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L’inconsulta ilarità di Inside Man

Attenzione: evita la lettura se non vuoi imbatterti in spoiler di Inside Man

Se qualcuno ci avesse detto che, dopo Sherlock, Steven Moffat ci avrebbe sorpresi di nuovo, forse non ci avremmo creduto. Eppure, Inside Man è un altro particolarissimo e altrettanto sbalorditivo prodotto che dalla penna di Moffat prende vita grazie a Netflix. Questa volta è una miniserie, e soprattutto questa volta il genere è molto meno definito, ma pur sempre derivante da grandi ispirazioni e da grandi suggestioni. Moffat, infatti, non è nuovo alla pratica di trarre ispirazione dalla grande letteratura, e Sherlock ne è l’esempio supremo. Con Inside Man la citazione è molto meno palese e forse anche volutamente nascosta; eppure, quel fantastico criminologo che è al contempo un assassino efferato ci ricorda qualcuno. Ma andiamo per gradi. Inside Man è una miniserie distribuita da Netflix nel 2022, passata leggermente in sordina a causa, forse, del precedente flop di Moffat, Dracula. Invece, Inside Man merita qualcosa di più. Per quanto possa apparire enigmatica e forse anche caotica in alcuni punti, la miniserie è interessante e originale soprattutto da alcuni punti di vista che non ci aspetteremmo mai, come l’ironia sferzante e inquietante che la contraddistingue. Sappiamo, infatti, che Steven Moffat non si ferma mai alle apparenze e non è quasi mai interessato al mero racconto; in quanto inglese il sarcasmo fa parte del suo DNA e, anche in prodotti come Inside Man, non può certo mancare un certo black humor.

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Il presupposto di base di Inside Man è un grande equivoco, espediente che già di per sé risulta spesso ironico, che finisce per diventare una grande tragedia. Da una parte c’è un candido prete di periferia, interpretato da David Tennant, e dall’altra uno spietato omicida che è anche un ex professore e criminologo, Stanley Tucci. A tenerli insieme (uno è in Inghilterra, l’altro in un carcere di massima sicurezza negli Stati Uniti) è la giornalista Beth, amica della vittima, che indaga sulla sua scomparsa e si fa aiutare dal criminologo nella ricerca.  Tenendo da parte una nota sulla fantastica interpretazione di tutti gli attori coinvolti, è interessante focalizzarsi sul gioco che Inside Man mette in atto coinvolgendo il bene e il male. In un complicato scenario di omicidi e bugie, tipico del genere crime, Inside Man inserisce una punta di ironica tensione dovuta soprattutto allo stravolgimento dei ruoli classici; così il prete Harry non è più il bene assoluto ma diventa carnefice, la vittima non è più solo indifesa ma dimostra di essere scaltra e intelligente, il cattivo omicida richiuso in una cella non è più solo il male incarnato ma anche il deus ex machina necessario a risolvere il caso.

Steven Moffat, insomma, con Inside Man gioca con la percezione dello spettatore, come già succedeva in Sherlock.

Ma con Inside Man il gioco è più sottile: non è immediato, la miniserie gioca molto con i generi e crea un mix tra un crime vero e proprio e una commedia, ma anche tra un dramma e un noir. La nota ironica più grande e più evidente, invece, sta sicuramente tutta nel personaggio di Jefferson Grieff, lo spietato omicida della moglie che ha anche, a momenti alterni, una morale non del tutto definita. Grieff, interpretato da un bravissimo Stanley Tucci, si mostra per quello che è e come un novello Hannibal Lecter scherza sul suo passato e sulle sue azioni, senza mostrare mai alcun segno di pentimento. “Tutti sono assassini. Bastano una buona ragione e una brutta giornata”, sostiene in una delle interviste che fa con la giornalista Beth. In una frase, tutta l’ironia della miniserie, tutta la sfrontatezza con cui viene affrontato il tema. Nel suo personaggio si racchiude molta della tensione ironica che definisce Inside Man, soprattutto perché è forse il personaggio più interessante dal punto di vista personale e morale. Il suo opposto, Harry, è meno sfrontato e meno caparbio ma, a modo suo, anche lui molto comico.

Il personaggio di Harry ha una comicità più classica, meno enigmatica del suo rivale e anche più palesata nel corso delle quattro puntate che compongono Inside Man. Harry è un uomo molto semplice, casa e chiesa, ama la sua famiglia ed è molto legato alla sua pacifica vita nella sua casa di campagna tipicamente britannica. Quando qualcosa sconvolge questo suo equilibrio, letteralmente non sa come comportarsi: le accuse che gli muove Janice, l’insegnante del figlio, sono assolutamente infondate e da qui nasce l’equivoco da cui partirà tutto il caso. Ma nonostante sia innocente, Harry non sa come muoversi, è impacciato e insicuro e questo farà di lui un personaggio tragicomico, a metà tra la compassione e la rabbia. Tutta l’ironia del suo personaggio è un’ironia caustica, cinica e mai completa. Spesso ci ritroviamo a chiederci perché fa così tenerezza, come fosse un bambino indifeso che non sa dove sbattere la testa. In questo senso, segue molto il filone narrativo che Moffat dà alla miniserie, portando avanti una linea sarcastica laddove il sarcasmo è l’ultima cosa che ci aspetteremmo di vedere. Sia in Harry che in Grieff la vena comica è quasi fuori luogo, è un’appendice visibile ma non marcata che ci mette quasi a disagio e che ci rende difficile interpretare i ruoli.

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La dicotomia su cui gioca Inside Man delinea perfettamente tutta la vena ironica su cui si basa: Inside Man è un doppio binario, da una parte il bene dall’altra il male, da una parte gli Stati Uniti dall’altra l’Inghilterra, da una parte la fredda cella di un uomo condannato a morte dall’altra la calda casa di campagna di un uomo qualunque, da una parte la giocosità quasi infantile di un uomo consapevole di chi sia dall’altra la goffaggine di un prete che a malapena conosce se stesso. Inside Man fa un lavoro comico sui suoi personaggi che, però, non vengono caratterizzati dalla loro simpatia ma che fanno di quest’ultima un espediente per sopravvivere. Lo stesso Moffat che, come si è già detto, ama prendere un po’ in giro il suo spettatore, sembra divertirsi con Inside Man, sembra sorridere di fronte alla stramberia e all’enigmaticità che alcune scene ci restituiscono. Per questo motivo l’ironia di Inside Man non è palese ma non è neanche così nascosta, semplicemente non è scontata e spesso appare poco confortevole. Il gioco di luci e ombre che sembra essere una costante di Inside Man è anche un gioco di piani narrativi, di ricambio continuo di linguaggio, di intersezioni dei piani d’azione. La dinamicità, in Inside Man, crea una tensione ironica, che ci spinge a volerne sempre sapere di più.

Inside Man non ci fa ridere a crepapelle e di certo nessuno la definirebbe una serie comica. Eppure, la bravura di Moffat lo spinge ad una commistione di generi che coinvolgono anche la sfera ironica e che, nonostante non ce lo aspetteremmo mai, funziona. Lo scopo dell’ironia black di Inside Man non è tanto quello di farci ridere, quanto quello di metterci a disagio, in un gioco di prospettive sfalsate e piani ribaltati che ci tengono incollati allo schermo. È un’ironia che smorza il thriller, un sarcasmo che rende il crime più avvincente e anche più interessante. È come se fossimo costantemente in quella cella, insieme a Beth e a Grieff: un ambiente ostile ma anche riconoscibile, un interlocutore di cui avere paura ma anche da cui essere affascinati, un soggetto estraneo (il personaggio di Dillon, compagno di cella di Grieff che registra con la sua memoria eidetica tutte le conversazioni, è uno degli espedienti più genuinamente ironici di Inside Man) e infine una conversazione pesante ma anche coinvolgente e, a suo modo, spiritosa, che coinvolge la morale ma anche la vita vera. Inside Man sfrutta l’ironia a suo vantaggio, per mettere lo spettatore nella posizione più scomoda possibile, affinché riesca finalmente a capire che non esiste bene o male e che non tutto può essere sempre bianco o nero. Ci può sempre essere di mezzo una brutta giornata.