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Made In Italy – Il tentativo (fallito) di raccontare l’unicità della moda italiana

La Milano degli anni ’70 ha la bellezza di un’anima turbata, divisa a metà tra quello che la oscura e quello che, invece, ne esalta tutta la brillantezza nascosta. Ed è proprio questa Milano la grande protagonista di Made in Italy, serie tv tutta italiana prodotta da Taodue Film e The Family, disponibile su Amazon Prime e, in primavera, distribuita anche su Mediaset (che di recente ha stretto una partnership persino con Netflix).

A metà tra il biopic, il docufilm e la fiction generalista a cui il quinto canale ci ha abituato, Made in Italy vuole raccontare il periodo, forse, più affascinante e fecondo della moda italiana.

Quello delle grandi innovazioni destinate a rimanere eterne, quello delle sfide contro le convenzioni imposte dalla società, quello del coraggio di stilisti come Walter Albini, Krizia e Valentino, quello di nomi destinati a cambiare il corso dello stile nazionale e internazionale come Giorgio Armani, Gianfranco Ferré, Elio Fiorucci. Insomma, quello del prêt-à-porter che smette le (apparenti) vesti della vanità e della frivolezza e diventa, a tutti gli effetti, un manifesto politico in grado di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica più di un telegiornale, più di un comizio elettorale o di una riunione sindacale in fabbrica. Una storia straordinaria che viene presentata attraverso gli occhi di una giovane donna e di tutto quell’universo parallelo che le gira intorno e che, irrimediabilmente, si intreccia coi corsi e ricorsi storici di un’epoca per nulla semplice, fatta di importanti passi in avanti (l’emancipazione femminile è quasi la regola e il divorzio è ormai legge) e di tragici passi indietro (dopotutto, sono gli anni di piombo e credo ci sia ben poco da aggiungere in merito).

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Irene Mastrangelo è una promettente studentessa di storia dell’arte che sembra avere già pronto il futuro in cui abitare. Il fidanzato ha un lavoro stabile e un anello da infilarle al dito, ha pochi esami da finire e una tesi che la attende, due genitori che ripongono su di lei la speranza di vederla perfettamente inserita nel canone di donna, moglie e futura madre da cui nessuna ragazza (o poche) riuscivano a sottrarsi. Tutto lineare, limpido, perfetto, eppure Irene non si sente affatto comoda in questo disegno e il destino lo sa. Oh, se lo sa. Dopo un esame andato male, quasi come un segno di un cambiamento desiderato e finalmente pronto a palesarsi, un’amica, un annuncio di lavoro e, diciamolo, un po’ di fortuna, la portano lì dove troverà una vocazione, una nuova sé e una nuova vita: la redazione di Appeal.

Adesso, le premesse di Made in Italy sembrano tutte ottime, il problema è che il serial manca fortemente di originalità.

Cosa evidente fin dal primo episodio. Appena Irene varca le porte del giornale, infatti, sembra quasi di essere stati teletrasportati in una versione un po’ cheap e molto meno glam de Il diavolo veste Prada. Effettivamente, gli elementi base ci sono: ragazza capitata lì per caso e che con la moda non ha mai avuto davvero nulla a che fare; redattrice temutissima e granitica che vede in lei del potenziale ma che si impone di trattarla come l’ultimo anello della catena alimentare (almeno fino a quando non le viene impossibile non riconoscere il talento della novellina); antagonisti furbi e infidi che, lavorando alle spalle dell’ingenuo direttore, fanno di tutto per costruirsi un impero parallelo e per conquistare quel centro della scena che, più volte, si sono visti negato; fotografo affascinante e sciupafemmine che, ovviamente, non mancherà di sedurre (e abbandonare) anche la nostra redattrice in gonnella. Si potrebbe pensare: ok, alla fine i film ispirati all’universo della moda funzionano tutti un po’ così, è uno schema fisso che, bene o male, non può denotare una mancanza di creatività. Invece no: perché è legittimo utilizzare delle formule già viste o prendere in prestito storyline interessanti, ma la bravura di un autore sta proprio nel non lasciare tracce visibili di tutto questo. E in Made in Italy la copia conforme è quasi un personaggio a sé stante. Purtroppo. 

Andando avanti con gli episodi, la situazione migliora e peggiora a ritmo intermittente.

Questa nuova Irene, coraggiosa, sufficientemente sfrontata e completamente rapita da un mestiere che non avrebbe mai immaginato di poter fare e che, a dirla tutta, le calza come un guanto, che le ha dato la spinta a ribellarsi a quello che gli altri volevano da lei, a lasciare il fidanzato e a trovare un’indipendenza dalla famiglia, riesce pian piano a tracciarsi un percorso autonomo nel mondo delle nuove tendenze e degli stilisti. Catturando anche i più reticenti con le sue idee al di sopra delle regole e un piglio davanti a quale è difficile dire no.

Per quanto spesso smielato e a tratti poco realistico sia il registro scelto per raccontarla, forse, il suo percorso umano e professionale rappresenta la parte migliore di Made in Italy.

Più che altro perché denota come, talvolta, la meritocrazia riesca a farla franca, nonostante i bastoni tra le ruote e i tranelli di chi riconosce il talento dell’altro e fa di tutto per soffocarlo. Il problema, però, è che il prodotto non si propone di focalizzarsi sulla storia della protagonista (o meglio, non in toto) e invece, fin troppo spesso, i suoi drammi, i suoi turbamenti, le sue felicità, quelle dei suoi amici, finiscono con il fagocitare quello che non dovrebbe essere contorno ma piatto principale.

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In Made in Italy la moda diventa quasi un espediente per raccontare la storia dei personaggi e non viceversa. Viene quindi, fin troppe volte, ridotta a stereotipi e luoghi comuni e quando si cerca di proporla in chiave prettamente divulgativa si fa l’errore (grosso) di trasformarla in un mucchio di concetti copiati e incollati da Wikipedia, completamente privi di tutta quella magia che hanno avuto e che continuano a conservare. Nel momento in cui, infatti, nell’episodio viene presentato uno stilista, si spezza la narrazione fittizia per inserire uno spazio à la Quark che, in verità, non ottiene l’effetto sperato. Perché rompe bruscamente un ritmo che si fa fatica a recuperare, perché fa quasi sembrare il fulcro della serie tv un’aggiunta appiccicata lì, nell’ultimo e unico spazio rimasto disponibile. E così non dovrebbe essere. Almeno facendo affidamento a quanto il team autoriale ha dichiarato rispetto ai suoi intenti. 

Così come, eccessivamente affrettate e raffazzonate, sembrano essere altre trame parallele.

Quella di Filippo, grafico omosessuale che si trova a fare i conti con un amore bruscamente interrotto dal fantasma della tossicodipendenza; quella di Monica, dipinta come la solita bionda superficiale e, invece, molto più complessa di quanto il copione la faccia sembrare; quella di Rita Pasini, la redattrice di punta, un po’ troppo Miranda Priestley e un po’ troppo poco Franca Sozzani (ma interpretata da una Margherita Buy notevole), alle prese con un figlio rapito dalle promesse fatue e omicida dello squadrismo. E, a mio giudizio, unico vero personaggio di qualità dell’insieme. Anche per l’evoluzione rispetto a Irene, per la quale diventerà gradualmente la più tenera e orgogliosa delle mecenati

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L’impressione che lo spettatore trae da tutta questa carne al fuoco è che ne è stata messa decisamente troppa. E il finale lo dimostra: tutto si risolve in qualche modo sì ma in una chiave fin troppo semplicistica e ricorrendo allo stratagemma del flash forward, che porta tutto a due mesi dopo. A un nuovo Appeal che cerca di rimettersi in piedi dalle ceneri lasciate dai due traditori Andrea e Ludovica (che, nel frattempo, sono riusciti a portarsi via fotografi e sponsor e a fondare un nuovo magazine) ma che subisce un nuovo, durissimo colpo. A una Rita che si mette in pausa per dedicarsi al figlio. A un’Irene che ha trovato l’amore (complicato, complicatissimo perché rappresentare, per una volta, una storia semplice e normale è reato), ha il lavoro dei sogni (e una posizione niente male per una che è diventata giornalista da nemmeno un anno), l’appoggio di famiglia e amici ma che è costretta ad affrontare una sorpresa inaspettata e che la metterà parecchio in discussione.

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Al di là delle storie più o meno coerenti, di una recitazione più o meno debole, di personaggi che avevano potenzialità e che invece sono stati ridotti a figurine da feuilleton, probabilmente, il più grosso difetto di Made in Italy è stato proprio aver avuto l’ambizione di voler essere troppe cose contemporaneamente: una serie incentrata sulla moda ma anche sulle storie dei suoi personaggi; un docufilm ma anche una fiction adatta ai non addetti ai lavori; una collezione di biografie di grandi stilisti e, contemporaneamente, un mélo in grado di spogliarli di quell’aura sacra di cui il tempo e la carriera li hanno rivestiti, avvicinandoli alla gente. Chi si aspettava red carpet da sogno, passerelle entrate nella storia, abiti diventati simbolo di un’epoca, beh, c’è rimasto male. Anzi, malissimo. E nulla hanno potuto quegli elementi positivi che, in tanta confusione, sono riusciti ad emergere sì ma per ritornare nascosti dopo poche scene. 

Forse, la soluzione sarebbe stata focalizzarsi su un genere solo, sviluppandone bene tutti gli input.

Perché la materia c’era tutta e si sarebbe potuto ottenere davvero un buon risultato. Il risultato che la prima, vera rappresentazione televisiva del made in Italy meritava. Fiero nella sua magnificenza, luminoso nei suoi richiami all’arte e all’attualità, unico in quell’originalità che lo avrebbe portato lontano. Fino a renderlo eterno

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