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La pittoresca (e geniale) colonna sonora italiana della seconda stagione di The White Lotus

Attenzione: evitate la lettura se non volete imbattervi in spoiler sulla seconda stagione di The White Lotus

Ci sono delle colonne sonore che non sono solo delle colonne sonore: sono dei veri e propri personaggi, in carne e ossa. In musica, dentro l’anima di una storia. Ne catturano l’essenza, la immortalano, danno vita a un racconto parallelo che non si limita ad accompagnare gli eventi ma ruba la scena alle immagini. Quel che sentiamo diventa ancora più importante di quel che vediamo, talvolta. E se si parla di The White Lotus, in particolare della seconda stagione, la straordinaria colonna sonora curata da Cristobal Tapia de Veer va persino oltre, dentro un sogno onirico cristallizzato nel tempo che assume i contorni dell’angosciante bellezza della dissoluzione. Sussurra, evoca, suggerisce, irrompe in scena con spietata regolarità. Ma allo stesso tempo costruisce e dissolve ogni singolo dettaglio d’una cartolina irrealistica eppure vera. Ci porta dentro un’altra epoca, forse mai davvero vissuta, dentro un Paese che non è mai davvero esistito. Schiaccia in una sola dimensione la lussuria degli antichi Dei e quella dei nuovi Dei, donne e uomini tra noi. Divinità di un’altra classe, la nostra classe. Altro, sull’Olimpo. Eppure noi stessi, nella nostra essenza più pura. Smarrita e poi ritrovata tra i vicoli di sterili esistenze, mai davvero appagate dall’opulenza e dalla lussuria. Schiavi del vizio, testimoni ipocriti della virtù.

The White Lotus racconta tutto ciò e molto altro, in un arco fortemente sessualizzato e colmo di tossicità che lascia spazio all’amore (forse) solo negli ultimi istanti. Nella seconda stagione ancora più che nella prima. Nell’eterea Sicilia di un sogno che si pensa non tornerà mai più si staglia lo spettro del dubbio, dell’incomunicabilità, dell’incapacità di esser davvero pieni, totali. Sospesi e frammentati, vaporizzati tra il sole e il mare, persino morti. Sepolti per un istante, negli abissi. Se non vivi, a metà. Più consci di quel che siamo, nell’arco di una vacanza che ha il sapore della resa dei conti con noi stessi. Dentro il contesto ideale, idealizzato. Romantico e aspro, dipinto con grazia e poi distrutto brutalmente pezzo dopo pezzo. Attraverso le immagini, fotografie che prendono vita, debordano dai confini, attraversano la storia e si sintetizzano in una ridondante burrasca di mezza estate. Nei chiaroscuri dei volti, gli sguardi e le parole degli interpreti di una farsa insostenibile. All’interno di una nota intonata, eppure stonata. Nell’anima di una colonna sonora che rapisce, esaspera, illude e poi ci scaglia sugli scogli. Col cinismo di chi vuole, in fondo, prenderci per i fondelli e ridere di gran gusto. In Italia, tra gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. Oggi. A colori e in bianco e nero. Tra De André e Myss Keta, Puccini, le mani, i piedi e il c**o d’un ludico saluto.

Fin dalla sigla, ogni nota udibile nella seconda stagione di The White Lotus è un manifesto d’intenti. Un manifesto che si muove nell’assurdo, gioca col paradosso, omaggia i più grandi e poi ci riporta sulla Terra, ai nostri giorni. Geniale, nei contrasti. Renaissance, l’opening, destabilizza. Subito. Non rassicura, angoscia. Sembra arrivare dall’appunto smarrito d’un aedo della Magna Grecia, si lega a un affresco, ci immerge in un’immagine statica. Ma statica non è, affatto. Si distorce, dopo poco: ci riporta a noi, disturba, si schiude in sonorità europop e ritrova un’immediata riconoscibilità, fino a diventare martellante e irrinunciabile. Ma è solo una sintesi, efficacissima, di quel che vediamo poi in scena. Mentre le vicende dei vari protagonisti si divincolano tra eventi sempre più surreali e a tratti grotteschi, la colonna sonora assume da subito i contorni di una voce fuori campo. Un narratore esterno che sfonda ogni barriera tra i personaggi e gli spettatori e ci permette di vederli per quello che sono, senza discrezione. Antieroi amorali se non immorali, con rarissime eccezioni. Smarriti dentro un naufragio.

Nello sviluppo della colonna sonora di The White Lotus, si presentano così quattro piani distinti, tutti molto italiani.

La dimensione più classica, associabile soprattutto al forte simbolismo che caratterizza l’esposizione visiva del racconto (a partire dall’oscura e onnipresente Testa di Moro), evoca la tragedia e una costante sensazione mortifera e decadente che unisce una sfera più sentimentale e amorosa a una più fisica, fatalista. In particolare, accompagna a più riprese gli ultimi giorni della vita della tormentata Tanya, inconsapevolmente avviata verso una fine amara e beffarda, attraverso le note pucciniane di Madama Butterfly. Il lirismo assume però diverse sfumature, anche ludiche e scanzonate: se possibile, ancora più efficaci nel costruire un contesto tragico e un soffocante senso d’inevitabilità. Si abbraccia così una musica popolare imperniata di sicilianità, popolare, incalzante e armonico nell’unire registri sonori apparentemente incompatibili.

Altrettanto si può dire a proposito di una colonna sonora più vicina ai nostri giorni, contestualizzata in buona parte tra gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta. In questo caso, un senso di malinconia e di amara dolcezza pervade parole e note di alcuni tra i migliori interpreti della storia del cantautorato italiano e della canzone più disimpegnata. Un’intimità essenziale, rivelatrice. Come essenziali sono gli strumenti prevalentemente utilizzati (chitarra e piano), più che sufficienti per riempire la scena con grande carisma e spiccata originalità. Colpisce in particolare, a dir poco, l’utilizzo audace fatto di alcuni tra i brani più intensi di Fabrizio De André, e qui è necessario distinguere l’approccio del pubblico italiano rispetto a quello statunitense: mentre per i primi le parole dei testi sembrano essere in diversi casi dissonanti rispetto alle scene nelle quali vengono inserite (si pensi alla funerea Preghiera in gennaio dedicata all’amico Tenco, associata a più riprese alla coppia formata da Harper ed Ethan), per il pubblico statunitense che non conosce la lingua italiana tutto è più semplice, spiegabile, vivibile nella pienezza dell’esperienza audiovisiva. Perché la colonna sonora della seconda stagione di The White Lotus è, prima di tutto, un viaggio nel tempo. Dentro una sfera eterea a cavallo tra il Paradiso e l’Inferno, ben al di là delle parole.

La narrazione di Mike White non intende essere rassicurante né soffice. E ci chiude in una prigione dorata dalla quale è impossibile sfuggire. L’Italia di The White Lotus si accavalla tra il passato remoto e il passato prossimo, tra le luci della Dolce Vita, gli omaggi al cinema che fu e le ombre di un posto non fisico, tanto suggestivo da perdersi nella disillusa realtà. Una gabbia nella quale i protagonisti ritrovano se stessi, dopo esser sfuggiti per una vita intera. E fanno i conti con le proprie debolezze, le proprie imperfezioni e l’oscurità che li avvolge. Vittime e carnefici di un destino che sembra già scritto e si snoda dentro una storia addensata dalla ciclicità. Dalla Grecia degli antichi, quanto dal mesto 2022. Il presente pare quindi bussare alla porta per riprendere uno spazio vitale. Così, al pari di quel che succede nelle note dell’opening, la colonna sonora si schiude, armonicamente. E permette, dentro un pittoresco paradosso, di dar spazio anche alla nostra Italia. Quella più reale, evasa da una cartolina. Dentro Myss Keta e La Rappresentante di Lista, nel gioioso contesto di feste che celano però macabri fantasmi. Presenti sulla scena senza stonature, in coro con artisti profondamente distanti.

Non si può quindi non apprezzare il coraggio col quale The White Lotus ha presentato una colonna sonora tanto eclettica e diversificata, capace di trasmettere un unico messaggio attraverso un viaggio all’interno di generi, storie ed esperienze solo apparentemente slegate. Un esercizio di stile intrigante e mai fine a sé, al contrario funzionale al racconto. Una soundtrack imponente che non può non piacere a chi, quelle canzoni, le conosce e le canta da una vita, senza sapere che un giorno avrebbero dato le contrastanti sensazioni che ci hanno dato in questo contesto. E ancora più per chi, di quei brani, ignorava del tutto l’esistenza. Ignorandone allo stesso tempo la lingua, a sua volta monumentale nel dare un senso di intangibilità a un mondo fin lì sognato nelle più dolci delle nottate. Niente male, per una serie tv che si pone sempre l’obiettivo di danzare sulle convenzioni per usarle a piacimento. E risulta essere, sempre e comunque, del tutto imprevedibile e avanguardista. Ideale, per una nuova era del Rinascimento delle serie tv.

Antonio Casu

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