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Killing Eve: emozioni (molto) disfunzionali

*ATTENZIONE SPOILER*: QUESTO PEZZO CONTIENE SPOILER SULLA QUARTA STAGIONE DI KILLING EVE.

Killing Eve fu un qualcosa di nuovo quando, nel 2018, arrivò per la prima volta sui nostri schermi. Non per la storia: abbiamo già visto serie tv o film intenti a narrare la relazione tossicamente morbosa tra un detective e un criminale. Gli esempi che arrivano nella nostra mente sono molteplici: Hannibal Lecter e Will Graham (filmicamente invece con Clarice Sterling), Sherlock Holmes e Jim Moriarty, Jessica Jones e Kilgrave tanto per nominarne alcuni. Eppure, nessuno è come Eve e Villanelle, il cuore della serie tv firmata Phoebe Waller-Bridge. In primis perché sono due donne; in secundis perché il loro rapporto non è così facile da definire come potremmo pensare inizialmente e da loro si articola un universo narrativo così complesso che ci coinvolge emotivamente e ci immerge in esso come pochi.

Eve, agente dei servizi segreti inglesi, è una donna intelligente, disordinata e ritardataria, concentrata sul lavoro e con vita piuttosto ordinaria. Lei è quella buona e giusta; è quanto di più lontano possa esistere da Villanelle, talentuosa sociopatica priva di empatia o morale, che esprime sé stessa e la frustrazione verso il mondo attraverso l’omicidio e la violenza. È sensuale, affascinante, stilosa, pericolosa, folle, comica, brutale. Misteriosa.

Il loro rapporto ambiguo si convertirà in quell’emozione che, in un modo o nell’altro, attraversa tutti i personaggi di Killing Eve: ossessione. Colorata, in questo caso, dall’erotico rosa e dal sanguinario rosso.

L’ossessione di trovarla, di scoprire qualcosa di più del loro oggetto del desiderio, di capire perché si sentono così attratte l’una dall’altra, di continuare questo gioco mortale al gatto e al topo, di eccitarsi per ogni messaggio ricevuto dall’altra, di incontrarsi fugacemente per poi veder scappare via la preda. Opposte sì, ma fino a un certo punto: Eve e Villanelle parlano lingue diverse, eppure cogliamo una connessione profonda tra loro, una comprensione intima e viscerale.

Killing Eve

Il fascino che Villanelle esercita su Eve – e Carolyn, Konstantin, Hélène e tutti noi – è totale e terribile.

Lei è fortemente contraddittoria. Deve passare inosservata per il lavoro che svolge, tuttavia attira su di sé ogni sguardo, perché il modo in cui si veste è sempre elegantemente eccentrico. Si trasforma costantemente e reinventa sé stessa grazie ai suoi mille travestimenti. Imprevedibile e creativa, vive le missioni come se si trovasse su un palco teatrale che la forza a essere ogni volta eccellente e impeccabile. Poi adora quello che fa, sa di essere la migliore ed è consapevole della sua psicopatia, usandola spesso come scusa per poter agire senza curarsi degli altri. Non ha paura di essere sé stessa, anche se velata di malinconia o annebbiata dalla rabbia: nel bene e nel male, quando la guardiamo, siamo di fronte all’autenticità fatta persona, a un bellissimo affascinante mostro.

Ma soprattutto Oksana (per chi non lo rammentasse, il vero nome dell’assassina) apre le porte di un mondo precluso e impenetrabile: quella vita fatta di eccessi, dominata dal desiderio e dall’opportunità di sfogarsi senza doverne subire le conseguenze, averne paura o preoccuparsi dei risvolti economici, familiari o personali. Noi siamo Eve che trova in Villanelle l’esternazione di impulsi profondi, oscuri e repressi. Però, allo stesso tempo, ne ammira le gesta, il suo modo di convertire la violenza in arte.

E con il procedere di Killing Eve i confini netti che circondano le due donne iniziano a disperdersi, a ibridarsi: così l’oscurità entra in Eve, l’umanità in Villanelle.

Oksana la porta all’estremo, la routine professionale di Eve si interrompe, il suo matrimonio si sgretola. La protagonista inizia a mettere i piedi là dove vede le impronte di Villanelle, perdendo il controllo della sua vita e i problemi non smettono di proliferare sul lavoro e nella quotidianità. Finché la donna viene portata dalla stessa assassina, che la guarda soddisfatta e fiera, a compiere il gesto estremo dell’omicidio. Era inevitabile la caduta dell’eroina, ma impossibile non rimanerne angosciati. Perché abbandonarsi ai propri istinti repressi è adrenalinico, letale e spaventoso; così come è terrificante quanta violenza possa nascere da questo tipo di emozioni disfunzionali.

Una volta però entrati nel lato oscuro, come Eve nella quarta stagione, uscirne è difficile.

Perché semplicemente non lo vogliamo, la stessa Eve si crogiola all’interno della nuova sé. Più sicura, sfrontata, apparentemente libera dalla dipendenza con Villanelle. Adesso è la cattiva, si considera l’altra e non c’è niente che Oksana possa più darle perché da lei ha preso tutto, perché non è più l’eccitante donna di un tempo. Quell’eccitazione che esplora nel rapporto con la seducente Hélène, così simile a Villanelle eppure tanta diversa, perché dalla francese non vuole le stesse cose, vuole solo il potere. Eve segue gli insegnamenti della sua maestra in un primo incontro con Hélène che non va proprio come desidera. Eppure sorride, galvanizzata da quanto possa essere intensa la vita: è la stessa sensazione elettrica che le suscitava Villanelle.

Indifferenza mostra verso quest’ultima quando si spoglia davanti a lei, dimostrando che le dinamiche tra le due sono cambiate, ma anche consapevolezza di doverla fermare, consegnandola finalmente alla polizia, perché la sta intralciando, perché non rientra più nei suoi piani e perché il rapimento del terapeuta Martin non è altro che il primo dei suoi giochetti. Tuttavia, non può far a meno di pensare a Villanelle, anche e soprattutto quando bacia un’altra.

Killing Eve

Villanelle, invece, è incuriosita morbosamente da Eve perché la ritiene l’unica persona in Killing Eve che la vede in profondità, capendola come nessun altro.

Beh, del resto è questo il suo lavoro, la profilazione dell’assassina, con l’intento di catturarla e sbatterla in prigione. Anche se Villanelle sembra dimenticarsene. Così ogni episodio contribuisce ad aggiungere un tassello al puzzle con la sua figura, mentre gli strati della sua armatura piano piano cadono lungo il loro pericoloso e sensuale gioco. Oksana, grazie a Eve, prende coscienza di quelle emozioni che, all’inizio di Killing Eve, si vantava tanto di non possedere. Perché sì, anche le killer sadiche e narcisistiche come lei hanno dei sentimenti. Allora l’egoismo e il senso di possessione e controllo che provava verso Eve si rompono in mille pezzi su quel ponte alla fine della terza stagione.

Lì Oksana capisce che amare significa mettere la felicità e il benessere dell’altra prima del proprio, anche se vuole dire rinunciare a lei e sacrificare la propria passione. E allora la libera dalla sua vicinanza tossica, si allontana non per un desiderio egoistico di accontentare sé stessa, ma per proteggere il suo amore, permettendole di volare lontano da chi non ha fatto altro che ferirla e provocarle sentimenti disfunzionali.

Il diavolo ritorna angelo e Villanelle diventa umana, fallibile esattamente come noi, con il cuore distrutto e il dolore della rinuncia nell’anima. E non c’è nulla di più attraente di qualcuno così distante da noi che si scopre invece essere così simile. Ma dalla quarta stagione Oksana è spenta, vuota, alla ricerca disperata dell’approvazione di Eve e di un qualcosa che riempia la sua estrema solitudine. Ci pensa Carolyn a svegliarla da questo lungo coma a occhi aperti, ricordandole che è meglio fare quello in cui è brava piuttosto che sforzarsi di essere qualcuno che non è. Ritrova così il gusto dell’omicidio e l’emozioni appena conquistate la cambiano e le fanno capire che non deve necessariamente uccidere tutte le persone che incontra. Solo quelle che se lo meritano, come quel misogeno russo dei Dodici.

È chiaro dunque che l’interesse che Eve e Villanelle provano per l’altra ha radici profonde e inconsce: la prima riesce a riempire quel vuoto che nemmeno lei sapeva ben identificare, la seconda invece trova qualcuno che per la prima volta in vita sua l’ama così com’è.

Sono l’una il riflesso dell’altra e non è un caso che il loro primo incontro avvenga proprio di fronte a uno specchio in Killing Eve.

Entrambe guardano la loro immagine, per poi passare a osservarsi a vicenda, in un momento in cui non sanno ancora chi hanno davanti. Di fronte a quello specchio si scindono e la loro donna interiore, quella che vedono riflessa nell’altra, inizia a emergere. Eve ne è terrorizzata, Villanelle intrigata e le loro sfide ossessive le conducono a raggiungere ciò che vogliono davvero, ciò che l’altra possiede. E così distruggono l’immagine data loro da altri e si scoprono più uguali di quanto non pensassero – perché solo nel confronto con il prossimo scoviamo davvero noi stessi.

Ma è da quella scena che le due iniziano a cercarsi, allontanandosi e avvicinandosi come in una molla. Una distanza emotiva e reale che, quando è ridotta al minimo, viene sottolineata da Killing Eve stessa, rendendo l’identificazione dei luoghi più sfumata. Come a sottolineare che Villanelle non è scappata in qualche parte remota del mondo, ma è ancora in quella che la tiene vicina a Eve, fisicamente e interiormente. Perché la loro affinità in Killing Eve, come descrive Phoebe Waller-Bridge, “è sessuale, è intellettuale, è aspirazionale”, cosicché anche quando sono lontane, le due sentano sempre la presenza dell’altra, influenzandosi continuamente a vicenda, modellandosi come fogli di cartapesta e scoprendo sentimenti che non sapevano di avere, che non vorrebbero avere. Come tutti noi.

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