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The Premise vorrebbe far sorridere, ma ci inquieta quasi quanto Black Mirror

The Premise, l’antologia dell’adesso. Una serie brevissima scritta da B. J. Novak, che i fan di comedy ricorderanno come Ryan Howard di The Office. Già questo elemento dovrebbe portare a darle almeno una possibilità. L’altro è che l’antologia si beve veramente in poco tempo, eppure apre questioni complicatissime per le quali non basterebbe un’enciclopedia per districarne gli snodi più importanti.

Ma andiamo con ordine: la serie si chiama The Premise, perché parte appunto da “una premessa” che lo stesso Novak ci racconta a inizio di ogni episodio. Un po’ come se ci rivelasse la tematica di fondo di ogni storia, ci parla brevemente di una questione morale da affrontare. Proprio per gli argomenti che tratta, è inevitabile il confronto tra The Premise e Black Mirror, il gioiello antologico di Channel 4 prima e Netflix poi. Mentre però Black Mirror sceglie di dedicarsi principalmente all’attualità attraverso la lente distorta delle nuove tecnologie, The Premise decide di focalizzarsi più che altro sulla moralità umana in senso al contempo più ampio (non focalizzato solo sul rapporto on la tecnologia) e stretto (piccole storie, piccole situazioni) di Black Mirror.

Eppure la differenza più grossa che si nota tra le due serie in questione è soprattutto di mood e genere: Black Mirror è più distopica, più cupa, secca e inquietante. The Premise è più leggera, luminosa e questo si ravvisa anche nell’utilizzo di una palette più colorata e chiara. Ma questo la rende davvero meno inquietante? Anni di serie tv ci hanno ormai temprato alla necessità di dover staccare la percezione visiva da quella psicologica, ormai possiamo dire per certo che quello che vediamo spesso non è ciò che sembra. Passando in rassegna i temi dei cinque episodi, ci appare chiaro come il sole che non si tratta do una serie così delicata come vuole apparire.

The Premise: le questioni morali

Il primo episodio si intitola “Social Justice Sex Tape” è si concentra su un caso di brutalità della polizia nei confronti di un ragazzo nero. Una tematica quindi non solo attuale, ma potenzialmente esplosiva soprattutto negli Stati Uniti, dove casi di questo tipo sono all’ordine del giorno. La vera particolarità dell’episodio, però, è un altro: al centro di tutto c’è un video porno amatoriale di un ragazzo che, per puro caso, avrebbe ripreso l’evento e potrebbe quindi scagionare il ragazzo di colore.

La tematica dell’episodio si sdoppia in due: da una parte un ragazzo nero accusato per un pregiudizio razziale, dall’altra il ragazzo bianco (colui che ha fatto il video) messo alla berlina per il suo atteggiamento nei confronti del sesso, ancora una volta per un pregiudizio. Al di sotto di tutto questo, Il ruolo del sesso nella nostra società – che attira sdegno moralista e morbosità cronica allo stesso tempo – e il ruolo dell’avvocatura, capace di manipolare tutto e tutti. Una serie di tematiche e sotto-tematiche interessanti, certo, ma anche inquietantemente attuali se ci fermiamo a riflettere.

Il secondo episodio, di gran lunga il migliore per quello che ci riguarda, è “Moment of silence” e si concentra invece sulla lobby delle armi. Come l’episodio precedente, questa tematica sociale principale sottintende tutta una serie di altre tematiche satellite di carattere emozionale ed umano. In questo caso si parla di elaborazione del lutto, della capacità di rimanere empatici con gli atri ed il mondo quando si sta vivendo una tragedia personale significativa.

Come si fa ad andare avanti quando il dolore è così profondo da non prevedere una via di uscita?

Ovviamente non spoileremo alcun finale, ma basti sapere che questo episodio fa un eccellente lavoro nel mantenersi leggero nei suoi dialoghi (come nel rapporto tra i due colleghi) pur lasciando scorrere un sottile strato di vera inquietudine, che si svela mano mano. Come una superficie di ghiaccio colpita, dove inizi a vedere la crepa quando ormai questa si è allargata al punto di non ritorno.

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Il terzo episodio è “The Ballad of Jesse Wheeler”, quello che più di tutti nasconde il suo tema sociale e morale nel profondo, sotto strati di spavalderia giovanile. L’episodio è incentrato sulla scuola e sui teenager, sarebbe facile farne un cliché della categoria. Eppure in realtà tutto l’episodio è un attacco al sistema scolastico americano, quasi una feroce parodia, in cui è chiaro che sono più le parole della popstar di turno che non degli insegnanti a dare ai ragazzi la motivazione che serve per brillare.

La scuola non è in grado di trovare gli strumenti, il linguaggio, il modo adatti per parlare agli studenti mentre un ragazzo della loro età sì. Il fatto poi che il “premio” in palio promesso dalla popstar sia futile e volgare, non fa che rendere ancora peggiore la critica: i ragazzi non hanno speranza in un futuro brillante ma nel mito di fortuna, soldi, fama e sesso. Il finale nostalgico e amaro parla poi anche di altro: sotto a tutta quella giovane spavalderia, ci sono giovani soli e alla ricerca di rapporti autentici e duraturi.

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Il quarto episodio si intitola “The Commenter” e forse è quello che davvero si avvicina alla distopia di Black Mirror, solo meno futuristica e più inquietantemente presente. All’inizio dell’episodio Novak commenterà: “io sono il classico tipo che anche se riceve 99 commenti positivi, si concentra su quei soli 40.000 commenti negativi”, ed è quello di cui in effetti parliamo pur parlando, come al solito, di altro: perché sotto a quella concentrazione sul negativo, si nasconde la fragilità dell’era social da cui noi tutti siamo affetti.

Il privilegio dell’anonimato e, d’atro canto, un confine tra digitale e reale, filtro e autenticità, costruzione e spontaneità sempre più labile sta costruendo una società egoriferita ed estremamente affamata di conferme. Altra tematica serissima e attuale, che l’episodio affronta con tono sempre molto frizzante ma che fa comunque riflettere. Altro elemento efficacemente espresso è quello dell’identità – esistente solo in quanto fotografabile, comunicabile agli altri, postabile – ma vuota nella sostanza.

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L’ultimo episodio è “Butt Plug”, un finale fantastico per un’antologia di questo tipo. Come per gli altri episodi abbiamo più livelli di comprensione. Il primo, quello della tematica sociale, è il bullismo. La storia tra la vittima e il suo bullo che si inverte, come vuole il karma, da adulti: il bullo è ora un uomo povero in crisi economica, la vittima un ricchissimo imprenditore. Il primo chiede al secondo un aiuto e da qui scaturisce il desiderio di vendetta dell’uomo d’affari.

Contemporaneamente si muovono numerosi fili: la critica sociale più pura, quello del classismo che permette uno squilibrio di potere quasi totale nei meccanismi lavorativi; quello dell’identità, che recupera il famoso mito della Nave di Teseo: “se sostituisco tutte le parti della nave di Teseo, si tratta sempre della stessa nave?” e, infine, quello della morale: è giusto vendicarmi di chi mi ha bullizzato? O anche, è giusto non contribuire a spezzare il circolo di violenza solo perché ne sono stato vittima? Una domanda universale che ancora oggi è la radice di moltissimi mali e, ora come allora, non ha una risposta netta e univoca. E alla fine di ogni episodio sorridi consapevole di non aver riso, non davvero, mentre il piccolo seme del ragionamento si piantava in una parte del cervello.

The Premise funziona perché reagisce con le nostre emozioni e paure più profonde. Pur non essendo tagliente e mordace come Black Mirror, inquieta perché la sua semplicità ci è ancora più vicina.

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