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La spiegazione del finale di Dexter

La spiegazione del finale di Dexter è in Dexter stesso. Nel suo cammino, nel suo incerto procedere, nell’irrefrenabile pulsione di un orrore umano. C’era un uomo e c’era un mostro. C’è stato l’orrore, il tremendo, indicibile stupro della purezza. La lacerante visione del male. In quel male un bambino è stato battezzato. Nel sangue della madre consacrato. È un male atavico, quello. Un male disumanamente umano. È l’omicidio del biblico Abele. La vita che toglie altra vita. Perché l’uomo nel mondo è anche questo. È anche orrore. E nessuno può sottrarvisi. C’è l’ombra e c’è la luce.

C’è soprattutto il grigio di chi non ha forma, di chi non ha volto.

Spesso proviamo a darcelo quel volto. Madre, moglie, marito, figlio, amico. Buono, cattivo. Furbo. Onesto. Ma la verità è che sono vuoti appellativi perché a ben vedere non siamo altro che informi prodotti di scelte. A volte, e non sempre, nostre. Capita così che Dexter viva un male imposto. Viva e alimenti in sé un orrore incomprensibile. Perché quando si è puri si è vuoti e spesso è un gesto a determinare una vita di moralità o amoralità. Dexter

C’è un romanzo. In questo romanzo il protagonista ha come primo ricordo un’immagine. “Una quieta sera d’estate, una finestra aperta, i raggi obliqui del sole che tramontava”. In un angolo un’immagine sacra, una Madonna. La madre che lo stringe, il volto sacro insieme al viso del genitore. Alëša consacrerà la sua vita a quel ricordo. In quel calore materno fonderà il suo essere e finirà per donarsi agli altri. Alëša sarà uno dei “portatori di bellezza” del capolavoro dostoevskijano I fratelli Karamazov.

Dexter quella bellezza non può diffonderla. Perché il suo primo ricordo è l’orrore, non la Madonna ma il sangue. Non la quieta sera d’estate ma l’asfissiante container nell’umido porto di Miami. Non il calore materno ma la rigidità di un corpo morente. Dexter come Alëša è stato battezzato in un ricordo. Come l’uno sarà vittima di quella bellezza che perseguirà disperatamente e quasi ridicolmente così il secondo accetterà il sangue. Maledetto nel sangue Dexter condurrà la sua esistenza.

Un mostro. Qualcosa che non ha mai scelto di essere ma che, inevitabilmente, è.

Il codice di Harry sarà in questo soltanto la canalizzazione di un male, apparentemente, inestirpabile. In quel codice c’è il riconoscimento di un fallimento. Del fallimento di Harry, arreso davanti alla consapevolezza che Dexter, quel suo figlio tanto amato, non potrà cambiare. Quando il buio entra nel vuoto di un’anima pura quell’anima non può rinnegarlo. Perché rinnegare il male vorrebbe dire ammettere lo straziante orrore di ciò che è accaduto. Ammettere un eterno tormento infernale. Una pazzia senza ritorno. Ma se ti fai portatore di quel male, allora anche il più tremendo atto di ferocia diventa accettabile. Perché lo rendi parte di te e perciò, in un certo senso, controllabile. Spiegabile. Ammissibile.Dexter

Dexter non può smettere di uccidere perché l’alternativa è il collasso di tutto se stesso. Di quell’umanità fondata e battezzata nel sangue. Umanità sì, perché nonostante tutto, nonostante il sangue, siamo sempre di fronte a un uomo. Un uomo che desidera amare ed essere amato. Che vuole provare amicizia e affetto. Che, in una parola, vuole vivere. Quelle emozioni sembrano precluse, irrimediabilmente stroncate dal suo male. Eppure, trovano modo di esprimersi. Un primo amore, un amico con cui confidarsi. Un fratello. Le prime tre stagioni presentano i tre volti possibili di un’umanità nuova. Ma quell’amore si rivela perverso, l’amicizia un’illusione. E nel fratello scopre nient’altro che una faccia ancor peggiore della sua.

Brian, Lila, Miguel. Tre volti del fallimento.

Di stagione in stagione, di omicidio in omicidio Dexter però muta. O almeno così sembra. Desideriamo così ardentemente che quell’orrore personificato nel protagonista diventi “accettabile” che finiamo per vedere umanità là dove, forse, non c’è. Un sorriso – chissà! – genuino, una carezza, un gesto di apparente amore. Ci soffermiamo minuziosamente su ogni micro espressione sul suo volto. Noi vogliamo che sia vero. Noi vogliamo che sia umano. Così quando nell’ottava stagione la dottoressa Vogel ci mette di fronte alla rivelazione che Dexter è uno psicopatico e ci chiede indirettamente di pensare a un solo gesto realmente altruistico da lui compiuto non abbiamo risposta. Perché ogni sua azione potrebbe essere spiegabile in funzione della sua egoistica sopravvivenza.

Per la Vogel Dexter è un mostro, un animale che vuole solo continuare a vivere. Un meraviglioso errore di natura che non trova il suo posto nel mondo perché quel mondo non è stato pensato per lui. Dexter imita i sentimenti, finge empatia. Vorrebbe amare ma non ama. Vorrebbe solidarizzare ma non sente. La sua sola colpa è stare al mondo, a questo di mondo. Fingersi ciò che non è, nascondersi dietro una maschera.

Ma quello che la Vogel non conosce è il grigio dell’umanità. Il grigio di un bianco che si mescola al nero. Di un volto che non è mai univoco.

Dexter battezzato nella morte dell’amore della madre, viene ri-consacrato nella morte di un altro amore, quello di Debra. Ma paradossalmente è proprio la morte a generare amore. Fa emergere in lui un sentimento che segretamente ha attraversato ogni momento della sua esistenza. Fino ad allora non era mai realmente stato vittima di quel sentimento. L’oscuro passeggero aveva sempre avuto un posto d’onore. Ma in ogni gesto altruistico, in ogni sorriso sincero, in ogni atto d’affetto che altri hanno rivolto a Dexter si è alimentata un’emozione. Ora, nel dolore, nella rabbia, nella tristezza e nella disperazione l’amore emerge. Lo fa nel male perché non potrebbe essere diversamente. Perché quel male è in Dexter.Dexter

Oscurità e amore. Ora, finalmente, insieme. Entrambi in superficie. L’amore non più rintanato si scopre forte e vincitore. L’amore vince ma lo fa nella sconfitta. È questo il paradosso di Dexter: amare ed essere amato ma essere anche portatore della distruzione di quell’amore. “Distruggo tutti quelli che amo”, confida a se stesso. Ora che è in grado di amare non può farlo. Perché amare significa donarsi all’altro, sacrificarsi per il bene dell’altro. È tutto qui il significato del finale di Dexter. In quella rinuncia all’amore che è la prova più vera e altruistica dell’amore stesso.  “Distruggo tutti quelli che amo e non posso permettere che a Hannah e a Harrison succeda questo. Li devo proteggere. Da me”. Non può permettere che l’esito sia quello di Debra. Amare davvero allora non può che significare dire addio.

Dexter lascia l’amore nel momento esatto in cui si rende conto di averlo trovato dentro di sé.

L’ironia tragica è tutta qui: essere, ora sì, in grado di amare e non poterlo fare. Rinunciare all’amore per amore. Iniziare ad amare nel momento esatto in cui si sottrae a quell’amore. Dexter è un dannato. Non è né angelo, né diavolo. È un’aporia, una contraddizione vivente e senza soluzione. Non sarà mai felice. In quell’immagine finale c’è il doppio volto di Dexter. La luce e l’ombra, il bene e l’irrinunciabile male. C’è la vita e l’uomo costantemente proteso verso qualcosa che la sua stessa natura non gli permette di raggiungere. L’umanità eternamente sconfitta e la tragica bellezza dell’inaccessibile pienezza dell’amore.

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