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Non si capisce se Inside Man sia una fantastica genialata o un’immeritata presa per i fondelli

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler su Inside Man

Un cast d’alto livello, ma alto sul serio. Stanley Tucci è un attorone come pochi se ne sono visti nella storia del cinema e vederlo in una serie tv del genere è un vero piacere. Mentre David Tennant può interpretare quello che gli pare ed essere sempre efficacissimo. Vuole fare il Dottore a spasso nel tempo? È un fenomeno. Un demone, tipo quello di Good Omens? Va bene lo stesso. Uno dei migliori villain nella storia seriale della Marvel? Il tenebroso detective? Attraversare il mondo in ottanta giorni? Interpretare un anonimo idraulico di provincia? Nessun problema: Tennant è sempre Tennant. È sempre perfetto, anche se nessuno l’ha ancora scritturato per fare l’idraulico. Poi Lydia West e soprattutto Dolly Wells, non certo le ultime arrivate: brave, brave veramente.

Bene: il cast d’alto livello, alto sul serio, è al servizio di un grande autore, grande sul serio. Steven Moffat. Quello di Doctor Who e di Sherlock, ma anche di un bizzarro Dracula e un’ottima moglie di un viaggiatore nel tempo. Che non è il solito Dottore, anche se l’ha scritto il solito Moffat. Il grande autore è britannico e le serie britanniche, si sa, sono belle. Oddio, non sempre. Ma quasi. Nel momento in cui si inizia una serie britannica, è molto più probabile trovarsi di fronte a un prodotto di qualità e non a una schifezza. Poi parliamo di un prodotto della BBC. La BBC, una delle poche certezze che avremo mai nella vita. Quindi ne eravamo convinti, convinti sul serio: Inside Man aveva tutto, proprio tutto, per diventare una delle migliori serie tv del 2022. Perché sembrava inevitabile, persino scontato. Ovvio, nonostante non avessimo la minima idea di cosa avesse concepito stavolta quel genio di Moffat. Bene, ora lo sappiamo. Forse, lo sappiamo. Perché l’abbiamo capita, Inside Man. Per certi versi. Ma per altri non l’abbiamo capita, non l’abbiamo capita sul serio. E non abbiamo manco capito se Moffat abbia fatto o meno, per l’ennesima volta, la seconda cosa che gli viene meglio nella vita: prendere per i fondelli, brillantemente, chi si avventurerà in una qualunque sua opera. E farlo di gran gusto, con quello humour tipicamente britannico che ti fa rimpiangere di non essere nato in un villaggetto sperduto dell’Essex.

Approfondiamo quindi la questione: abbiamo sprecato quattro ore della nostra breve esistenza, dietro Inside Man? Oppure è un capolavoro? Una straordinaria genialata o una monumentale trollata? Boh. Proviamo a dare una risposta, senza garantirla in alcun modo.

Andiamo con ordine. Proviamoci, almeno. Inside Man, da pochi giorni disponibile su Netflix, racconta due storie a dir poco surreali. Nella prima, il protagonista è un brillante criminologo statunitense (Stanley Tucci), in carcere da dieci anni e condannato a morte per il brutale omicidio della moglie. Un omicidio del quale non si pente affatto, così come sembra accettare senza problemi una pena pesantissima, la peggiore possibile. L’accetta ma per restituire al mondo un barlume di bellezza, dopo aver macellato l’amore della sua vita, continua a fare il suo lavoro: risolvere dei cold case, a patto che si individui un valido vincolo morale. E farlo con la brillantezza di uno Sherlock Holmes sui generis. Ma anche no: Jefferson Grieff è uno Sherlock Holmes, letteralmente. Uno Sherlock Holmes che a un certo punto ha una giornata storta, trova sulla sua strada la persona giusta e diventa un cruentissimo criminale. Criminologo. Geniale. Talmente geniale da esser capace di risolvere degli intricatissimi casi pur essendo chiuso in prigione. Perché sì: per qualche motivo, Grieff, condannato a morte e isolato dal resto del mondo, è amicone del direttore del carcere e può comunicare senza problemi col mondo esterno. Soprattutto, è capace di risolvere un caso attraverso dei dettagli apparentemente insignificanti. Talmente incredibili da essere, forse, insignificanti sul serio.

Poi c’è David Tennant. O meglio, Harry Watling. Un prete britannico, un prete qualunque. Sexy, qualunque. Piuttosto ordinario, senza dubbi: il pastore anglicano è un uomo di provincia dai saldi valori e supportato da una solida famiglia, amorevole e semplice. Ma a un certo punto succede qualcosa di brutto: uno dei suoi sagrestani è uno squallido pedofilo e gli chiede di aiutarlo a nascondere il suo terribile segreto. Dentro una pen drive che entra in suo possesso. Purtroppo, però, una serie di fraintendimenti portano il prete a scontrarsi con la tutrice di suo figlio, Janice Fife, e addirittura a segregarla per giorni dentro la cantina di casa sua. Questo fatto rappresenta un vero spartiacque nella sua anonima esistenza: il prete è pronto a tutto pur di tutelare il futuro di suo figlio, davvero di tutto. Anche uccidere una donna innocente. Ma lui sembra non saperlo, non fino in fondo: Harry combatte contro gli spettri che albergano dentro di sé e fa un errore dietro l’altro. Decine di errori, di fila. Irragionevoli, sciocchi. Senza senso. La trama di Inside Man si incarta qua, oppure è qua che si dipana con la linearità del grande racconto: non è dato saperlo. O forse sì. Perché il punto è uno, in sostanza: non c’è una vera logica in tutto quello che succede nei quattro episodi di questa bizzarra miniserie. O meglio, una sì, sbattuta in faccia a più riprese: chiunque può uccidere chiunque altro in qualunque momento, se si creano i presupposti giusti. Il fato, padre amorale, domina le nostre fragili esistenze e annulla le distanze tra il bene e il male, portandoci ad abbracciare una natura animale che siamo più o meno in grado di accettare e indirizzare nel sentiero che riteniamo più giusto. Basta? Fino a un certo punto.

Il problema (o il pregio) è che a partire da questo presupposto vale tutto, ma davvero tutto. I personaggi sono dei perfetti idioti o dei geni illuminati, senza filtri. Esasperano ognuna delle proprie azioni, prendono delle decisioni incomprensibili o si trasformano nei più beceri dei deus ex machina. Sono protagonisti o complici dei colpi di scena più assurdi e rendono frustrante la visione di Inside Man. Ma anche divertentissima. Si ride di gran gusto, mentre ci si dovrebbe disperare. Ci si dispera, mentre si dovrebbe ridere. Si arriva a detestare chi si dovrebbe sostenere e sostenere chi si dovrebbe detestare: i personaggi si scambiano le parti senza mai interpretare qualcun altro, escono dalle maschere che sembravano esser state impostate per loro e distruggono ogni potenziale schema, disorientando completamente il povero spettatore. Alla deriva, in totale confusione. Fino ad arrivare a scagliarsi contro quella che in teoria dovrebbe essere l’unica vera vittima di questa storia: Janice.

Una smisurata sequenza di improbabili circostanze si intersecano tra loro e trasformano il drammone in una farsa. Un racconto grottesco, serissimo. Ma anche ridicolo e, perché no, persino parodiale e comico. Lo spettatore di Inside Man, da parte sua, non sa fermarsi. Non molla la visione, smette di farsi delle domande e poi se le fa di nuovo. Si fa trascinare dagli eventi, cerca un filo nel senso delle azioni del prete ma poi lo molla. Crede al criminologo, lo ama pur dovendolo detestare, spalleggia tutti e non spalleggia nessuno. In un crescendo emotivo che lo porta ad aspettarsi di tutto, quasi fosse finito per sbaglio dentro uno sketch dei Monty Python, boccheggia. Anche se un tempo lunghissimo trascorre in un istante. Poi, a un certo punto, arriva al finale. Ancora più assurdo e apparentemente casuale di tutto il resto. Perché, limitandoci a un singolo esempio, Janice non muore e non abbiamo la minima idea del motivo. Viene salvata dal criminologo, chiuso in cella dall’altra parte del mondo, attraverso una squadriglia che sembra uscire così, de botto, da una puntata dell’A-Team. Mentre guardi un thriller britannico che ha qualcosa di Fargo e qualcosa di Mr. Bean. Col prete in carcere, e almeno su questo avevamo pochi dubbi. Ma pure una scena post-credits che confonde ulteriormente le acque e chiude con coerenza la miniserie attraverso l’ultima delle trollate: una possibile seconda stagione.

Torniamo quindi, in conclusione, alla domanda iniziale: Inside Man è una fantastica genialata o un’immeritata presa per i fondelli? Il cast di fenomeni, guidato da un fenomeno d’autore dentro una piattaforma fenomenale, ha avuto una giornata storta e s’è ritrovato dentro una serie nata benissimo e finita malissimo? Oppure tutti hanno capito tutto e gli unici a non aver capito niente siamo noi? Entrambe le cose, forse. Inside Man non è un capolavoro ma è allo stesso tempo geniale, perfetta nella sua spudorata imperfezione. Impertinente e stupida, eppure intelligentissima e brillante. Scritta benissimo, male. Ed è paradossalmente realistica, nel suo essere ostinatamente grottesca.

Pensiamoci, per un attimo: ognuna delle nostre vite segue la logica di un narratore senza pecche? Oppure è piena di insensati buchi di trama? E cosa faremmo, lucidamente, se ci trovassimo a un passo da un omicidio? Saremmo illuminati come il criminologo o caotici come il prete, inconsapevole topo da laboratorio del primo? Diciamolo, allora. Forse ci siamo: Inside Man è, in definitiva, una geniale presa per i fondelli. Niente più, niente meno. E Moffat se la ride, ancora una volta. Mentre Inside Man domina le graduatorie di Netflix e noi non possiamo fare a meno di parlarne, dopo averla amata e detestata con la medesima intensità. E aver buttato al vento quattro ore delle nostre brevi vite. Ma sai che spasso, perdere tempo così.

Antonio Casu