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Billions non è per tutti

Billions di Showtime è il tipico “spuntino di mezzanotte” per chi ama le serie drama che ruotano attorno a un antieroe. Ambientata tra gli squali dell’alta finanza di New York è quella rara storia a cui il concetto di “piacere colpevole” si adatta perfettamente. Billions ha dialoghi pungenti e mostra con un interesse quasi da documentario le vite degli ultraricchi, ma in fondo è una serie piena di chicche piacevolmente amorali. Una sorta di sogno da “febbre di Wall Street”, costellato da canzoni pop ironiche. La definizione migliore forse è quella proposta dal critico americano Allie Pape: “Un trash di prestigio”.

Un divertimento sporco e a suo modo genuino che non scade mai nel troppo serioso come accade a molti prodotti analoghi a questo.

Billions

Nel corso di quattro stagioni, Billions, creata da Brian Koppelman, David Levien e Andrew Ross Sorkin, ha anche mostrato la rara capacità di evolversi, cambiando agilmente, adattandosi e intercettando tematiche nuove e sempre più d’attualità. La prima stagione si mosse all’interno di una formula semplice. Una specie di duello alla Willy Coyote contro Road Runner tra due stili di ambizione tipicamente maschili: da una parte il fondatore Bobby Axelrod (Damian Lewis) dall’altro Chuck Rhoades, il pubblico ministero politicamente ambizioso (interpretato con grande profondità da Paul Giamatti). Un insider trading da una parte e un risentito pubblico ministero, impaziente di mandarlo in prigione, dall’altro.

C’è anche un sacco di sesso incrociato e trasversale, ovviamente, che condisce le dinamiche e le vite di questi due personaggi di un mondo finto e dorato. Per la maggior parte coinvolgono Maggie Siff nei panni di Wendy Rhoades, una terapista, che in modo molto divertente è sia la moglie e dominatrice di Chuck sia l’impiegata, il guru e forse l’anima gemella di Axe.

Un plot molto sulle corde e nel tipico stile Showtime: ingannevole e schivo, ma al tempo stesso spiritoso, ben ritmato e soprattutto chiaro nel rendere le transazioni di Wall Street comprensibili.

Il fulcro principale di Billions è Axe, un genio del mercato gran stratega e in forma, che mostra piccoli barlumi di coscienza ma che a un certo punto erompe in un favoloso: “Non sono umano. Sono una macchina! Sono un fottuto Terminator!“. Il suo bisogno di controllo è esattamente ciò con cui ci identifichiamo di più. Ciò che nelle recondite radici della ricerca del successo e della rivalsa ci fa sentire come lui. È ovviamente molto più complesso immaginarci di essere Chuck. Un personaggio scritto e interpretato in modo superbo, ma più legato alla normalità. E anche quando inizia a crollare diviene troppo scontroso, troppo tormentato per divenire “desiderabile”. Axe, al contrario, è una visione di pura trascendenza meritocratica. Chiunque vorrebbe essere così bravo nel proprio lavoro da potersi muovere impunemente nei meandri del confine tra lecito e illecito.

Billions

Billions inizialmente assolveva alla necessità di vedere un prodotto che realizzasse le nostre fantasie catartiche. Ma quanto sarebbe potuta durare? C’era sempre il rischio di rimanere bloccati in una formula ripetitiva. Quante volte avremmo potuto vedere Axe battere Chuck e poi viceversa? E così, dopo la conclusione della prima stagione, la serie iniziò, in modo intelligente, ad ampliare i propri orizzonti. Ed ecco arrivare personaggi complessi e brizzolati: da Eric Bogosian a David Strathairn, insieme a una vasta gamma di CEO, venture capitalist, analisti e loschi avvocati. Una vera e propria Westeros di personaggi compromessi e destabilizzanti.

La strategia degli showrunner è stata quella di testare questi personaggi. Testarli e saggiarli portando al centro il più forte. Di fatto variando l’adattabilità strutturale dello show che è il marchio di fabbrica della serialità di questi anni.

Nella terza stagione la serie ha iniziato a esplorare una visione alternativa dell’eroismo: più dolce, estraneo e, a suo modo, quasi idealista. Introducendo un personaggio in grado di sconvolgere il sistema stesso su cui poggiava tutto.

Quella nuova figura è il genio del poker ultrarazionale Taylor Mason. Un millenial esperto di tecnologia, praticante di Tai Chi, ex membro di Occupy Wall Street che parla con un costante e monotono umorismo sporco. All’apertura della quarta stagione, Chuck è stato licenziato e Axe lo ha definitivamente superato in astuzia. Sono però uomini paralizzati e costretti a un’alleanza. Taylor è diventato il quasi-protagonista cavalleresco dello spettacolo, sostituendo la guerra di classe con una guerra generazionale.

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Nel finale della scorsa stagione, Taylor ha tradito il “loro” mentore, Axe, fondando una nuova società: la Taylor Mason Capital, con clienti e personale rubati: “Ci sono cose con cui si sentivano a loro agio in Axe Capital che non faremo mai” dice Taylor ai potenziali assunti. Mentre i suoi rivali sono inclini a citazioni letterarie (Chuck) o analogie sportive (Axe), lui segue la strada tipica dei nerd quando devono usare una metafora:

Ci hanno trasformati tutti in Starship Troopers, ci hanno mandato a Klendathu e ad alcuni di noi hanno mangiato il cervello. E non è stato fino alla fine del nostro tempo che ci siamo resi conto che eravamo sempre i cattivi. Qui non è così.

Forse sì, forse no. La nuova impresa di Taylor è possibile solo grazie a una partnership strategica con un oligarca russo, un miliardario omicida interpretato sapientemente e con evidente gusto da John Malkovich (che di recente è stato coinvolto in un assurdo malinteso).

Taylor è interpretato invece da Asia Kate Dillon, un attore che, come lo stesso Taylor, si identifica come genderqueer. Il carisma monastico che mette in scena irradia un diverso tipo di eccezionalità fisica rispetto a quella di Axe. Una misteriosa interruzione delle dinamiche di genere nello spettacolo che non solo funzionano molto bene, ma risultano innovative e affascinanti.

Prima dell’arrivo di Taylor, Axe era il modello di riferimento predefinito e stereotipato. Ora il nuovo arrivato ha cambiato tutto.

Fa apparire Axe più malvagio. La calma di Taylor fa sembrare i suoi avversari “rumorosi“, frenetici in modo quasi fastidioso. Specialmente gli uomini, che sbraitano per il potere. La loro goffaggine ideologica li rende deboli. Sottile, vestito con giubbotti grigi e rifiniti, con un’aria lentigginosa e meditativa, Taylor ha una neutralità che mette in risalto la specificità degli altri personaggi.

Taylor però è tutt’altro tipo di personaggio. Acuto tanto quanto Axe. Come lui quasi divino nel suo talento, ma emotivamente sensibile e che combatte il bigottismo attraverso prestazioni eccezionali. C’è una forza non scontata, e forse neppure prevedibile, nell’avere un personaggio non-binario interpretato da un attore non-binario, che lo fa emergere come l’eroe di questa serie. E tutto questo senza incappare nel rischio di piegare il personaggio in una rappresentazione serafica e angelica di purezza incorruttibile. Come purtroppo spesso accade ai personaggi che sono pionieri in una nuova rappresentazione della realtà. Soprattutto su temi così divisivi e sensibili.

Quindi è stato davvero incoraggiante vedere il suo personaggio divenire sempre più profondo, sfaccettato e complesso, attraverso una storia d’amore geniale con un filantropo digitale. E nell’ultima stagione con gli incontri con il padre che fatica a gestire l’uso non-binario dei pronomi.

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Tuttavia, il miglior ruolo di Taylor potrebbe essere semplicemente quello di un narratore freddamente insensibile. A un certo punto, Wendy cerca di far imbarazzare Taylor per il tradimento, insistendo sul fatto che un hedge fund non riguardasse i profitti, ma si trattasse di “relazioni durature, vera lealtà, vera fiducia“. “No“, risponde Taylor, dopo una pausa ponderata e molto efficace. Offrendo quello che potrebbe essere lo slogan della serie: “Sono abbastanza sicuro che ci siano solo soldi. E possono comprare tutte quelle cose, o almeno lo stesso risultato. Questo è quello che tu e Axe mi avete insegnato“.

Per tutte queste ragioni, per i temi trattati, per i personaggi e soprattutto per la leggerezza piena di qualità con cui li affronta capite bene che Billions non è una serie qualunque.

Non è una serie che si adatta a tutti i palati. Come quello “spuntino di mezzanotte” a cui ci rifacevamo in principio è una storia che richiede una disponibilità da parte del pubblico: quella di non coricarsi immediatamente dopo. Ma di rimuginarci sopra cercando di apprezzare l’aspetto pioneristico incastonato in un prodotto mutevole e cangiante come solo le fluttuazioni di Wall Street sanno essere.

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