvero così? Ma non importa a quante cure si sottoponga, che sia la Ludovico o altre, alla fine è Adebisi che ha il potere. Come Alex DeLarge è chiuso in quella società violenta che contribuisce a creare, anche Adebisi è sì rinchiuso in una cella, ma lui dà vita a quel clima opprimente che colora tutta la serie tv.

Ogni gesto, parola, calcio, stupro, uccisione è stato funzionale a costruire quel caos dove i bianchi soccombono e i neri trionfano. Ma per vincere ha bisogno di sudditi, come il povero Kenny Wagler, e di alleati. Said è il suo obiettivo e, a sua volta, l’Imam tenta davvero di cambiarlo, senza aver imparato niente da Jefferson Kean o il Poeta. Non può convivere con il figlio del diavolo, che balla sulle macerie della sua perversione. Lo scontro finale è cruento e animalesco, con questi due uomini che lottano con le unghie e con i denti per continuare a vivere, senza che a noi sia concesso il lusso di assistere. Perché anche la violenza è prigioniera a Oz. Adebisi esce per primo, lancia un ghigno prima di cadere per terra, con la schiena squarciata e la consapevolezza nel cuore.

In fin dei conti Oz è un mostro che non lascia andare nessuno e che plasma tutti a sua immagine, una prigione piena di tentacoli dal quale è impossibile andarsene, perché tutti quelli che ci hanno provato hanno fallito, e da dove, come ci insegnano i vari Adebisi, Said o Cyril, si può uscire solo in un modo: dentro un sacco nero, aspettando che la morte ci stringa in un freddo, gelido e liberatorio abbraccio.

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