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Made in Italy ha un po’ sprecato il suo potenziale

La moda italiana è nota e riconosciuta in tutto il mondo da diverso tempo, grazie in particolare alle grandi firme che si sono imposte sul mercato internazionale e sull’immaginario comune. Nella cultura popolare di massa, l’alta sartoria nostrana è simbolo di qualità, tradizione e storia, una storia ricca di passione e appassionati. La dedizione dei grandi creativi ha originato marchi di alta moda che sono delle vere e proprie eccellenze sul piano globale. Ragione per la quale, in un’era serializzata come quella in cui siamo attualmente immersi, realizzare uno show che narrasse le rinomate origini di un ambiente così affascinante e florido sembrava e sembra un’idea appetibile. A tal proposito, nel 2019 è stata pubblicata in anteprima esclusiva su Amazon Prime Video la prima (ed al momento unica) stagione di Made in Italy, successivamente mandata in onda nel gennaio 2021 in prima serata su Canale5.
Purtroppo però, nonostante la scaltra intuizione, a livello pratico lo show risulta un prodotto riuscito a metà.

Made in Italy è una serie televisiva nostrana (composta da otto episodi) che nella premessa tenta di raccontare la nascita ed esplosione a partire dagli Anni Settanta del prêt-à-porter e dell’industria tessile italiana a Milano. La protagonista è Irene, figlia di immigrati del sud che preferirebbero vederla continuare gli studi piuttosto che fare da stagista per l’iconica rivista di moda fittizia Appeal.

Tramite lo sguardo appassionato ed ingenuo dell’emergente giornalista viene ricostruita a grandi linee la genesi dell’alta moda italiana aprendo la narrazione nel 1974. La giovane, seguendo la guida dell’importante caporedattrice Rita Pasini, arriverà a piccoli grandi passi ad interagire con alcuni degli esponenti della celebre generazione di stilisti italiani che hanno reso noti i marchi di abbigliamento italiani al di fuori dei confini nazionali. Le avventure di Irene (interpretata dalla modella Greta Ferro al suo debutto attoriale) hanno come sfondo e fulcro la sommaria ricostruzione dello sviluppo del sistema dell’abbigliamento italiano, grazie in particolare ad una serie di eccellenze creative del settore che hanno raggiunto fama internazionale e si sono imposte sulla concorrenza delle altre case europee.

Oltre agli incontri con i volti delle importanti firme dell’alta moda italiana (Versace, Fiorucci, Armani, Missoni, Krizia, Valentino, ecc.) – inquadrati nei momenti in cui iniziano a muovere i primi passi verso l’olimpo del fashion – la serie porta in scena la scalata al successo lavorativo di Irene e dei suoi colleghi, ciascuno con diversi ruoli, status, background e drammi. La trama alterna le vicende relative ai temi politici e sociali dell’epoca (femminismo ed emancipazione, lotte sociali e scioperi in piazza, divorzio, abuso di sostanze, ecc.) con le peripezie che i protagonisti affrontano nello spietato ambiente di lavoro e nel quotidiano scenario della vita mondana milanese del periodo.

Le premesse sembrano buone e la storia sembra interessante sia per i veri appassionati che per i semplici curiosi. Purtroppo però, Made in Italy rimane rilegato in quel novero di show che potevano fare e dare di più.

Che cosa non ha funzionato? La fiction presenta dei punti di forza e dei punti di debolezza.

Tra i pregi dello show figurano sicuramente una buona cura per i dettagli visivi e lo sforzo produttivo per ricreare la Milano degli Anni Settanta. Grande attenzione è rivolta alla ricostruzione della giusta atmosfera, ambientando molte scene nel quartiere milanese di Barona, con edifici ed interni che contribuiscono all’anima vintage del racconto audiovisivo. Un lavoro meticoloso è evidente anche nella scelta dei costumi (con abiti originali dell’epoca) e delle tracce musicali (ad esempio, La Bambola di Patty Pravo è impiegata nell’iconica sigla) che accompagnano il racconto e ne favoriscono una buona contestualizzazione storico-geografica.

Un perno importante per lo show è sicuramente un cast di nomi noti ed apprezzati dal grande pubblico delle fiction della tv generalista, come Raul Bova (Giorgio Armani), Marco Bocci (John), Margherita Buy (Rita Pasini), Maurizio Lastrico (Filippo), Fiammetta Cicogna (Monica), Saul Nanni (Flavio) e Ninni Bruschetta (Pasquale). Nonostante i volti stimati costituiscano un buon punto di partenza in grado di attrarre spettatori per le prime puntate, sta poi al prodotto e alla performance di tali figure il compito di catturare l’audience e traghettarla da un episodio all’altro. In questo caso, nonostante alcune interessanti interpretazioni come quella di Fiammetta Cicogna e Margherita Buy, altre sono semplicemente (e per fortuna) dimenticabili, come quella di Bova, poco credibile come giovane Armani.

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In particolare però, il tallone di Achille di Made in Italy sta nella sceneggiatura. La scrittura del racconto risulta sbrigativa e superficiale, poco curata se si considera il dettagliato lavoro messo in atto per gli altri caratteri della fiction. I plot twist non sono plot twist, la storia è per lo più prevedibile e piena di clichè. La trama è ridondante e ha il sapore del ‘già visto’. Un po’ alla Ugly Betty, un po’ alla Il Diavolo Veste Prada.

In aggiunta, il settore del fashion viene ritratto in maniera poco originale e riduttiva, con diversi stereotipi tipici del panorama. Una nuova impiegata che cerca di farsi strada da sola nel duro mondo della moda grazie al suo sorprendente talento spontaneo; una datrice di lavoro severa, ma in grado di essere da stimolo per il potenziale della giovane; la storia d’amore con un ‘misterioso’ fotografo di moda; il collega di lavoro e confidente omosessuale. Questi sono solo alcuni degli elementi super-inflazionati nelle rom-com che hanno preceduto la serie e che, per questa ragione, se non vengono sviluppati in maniera innovativa ed astuta finiscono per risultare ripetitivi e scontati.

Situazioni ed intrecci vengono banalizzati dai dialoghi semplicistici e dall’eccessiva ingenuità con la quale la protagonista si muove nell’ambiente che la circonda. La sprovveduta genialità con la quale Irene si fa strada nella redazione (ogni sua idea è improvvisamente brillante e avant-garde) è tutt’altro che utile a farci simpatizzare col suo personaggio.

Buona parte delle dinamiche è sviluppata in fretta e approssimativamente. Nel ritmo narrativo, soprattutto delle ultime puntate, si evince un incalzante desiderio di risolvere tutto velocemente e far trionfare sbrigativamente le figure ‘positive’. La fiction mette molta carne al fuoco – in particolare in riferimento alle tematiche sociali e alle vicende dei singoli personaggi – ma non dedica un adeguato focus su ciascuno dei rilevanti temi portati all’attenzione. Questi sembrano esclusivamente funzionali alla contestualizzazione storica.

made in italy

Insomma, tutto ciò che scorre in parallelo alla parte più storico-documentaristica della storia sembra vacillare. Inoltre, seppur la trama che celebra la nascita della grande industria tessile italiana sia più solida, è rilegata ad un minutaggio talmente breve da non essere sufficiente a permettere allo show di ritagliarsi una dimensione propria nello sconfinato panorama seriale attuale, né a livello internazionale né sul piano locale.

In sostanza, la serie non ha sostanza. Il titolo è Made in Italy, la storia è ambientata nel periodo del ‘Made in Italy’, ma non è propriamente sul ‘Made in Italy’. Non basta inserire qualche slide-show con informazioni su degli stilisti e con foto d’epoca come intermezzi narrativi per farsi portatori di un messaggio tanto grande. Le scene degli incontri coi grandi creativi del periodo – differenti in ogni puntata – sono brevi e sbrigative, superficialmente trattate.
Il tema della moda non è centrale come titolo e premesse possono far evincere. La moda permea l’atmosfera che ricopre costantemente il contesto in cui i protagonisti si muovono, ma non è il soggetto principale della storia. Sono molte le dinamiche che vengono avviate, queste hanno come filo conduttore il fashion che orienta i personaggi e le loro azioni, ma la storia della alta moda italiana rimane per lo più sullo sfondo.

Nonostante l’apprezzato omaggio (riuscito per lo più dal punto di vista visivo) al talento dei grandi creativi e all’origine del settore dell’abbigliamento italiano, la mancanza di una propria identità pesa sulla fiction. Questa soffre troppo l’associazione ed il confronto con opere audiovisive di simile traiettoria.
Che noia i luoghi comuni, soprattutto quando non usati in maniera efficace; lo show non cattura di certo per la trama. Una premessa e un’intenzione brillanti ma, purtroppo, sviluppate in modo approssimativo, limitandosi esclusivamente alla superficie di un mondo che, a livello narrativo, offre spunti ricchissimi e molteplici direzioni da intraprendere. Colpa delle sole otto puntate? Personalmente non credo.

Le buone intenzioni ci son tutte, ma a volte non bastano, la moda italiana e la sua storia sono colme di passione, sogni ed aneddoti curiosi, un peccato, sarà per la prossima (o forse no).

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