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Normal people e quel bisogno di essere persone normali

Come in molte occasioni della mia vita, arrivo con estremo ritardo. L’evento in questione non è un appuntamento o un colloquio di lavoro, ma la visione di una serie che è riuscita a toccare ben più di un nervo scoperto nella mia sfera emotiva. La serie in questione è Normal people, che io ho visto solo il mese scorso ma è disponibile su Hulu già dall’aprile del 2020. A mia discolpa potrei dire che ho atteso tanto solo perché ci ho tenuto a leggere prima il libro da cui è tratta, quel gioiellino dell’omonimo romanzo di Sally Rooney (dalla cui penna deriva anche il romanzo Conversations with friends, recentemente approdato sul piccolo schermo). Il problema però è che il libro risale al 2018 e io mi sono data alla sua lettura solo due mesi fa, quindi ciò non fa che rendermi ancora più in ritardo sulla tabella di marcia. La lettura e la visione di Normal people sono state esperienze intense, e credo che il motivo sia molto semplice: ho sentito dal primo momento che parlava proprio di me.

Quella di Marianne Sheridan e Connell Waldron è la storia di due persone che a lungo si incontrano, scontrano, perdono e incontrano di nuovo. Il loro legame comincia al liceo: lei è figlia di una famiglia tanto ricca quanto disfunzionale, lui della donna che per questa famiglia poco idilliaca fa le pulizie. Connell è fra i ragazzi più popolari della scuola, Marianne invece passa praticamente tutto il suo tempo da sola. Le loro vite si intrecciano a casa di lei, quando Connell va a prendere sua madre dopo la fine della giornata di lavoro. È lì che nascono le prime chiacchiere, i primi momenti di intesa e il sentimento che li legherà negli anni a seguire. I due cominciano una relazione della quale apparentemente nessuno è a conoscenza, perché per Connell sarebbe difficile giustificare alle persone attorno a lui il suo rapporto con la persona meno amata della scuola. A lei sembra stare bene così, e questo rapporto continua a crescere e a intensificarsi, ma come ogni cosa basata su una bugia non ci vorrà molto per farli allontanare. Da questo momento in poi fra Connell e Marianne comincia un tira e molla infinito fatto di affetto, amicizia, amore, ma anche di difficoltà nell’esprimersi, nel comprendere l’altro, nel capire se stessi. Un rapporto che nasce a Sligo e si solidifica a Dublino, attraversando l’Italia, la Svezia, i luoghi e i tempi. Indissolubile ma anche complesso, dolce e contemporaneamente amaro. Insomma, un rapporto vero.

Normal people fra letteratura e serialità

Partiamo da un presupposto importante: quello di Normal people è uno dei rari casi in cui l’adattamento cinematografico o seriale di un libro non lascia nello sconforto più totale. La serie ne riprende perfettamente le dinamiche, cercando di non lasciare indietro nulla che comprometta la comprensione dell’essenza della storia. Ci sono chiaramente alcuni punti nei quali le esigenze narrative non coincidono, ma fatto sta che guardando la serie ho pensato spesso e volentieri “ecco, è esattamente così che immaginavo questa scena”. La trasposizione quindi per me è più che promossa. Unico piccolo neo se devo essere puntigliosa – perché la perfezione non esiste – è la questione della tematica economica, che ho trovato molto presente nel libro e non abbastanza trattata nella serie. La disuguaglianza sociale tra Marianne e Connell è evidente fin dal momento in cui ci rendiamo conto che la madre di lui è la domestica di lei. Connell ha bisogno di lavorare per potersi permettere la vita a Dublino mentre per Marianne la sola idea di lavoro è inconcepibile, probabilmente proprio perché non ne ha mai sentito il bisogno. La borsa di studio è un cruccio per Marianne e una necessità per Connell, eppure nella serie l’argomento viene toccato ma quasi mai approfondito, mentre il libro permette di entrare maggiormente nelle dinamiche emotive di Connell, colui per il quale questa cosa assume un peso maggiore.

Altra questione di importanza cruciale negli adattamenti è la scelta dei personaggi. Quando ho visto la prima scena di Marianne mi è sembrato di guardare sullo schermo l’esatta copia dell’immagine che mi ero fatta di lei sfogliando le pagine di Sally Rooney. Daisy Edgar-Jones ha una bellezza che non rientra perfettamente nei canoni tradizionali, è affascinante e sembra avvolta da un’aura di indecifrabilità che la rende estremamente interessante. Il personaggio di Connell invece non è esattamente come me l’aspettavo: mentre la descrizione della sua fisicità coincide perfettamente con quella di Paul Mescal, immaginavo un volto diverso, forse più banale. Nel corso delle puntate però ho familiarizzato con quei lineamenti che all’inizio non riuscivo ad affibbiare al personaggio e mi sono accorta che esprimevano una riflessività che è propria di Connell, e che in buona parte è ciò che lo distingue dai suoi amici del liceo.

La normalità

Ma ciò che mi ha maggiormente colpita di Normal people è stata la capacità di portare sugli schermi un rapporto complesso in maniera semplice ed estremamente reale. Niente fronzoli, nessun colpo di scena incredibile e innecessario, solo il racconto della vita di due persone che potrebbero essere due giovani incontrati al parco, due nostri amici, addirittura potremmo essere noi. A Connell e Marianne non manca l’amore reciproco, ma mancano gli strumenti per fare in modo che questo amore si realizzi pienamente. Quante volte ci è capitato? Provare qualcosa e non avere idea di quale sia il modo giusto per agire, per manifestare questo sentimento, voler dire qualcosa e poi esprimere tutt’altro. Connell ha parecchie difficoltà nel comunicare ciò che pensa, lascia Marianne senza avere idea di come ci è arrivato, senza nemmeno accorgersi di aver usato parole diverse da quelle che avrebbe dovuto e voluto dire. Marianne dall’altra parte sente la perenne sensazione di non meritare l’amore degli altri e si infila in relazioni nelle quali le dinamiche di potere non sono per niente sane, a volte anche su sua stessa richiesta. Il sesso è il terreno perfetto per la realizzazione di situazioni nelle quali possa essere sottomessa alla volontà della persona con cui sta, in contesti nei quali lei si trova a fare di tutto per realizzarla. Connell però in queste dinamiche non si sente per niente a suo agio, anzi nel momento in cui si accorge che Marianne farebbe qualsiasi cosa se lui solo glielo chiedesse, ha il suo primo attacco di panico.

normal people

Eppure, a prescindere dalle difficoltà che i protagonisti di Normal people si trovano ad affrontare, il legame che creano quando sono solo due adolescenti non muore mai. Cambia, si evolve, sembra spezzarsi ma è sempre lì, come una piccola fiamma nel buio dalla quale farsi illuminare soprattutto nei momenti più tetri. Ci sono l’uno per l’altra quando sono una coppia ma anche quando non lo sono; ci sono anche quando sono più distanti che mai, in senso tanto fisico quanto emotivo. Sono profondamente legati l’uno all’altra al di là delle differenze sociali, personali, emotive. E gira che ti rigira, per quanto le circostanze della vita possano essere avverse, eccoli sempre lì a sostenersi e comprendersi a vicenda come non riescono a fare con e per nessun altro. Anche quando le loro parole e le loro azioni non sono quelle giuste. Riescono a essere davvero se stessi solo l’uno con l’altra. Perché il fatto è che quando un legame c’è, quando è vero e profondo, resiste anche ai sabotaggi involontari provocati da chi lo vive. Arriva il momento in cui Connell e Marianne lo capiscono, e ammetto che è stata una bella consolazione anche per me.

Ma alla fine, per quanto Connell e Marianne possano essere diversi, hanno in comune una caratteristica che li rende davvero parte del nostro mondo: il desiderio – o forse il bisogno – di essere persone normali. Voler essere amati, fare in modo di assecondare ciò che il mondo vuole per noi, guardare le vite degli altri e ritenerle più complete della nostra sono esperienze che accomunano tante persone. Il mondo scorre veloce e noi siamo lì, con la costante sensazione di non fare abbastanza, di non essere abbastanza, di non meritare abbastanza. Guardiamo le persone che ci sono attorno e sembrano tutti così soddisfatti, felici, realizzati, sembra che chiunque eccetto noi abbia capito il vero significato della vita e si stia muovendo per viverla nel modo giusto. Vorremmo essere come loro. E più ci soffermiamo a pensarci più ci sembra di non aver capito niente, di perdere tempo, di restare ancora più indietro.

Eppure in fondo siamo tutti gli altri per qualcuno, e la normalità che vogliamo raggiungere è quella che molto probabilmente qualcun altro vede in noi. E se abbiamo la fortuna di trovare una persona che davvero ci permetta di sentirci noi stessi al di là di tutte le paranoie e le difficoltà che sono parte integrante dell’esistenza umana, forse è più facile capire che le nostre anormalità sono la cosa più normale che ci sia. E a volte è anche il caso di tenercele strette.

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