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La Casa de Papel 2×06 – Il salto dello squa… della moto

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su La Casa de Papel

La Casa de Papel. Ah, La Casa de Papel. Una di quelle opere che polarizzano il pubblico con rarissimi eguali. Senza compromessi, senza prospettive filtrate. Per qualcuno è la più brutta serie tv di tutti i tempi, per qualcun altro la più bella. Sennò, in alternativa, “bella ma non ci vivrei”. Insomma, ha lasciato a suo modo un segno profondo nella storia recente della serialità, a prescindere da come la si pensa. Un fenomeno di massa che ha fatto discutere un po’ tutti negli ultimi anni. E che tutti hanno visto, più o meno. Ah, La Casa de Papel: sarebbe riduttivo parlarne bene o male, se ne parla e basta. Ma perché? Che ha di speciale? Perché ci ha segnato? Perché è, allo stesso tempo, profondamente intelligente e apparentemente stupida: chi l’ha scritta, a partire dall’autore Álex Pina, ha saputo benissimo cosa stesse facendo dal primo all’ultimo istante, ma sospendere l’incredulità in virtù di una coerenza interna dai confini labili non è sempre stato semplice. Anzi: talvolta è stato pressoché impossibile. Succede allora che una delle sue scene più identificative, proveniente dal sesto episodio della seconda parte, sia entrata nell’immaginario comune e abbia colpito gli spettatori con innegabili meriti sul piano espressivo, risultando essere pure uno dei momenti più bassi dell’intera serie.

E non solo, perché vogliamo esagerare: non solo è una bellissima brutta scena, ma rappresenta addirittura il salto dello squalo de La Casa de Papel. Per essere precisi: un salto dello squalo senza lo squalo, con una moto coinvolta in un’impresa altrettanto grottesca.

Ma cos’è un “salto dello squalo”? Molti di voi lo sanno già perché si parla di una definizione celebre ed evocativa, seppure spesso utilizzata a sproposito, ma chiariamo per chi ne sente parlare ora – legittimamente – per la prima volta. Complice del suo avvento è una puntata di Happy Days, andata in onda nel 1977. In quel momento, la serie era la serie delle serie: la più famosa, la più ricca, la più riconoscibile dal grande pubblico di mezzo mondo. Scritta da autori floridi e avanguardisti, capaci di inventare delle trovate poi riprese da un’infinità di altre serie tv di successo negli anni successivi. A un certo punto, però, sembra che la gigantesca popolarità di Happy Days abbia travolto anche loro, costringendoli a rincorrere la loro stessa creatura con spunti sempre più improbabili e sempre meno credibili, surreali e disancorati dalla linea tutto sommato realistica che avevano perseguito fino a quel momento. Arrivati all’inizio della quinta stagione, toccarono il fondo senza sapere che da lì in poi avrebbero iniziato a scavare: per qualche motivo, infatti, pensarono potesse essere una buona idea far indossare a Fonzie un paio di sci nautici, buttarlo in mare con indosso il solito giubbino in pelle e fargli… saltare uno squalo. Perché sì.

Il resto è storia: dal quella puntata in avanti, gli autori di Happy Days andarono ben oltre il “jump the shark”, buttarono dentro la narrazione persino degli alieni (nella stessa annata) e portarono a casa altre sei stagioni oltre a diversi spin-off. Happy Days fu ancora un grande successo per molti anni, ma è innegabile che il crollo qualitativo fu a dir poco dirompente. Per questo, il critico televisivo Jon Hein coniò la definizione “saltare lo squalo” per indicare il momento in cui una serie tv o una saga cinematografica presenta una situazione in cui si palesa platealmente l’inizio del declino sul piano della scrittura: in soldoni, quel momento in cui gli autori finiscono le idee, devono andare avanti a tutti i costi e oltrepassano un punto di non ritorno oltre il quale si ritrovano a poggiarsi su improbabili espedienti narrativi, mirati esclusivamente alla riconquista dell’attenzione del pubblico. Come è successo, per esempio, al genio che ha pensato che fosse il caso di far sfuggire Indiana Jones a un’esplosione nucleare attraverso l’utilizzo di un frigorifero.

Cosa c’entra La Casa de Papel con tutto ciò? Perché al pari di Happy Days o Indiana Jones, anche per la serie spagnola distribuita da Netflix si può identificare un momento specifico che rappresenta uno spartiacque definitivo sul piano qualitativo.

Un momento chiave ben ricordato dal pubblico, in cui La Casa de Papel è diventata altro , ha rinunciato all’idea di poter essere una grande serie di qualità e si è “accontentata” di esser “solo” un grande spettacolo finalizzato al mero intrattenimento. A differenza delle altre opere citate, però, quel momento non è arrivato a distanza di anni, ma dopo pochi episodi: nel corso della seconda parte, al sesto episodio. Cosa succede, tra uno strano interrogatorio a cui viene sottoposto il Professore, i deliri d’onnipotenza di Berlino e un Arturito in formato bomba? Tokyo, arrestata dalla polizia, beneficia dell’intervento di un gruppo armato, viene liberata a seguito di un rocambolesco assalto e poi, orfana della mente del piano… improvvisa. Così, de botto e senza senso... decide di rientrare all’interno della Zecca. Come evidenziato da lei stessa, il posto più sorvegliato dell’intera Spagna, mentre l’intera Spagna la cercava disperatamente. In sella a una moto della polizia, vestita da poliziotta. Protetta da una plot armor a dir poco esagerata, sopravvive a un’immane crivellata di colpi fatti partire dalle forze dell’ordine per impedirle la riuscita dell’impresa e… torna a “casa”. Con un salto scenicamente straordinario e narrativamente disastroso, all’apparenza. Un salto nel vuoto, in cui è mancata solo la presenza di uno squalo.

Sia chiaro: già prima del salto della moto di Tokyo, La Casa de Papel non aveva mai brillato per realismo e sembrava non essersi mai preoccupata di poter diventare un capolavoro della serialità, ma le sceneggiature avevano fin lì gestito con grande efficacia l’equilibrio sottile su cui si costruiva la coerenza interna di un racconto che presuppone una paziente e spensierata sospensione dell’incredulità. Quell’equilibrio, però, si è spezzato una volta per tutte in quel frangente, andando oltre ogni confine per plasmarsi in una creatura altrettanto originale, sempre più coinvolgente ma qualitativamente al di sotto dei presupposti che si erano creati nel corso dei primi – bellissimi – episodi. Quasi all’altezza delle migliori espressioni del genere con un margine di crescita ulteriore a cui si è rinunciato, forse consapevolmente, in nome di uno spettacolo che mirasse all’idea di essere uno spettacolo. E basta.

Tutto ciò è un problema e fa de La Casa de Papel una delle peggiori serie tv di sempre? No, affatto. Così come Happy Days ha avuto il merito di mantenere alta l’attenzione del pubblico per sei stagioni dopo il salto dello squalo, consegnandosi così alla storia con meriti che superano di gran lunga i demeriti.

La casa de papel

Si può allora rivisitare, almeno in parte, la connotazione negativa del “salto dello squalo” nella sua globalità. Se da un lato permane, laddove il declino qualitativo di un’opera porta con sé un’intrattenimento scadente e poco coinvolgente, dall’altro si può persino capovolgere in un caso come quello proposto da La Casa de Papel: una serie che ha mostrato nel tempo di non avere spiccate aspirazioni artistiche e di non volersi preoccupare granché di poter essere perfetta, ma che rappresenta allo stesso tempo un esempio di come si possa coinvolgere il pubblico con una scrittura intelligente e ben elaborata, seppure travestita spesso con una superficialità solo apparente. Una serie che ha saputo dividere ma anche conquistare una fetta importante di pubblico, lasciando un segno importante nella memoria dei più. “Madr… Parigi val bene una messa”, direbbe qualcuno: un sacrificio qualitativo necessario, seppure non indispensabile. Funzionale alla costruzione di una narrazione che non si preoccupa più di niente pur di divertire milioni di persone. Quelle che non cercano altro da una serie tv, come succede da sempre. Alla faccia della qualità, e di un salto dello squalo che forse può rappresentare, talvolta, una vera alba delle idee e non il tramonto delle stesse.

Forse ci arriveremo, un giorno: no, La Casa de Papel non è stupida. Così come non è mai stata stupida Happy Days, a dispetto dei critici più accaniti delle accademie più spocchiose: ha solo fatto finta di esserlo, prendendoci in giro fin dal primo momento. O quantomeno, dal momento in cui Tokyo è salita su quella maledetta moto e ci ha fatto sobbalzare dalla sedia senza farci pensare che gran parte di noi, anche di chi non lo ammetterà mai, si stesse divertendo un mondo. Come successe nel momento in cui gli inconsapevoli inventori del salto dello squalo pensarono potesse essere giusto inserire Mork, proveniente dal pianeta Ork, tra un’avventura e l’altra di Fonzie e Richie Cunningham: senza quella trovata, un giovanissimo Robin Williams, interprete del personaggio, avrebbe rischiato di non diventare il Robin Williams che abbiamo tanto amato nel corso della sua straordinaria carriera. E tutti noi avremmo perso tantissimo, senza saperlo. Quindi va bene così, tutto sommato. Ben vengano i punti di non ritorno, se le conseguenze sono queste: potrebbero portarci verso lidi inesplorati, meravigliosamente brutti. Nel tempo di un salto impossibile.

Antonio Casu

La puntata 2×06 de La Casa de Papel verrà raccontata, approfondita e analizzata anche giovedì sera 25 maggio alle 21.00 sul nostro canale Twitch: ci trovate sotto il nome hallofseries_com. Vi aspettiamo!