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Miguel Alvarez, chiuso nel circolo vizioso di Oz

Oz si è ritagliata a pieno titolo un posto nella storia delle serie tv grazie al realismo, alla crudezza esasperata fino all’eccesso, al modo spietato quanto vero di sbatterci in faccia la realtà senza smussare gli angoli più duri. I suoi personaggi ne sono un esempio, nessuno è un’eccezione. Del resto, se sono finiti in un penitenziario di massima sicurezza, qualcosa di grave lo hanno combinato e di certo non sono propriamente delle brave persone. Tra loro c’è Miguel Alvarez: un detenuto latinos che è stato incarcerato per aver aggredito violentemente un vecchio solo per avergli graffiato la macchina. Senza dimenticare che conosceva il nome del violentatore della figlia di Leo Glynn e non voleva rivelarglielo. E non sono le uniche cose terribili che ha compiuto nella sua vita.

Eppure Miguel Alvarez è uno dei personaggi più profondi e multistrato di Oz.

Sembra un debole e così viene considerato dagli altri detenuti. Insomma, a guardarlo non appare una grande minaccia, essendo mingherlino, troppo cauto e avendo quello sguardo dolce da cucciolo bastonato. Sbagliano – e noi con loro – a giudicare un libro dalla copertina perché chi lo affronta si ritrova con un coltello conficcato nel petto. Alvarez è un tosto che sopravvive a molti attentati alla sua vita, orchestrati molto spesso da coloro che dovrebbero guardargli le spalle, ovvero la banda di El Norte, formata dai suoi compagni latini. Ma non sono solo i detenuti della sua stessa etnia a voltargli le spalle: la stessa vita si fa beffe di lui. Chiuso in un immenso labirinto dal quale non può uscire, ogni strada che intraprende è inevitabilmente quella sbagliata.

Suo padre e suo nonno, infatti, hanno vissuto la maggior parte della loro esistenza in prigione e ciò ha impattato non poco sulla crescita di Alvarez. Invece di spezzare il ciclo portato avanti dai suoi parenti, lo continua finendo egli stesso in gattabuia. Quasi come se da un lato lo volesse per portare avanti la tradizione e dall’altro lo dovesse fare perché è questo che ci aspettiamo da lui. E quando arriva a Oz, le pressioni su Alvarez sono tante. Il ragazzo però si rivela inadatto alla grandezza. Il suo retaggio lo costringe a diventare il leader dei latinos ma lui è troppo giovane e troppo guardingo per guidarli: ne è consapevole ed è felice di cedere il posto a qualcuno più qualificato. Purtroppo però il futuro capo di El Norte lo disprezza perché troppo chiaro di pelle.

La scelta a cui Alvarez viene messo davanti in Oz è impossibile: cavare gli occhi all’AC Eugene Rivera oppure morire.

E lo fa, solo per sopravvivere. L’isolamento è la sua punizione in Oz, un luogo che detesta perché là suo nonno impazzì e l’ultima cosa che vuole è finire come lui. Il circolo vizioso così ricomincia, ancora una volta, senza dare ad Alvarez una via d’uscita. Quell’azione lo perseguita, come se fosse un brutto incubo dal quale non riesce a svegliarsi, poiché Miguel è uno dei pochi detenuti di Oz che prova rimorso per le sue azioni e compassione verso gli altri. Conosce la differenza tra Bene e Male, sebbene dentro il penitenziario non riesca a trovarne di bene. Del resto, in un inferno dantesco in piena regola, la violenza è l’unico modo per proteggersi. Il suo rammarico nell’aver cavato gli occhi all’AC è genuino, lo fa cadere in una depressione simile a quella provata dopo la morte del figlio.

Ma, aiutato da Padre Mukada e Sorella Peter Marie, capisce che è arrivato il momento di cambiare.

Oz

La sua determinazione è così alta che, nonostante tanti detenuti tentino di reclutarlo per affari loschi o di ucciderlo, lui resiste con tutte le sue forze. Addestra pure un cane guida solo per donarlo all’agente che ha accecato, cercando così di rimediare al male che gli ha fatto. E non solo: insegna all’animale i comandi sia in inglese che in spagnolo, dato che Rivera in casa parla la sua lingua madre. L’entusiasmo di Alvarez è alle stelle perché la libertà vigilata è davvero alla sua portata. In fondo lo scopo del carcere è proprio la riabilitazione, il credere che i criminali possano davvero redimersi e cambiare. Altrimenti possiamo davvero buttare via la chiave, farla finita con la vigilata e lasciare questi ragazzi al loro triste destino.

Il suo impegno, però, non viene ripagato. Ed è davvero un peccato.

Il tizio della libertà vigilata inizia a elencare i reati e le malefatte di Alvarez, rimuovendole dal loro contesto originario per farle apparire ancora più mostruose. Ricordiamoci, infatti, che il detenuto aveva compiuto quelle azioni o perché aveva perso la testa in isolamento o per pura sopravvivenza. Che Alvarez si infuri e colpisca quell’uomo è quanto di più sbagliato possa fare, tuttavia non possiamo non giustificarlo dopo i suoi sforzi. E potremmo immaginare che Alvarez sia stato provocato e messo alla prova da quelle affermazioni, ma la verità è ben altra. Quell’uomo ammette tranquillamente che non gli avrebbe mai concesso la libertà vigilata ed è in quel momento che Alvarez comprende che non importa quello che faccia, non sarebbe mai stato rilasciato nemmeno se non avesse preso a pugni quel tizio.

Oz

Sarà sempre una vittima del sistema e rimarrà a Oz per tutta la vita, proprio come suo padre e suo nonno. Ecco la sua vera essenza di eroe tragico: non è un caso che una delle ultime volte che lo vediamo a Oz sia durante lo spettacolo di Macbeth, sfinito e svuotato. Lo capiamo da quelle parole che dice a Torquemada:

 “Sono così stanco. Sono stanco di provare. Sono stanco dei muri. Le bugie. La paura. La morte. Sono così stanco.”

A quel punto è così sconvolto che smette di fregarsene di tutto e di tutti. La depressione ritorna e le energie fisiche e mentali se ne vanno di nuovo. In quell’istante è solo esausto, voglioso di chiudere gli occhi e non riaprirli più. La droga è il suo modo di smetterla prima di crollare definitivamente, cullato dalle braccia di un uomo in cerca di una vita piacevole e spensierata, da cui non deve difendersi e per questo diverso dagli Schillinger o dagli Adebisi a cui piace infliggere dolore alle persone.

In fondo è impossibile ripensare a Oz senza riflettere sul viaggio di Alvarez, violento sì ma con un background in grado di farci capire il perché delle sue azioni. Così in colpa per le cose cattive che ha fatto che non si prende mai una pausa. È come se si trovasse perennemente sulle montagne russe, pieno di alti e bassi, che finiscono per scontrarsi con un muro di mattoni quando anche il secondo incontro per la libertà vigilata va male. Eppure, nemmeno in quel caso, è riuscito a scendere da un destino che semplicemente l’ha predestinato a una vita criminale. La sua risoluzione, anche se non termina con la morte, è la più tragica di tutte e alla fine porta a chiederci:

Cosa si vive a fare quando la vita non è altro che dolore?

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