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Mindhunter – Holden Ford ha guardato nell’abisso e l’abisso lo ha risucchiato

La settimana scorsa si è creato un gran trambusto. Dopo gli innumerevoli tweet di lode allo charme e al sex appeal di Ted Bundy, a cui Netflix ha dedicato un documentario, la piattaforma ha deciso di intervenire. Giustamente. È altrettanto corretto, però, ricordare che per quanto disumani e riprovevoli siano i crimini, la figura dell’omicida seriale è purtroppo da sempre contornata da un certo fascino. Quindi, Netflix, che ti aspettavi? Basti pensare a quanti talk di cronaca nera colonizzano la tv oggigiorno, fornendo dettagli su vita, morte e miracoli di vittime e carnefici. Non si tratta nemmeno di giustizia mediatica, ma di puro feticismo in molti casi. Ben pochi rifuggono il carisma criminale. Nemmeno Holden Ford, protagonista di Mindhunter, ne è immune.

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Ford è un uomo dall’intelligenza fine, di tenero e bell’aspetto.

È gentile, troppo gentile – si penserebbe – per stare a contatto con criminali ogni giorno. Holden ha una ragazza, e anche lei gode di un notevole acume, ma il confronto non sembra intimidire né contrariare l’agente, che anzi è stimolato dalla sagacia di Debbie. Non ci è dato sapere che cosa ha condotto Ford fino a questo punto, ma si può intuire che abbia ricevuto un’educazione esemplare. Del resto, quale scapestrato riuscirebbe a entrare nell’FBI? Holden è dunque un giovane  normale, con una mentalità piuttosto aperta e in espansione rispetto all’epoca in cui Mindhunter è ambientata, gli anni ’70.

Eppure, per quanto perbene e benpensante possa essere, Ford è un debole.

Il suo tallone d’Achille combacia col suo punto di forza: l’empatia. La sua dote gli ha permesso di prendere parte a un programma innovativo fondato sull’ipotesi che il comportamento criminale possa essere categorizzato, e perciò previsto. Ma per incastrare le tessere di un puzzle è necessario prima procurarsele. Holden quindi, affiancato dal ben più esperto e integro Bill Tench, passa in rassegna i penitenziari americani. Qui incontra i maggiori serial killer della storia e, si sa, gli psicopatici sono dei narcisisti. È bene quindi compiacerli, mostrarsi indulgenti. Pendere dalle loro labbra. E Holden lo fa. All’inizio con una comprensibile riluttanza, per poi smussare l’inevitabile disgusto e il biasimo che chiunque proverebbe nell’ascoltare simili orrori.

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La fascinazione ha così inizio in Mindhunter.

La capacità di immedesimarsi in un’altra persona è un’arma a doppio taglio. Puoi penetrare nella mente di qualcuno. Vedere quel che vede lui, pensare quel che pensa lui. Agire come agisce lui. Dall’altro lato, però, il rischio è di venire risucchiati in un’identità che non è la propria, perdendo il senso di sé. Ford, per inesperienza o per arroganza, sottovaluta questa conseguenza. Anzi, non la tiene minimamente in considerazione. Imperterrito, Holden corteggia i killer dando loro pezzo per pezzo ciò che serve per farli schiudere, venendo al tempo stesso fagocitato dalle loro prospettive. Che riguardino le donne e il piacere, la vita e la morte. Guardia bassa e autostima alta: ecco servito il disastro.

Da manipolatore, Holden Ford diventa manipolato. Vittima della propria superbia e della fascinazione che non si è curato di domare. 

Ma questa è la deriva che in qualche modo già si presagiva dall’inizio, e dalla quale Tench ha cercato di metterlo in guardia:

“Se quel che facciamo non ti causa alcun disagio, o sei più incasinato di quel che pensavo oppure ti stai prendendo in giro da solo”

In questa frase si racchiude il cuore di Mindhunter. Un’esposizione assidua e martellante al male non può essere priva di conseguenze. Presto o tardi, la mera fascinazione si trasforma in osmosi, creando un equilibrio deviante tra killer e osservatore. Holden, infatti, non solo subisce il carisma: lui ci si immerge con tutte le scarpe. Ed è proprio una scarpa, una provocazione fuori misura, che accende la miccia.

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Ecco che Ford, un tempo promettente agente FBI, va in burn-out.

Diversi hanno avanzato la teoria secondo cui il protagonista di Mindhunter sarebbe anch’egli affetto da psicosi, un killer in viaggio dalla potenza all’atto. Più semplicemente (e temo semplicisticamente), Holden ha avuto la presunzione di credere di essere esente da ogni condizionamento. Insomma, si è sopravvalutato. E in un mestiere simile, in un mondo simile, la presunzione, seppur giustificata dalla giovinezza, può costare caro. Però una cosa l’ha azzeccata: se vuoi i tartufi, devi buttarti nel fango. Lui ci si è buttato, fin sopra la testa. Ma ahimè, niente tartufi. 

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